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IL CAPITALISMO ITALIANO:RIFLESSIONI E CONTRADDIZIONI

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Natura della crisi e ricadute sociali

ALESSANDRO RICCINI

Scommetti che ti diverti?Come e perchè la scommessa dei mercati contribuisce allo smottamento di ricchezza tra capitale e lavoro.

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1. Oltre la crisi finanziaria Il vertice G-20 che si è svolto alla metà del novembre 2008 è riuscito solo a sancire la fine dell’obsoleto schema del G7, poi divenuto G8. Per il resto le questioni più sostanziose (come la nuova “regulation” finanziaria) sono state rinviate al 3 di aprile, quando alla Casa Bianca ci sarà un altro presidente; come è stato argutamente definito da Marco D’Eramo sul “Manifesto” del 16 novembre, si tratta di “produzione di summit a mezzo di summit”. In realtà un accordo generale non è stato raggiunto in nessuno dei temi sul tavolo, uno dei quali è stato quello delle “regole” per il mercato finanziario, all’assenza (o alla presenza) delle quali, a seconda delle fasi storiche, viene addirittura attribuita la responsabilità delle crisi, dimenticando, o volendo dimenticare, che sono 40 anni che il sistema è in crisi indipendentemente dall’assetto normativo dei mercati finanziari. Sta di fatto che il summit si è diviso tra chi ne vorrebbe di più (come il Sarkozy) e chi ne vorrebbe ancora di meno (come l’uscente Bush); in queste brevi note si cercherà di evidenziare alcuni casi empirici di subalternità delle regole, che sono variabili dipendenti del sistema economico e ne vengono perciò influenzate (è perciò un’aberrazione pensare di risolvere la crisi tramite le regole o l’assenza di esse...) Su questo tasto si batterà molto, senza voler per questo dimenticare gli altri grandi equivoci che emergono in vertici siffatti: il taglio del tasso d’interesse, che rischia di rivelarsi una manovra assolutamente inefficace: in periodo di scarsa fiducia quale quello che stiamo attraversando, investimenti e tasso di interesse non sono “in pari materia”, per dirla con Keynes, e, sempre a proposito di Keynes (tornato improvvisamente di moda) si dibatte di un piano di rilancio dei consumi in “deficit spending”, strada che venne seguita tanto da Hitler quanto da Roosevelt negli anni ’30, che però rischia di dissanguare le casse degli Stati sbattendo poi sul solito problema (l’assenza di sbocchi per le merci) che alla fine degli anni ’30 portò a un conflitto mondiale tra imperialismi, cosa che attualmente equivarrebbe all’estinzione del genere umano. Insomma, allo stato attuale non si sa dove andare a parare, ed il motivo potrebbe essere ricercato nelle cause di questa crisi che, finalmente, non viene più definita come unicamente finanziaria. 2. Miti da sfatare Un mito che sembra uscire male dalla presente fase storica è quello dei “fondamentali sani” dell’economia cosiddetta reale, un mantra ricorrente dell’amministrazione Bush fino alla vigilia della catastrofe :in periodi di crisi da sovrapproduzione, quali quello che stiamo attraversando attualmente, accadono infatti strane cose: una di queste è che venga attribuita ai movimenti finanziari, insomma all’azione del capitale fittizio all’interno delle borse, un ruolo autonomo da quella che è la crisi dell’economia reale (in tal senso è salita alla ribalta recentemente la contrapposizione obamiana tra “Wall Street” e “Main Street”). Il messaggio che sembra imporsi è quello di un sistema dove l’andamento di una variabile può influenzare quello dell’altra, che altrimenti marcerebbe così tranquilla e beata...quindi spesso si sente parlare di “effetti della crisi finanziaria sull’economia reale”, ma visto che il contrario di reale è immaginario, allora si dovrebbe dedurre che quello che accade all’interno delle borse sia frutto di immaginazione, oppure che non sia economia. In realtà la divisione è artificiosa: si tratta forse, allora, di un artificio per far transitare denaro da una mano all’altra: in momenti di crisi (ed in questo caso, come detto, “il momento” va avanti da una quarantina d’anni...) la torta è prodotta è scarsa, e la legge della caduta ciclica del saggio di profitto appare in tutta la sua drammaticità: ecco che, le questioni relative alla “Wall Street”, diventano un sistema per succhiare risorse alla classe lavoratrice: insomma, essendo la torta scarsa, si cerca di appropriarsi di una fetta sempre più ampia della stessa torta, mentre nei momenti di espansione economica è la torta stessa ad allargarsi semplificando il lavoro di chi, prioritariamente, deve far crescere il saggio di profitto; lo “sporco lavoro”, detto per inciso, sembrerebbe che stia riuscendo abbastanza bene: la quota di ricchezza destinata al profitto è stata, durante tutta la crisi, in continuo aumento (in Italia, dal 23% del 1960 al 31% del 2005, fonte Bri). Da qui deriva la scarsa attendibilità dell’altra affermazione ricorrente secondo la quale la Borsa “brucia” soldi quando va in perdita; in realtà, non“brucia” nulla, semplicemente i soldi passano di mano, c’è chi guadagna e chi perde. Questi passaggi di mano avvengono su una scala vastissima, che ormai, dal punto di vista del mero conteggio quantitativo, ha superato di gran lunga il PIL mondiale: il totale degli asset finanziari è passato dal 109% del PIL mondiale (nel 1980) al 346% di fine 2006: è evidente che una tale “montagna” di carta cresce proporzionalmente al cosiddetto “crollo dei mercati”, stante che la ricchezza deriva solo dalla produzione: più si contraggono i margini di espansione del modo di produzione attuale, più aumenta la necessità di traslare ricchezza tramite i mercati finanziari: il guadagno avviene anche in caso di mercato depresso, tramite strumenti, quali lo short selling, che permette di guadagnare da un ribasso di Borsa, ed i derivati, come i Credit Default Swaps (CDS) dai quali scaturisce un guadagno in caso di deteriorioramento della situazione contabile di un’azienda. I derivati, dunque, si configurano come delle ulteriori sovrastrutture che vanno a montare sopra gli asset finanziari, arrivando nel 2007 a “cubare” oltre il 300% degli asset finanziari stessi. Questa pletora di capitale fittizio, però, non risolve il problema alla radice, la “congestione” di merci (sovra)pro¬dotte, consentendo solo di rastrellare qua e là scampoli di plusvalore già prodotto: questa oprazione, è bene chiarirlo, riesce altrettanto bene sia in fase di ascesa delle borse (comprando a poco e rivendendo a molto) che in fase di discesa delle borse, tramite meccanismi che saranno visti poco più avanti: lo scopo di queste brevi note è dimostrare come la Borsa sia funzionale al suo ruolo di redistribuzione del plusvalore già prodotto anche (e soprattutto) nelle fasi di contrazione dei mercati: vista sotto quest’ottica, la crisi di Borsa non può essere attribuita solo ad assenza di regole o a categorie morali quali “l’avidità” di banchieri e speculatori, ma come una fase necessaria dell’evoluzione di un modello economico. Occorre quindi andare oltre le categorie morali e/o moralistiche al fine di individuare il “filo rosso” che unisce i vari aspetti della crisi: il passaggio di reddito tra capitale e lavoro che avviene tramite la spesa pubblica (come nel caso del Piano Paulson) oppure tramite la speculazione finanziaria: 3. Primo caso: Il ruolo dell’effetto-leva e la triste storia del Piano Paulson È proprio nella massa di capitale fittizio, divenuto multiplo del valore reale del prodotto (effetto-leva), che va ricercata l’evoluzione del piano Paulson di salvataggio del sistema finanziario americano. Questo piano, messo a punto dal Ministro del Tesoro americano Henry Paulson, dapprima non prevedeva l’ingresso diretto dello Stato nel capitale delle banche ma era la “semplice” acquisizione di parte dello Stato delle attività-spazzatura; invece, la prima tranche del piano (290 miliardi di dollari su un totale stanziato di 700), invece, è stata spesa nel seguente modo: 250 per ricapitalizzare le banche e 40 per impedire il fallimento del colosso assicurativo AIG (Cfr: Massimo Gaggi sul Corriere della Sera del 19/11 - Sui salvataggi in America cova la rivolta). Paulson ha deviato dagli intenti iniziali (più confacenti all’ideologia liberista) attirando gli strali di buona parte del Congresso americano: questo perché, se si fosse trattato di acquisire solo le attività non buone, i 700 miliardi sarebbero stati solo, come si suol dire, “bruscolini”, mentre, proprio per effetto della leva, se gli stessi soldi vengono usati per entrare nel capitale delle banche allora l’intervento cambia natura. Ce lo spiega Walter Riolfi in un articolo sul Sole-24 ore del 12 ottobre, intitolato “Meno Leverage, più patromonio”: “Se i 700 miliardi del programma venissero usati, come era nel programma, per acquistare le attività in affanno delle banche USA, sarebbe come voler prosciugare uno stagno con il cucchiaio. Perché i 700 miliardi rappresentano appena il 6% di tutti gli attivi delle banche commerciali, senza contare quelle d’affari (o quel poco che ne resta) e le assicurazioni. Ma quell’importo corrisponde al 60% del patrimonio di tutte le banche del Paese. Dal che si può capire che il sistema esprime una leva finanziaria di 10 volte. Almeno nella media. Perché, per le banche più a rischio, l’esposizione arriva fino a 20-30 volte”. Questo illuminante passaggio ci dimostra come sia diventato importante il tema della “leva” finanziaria, che costringe lo Stato ad entrare nel capitale delle banche e delle aziende decotte. In pratica, si tratta del vecchio schema di profitti privati e perdite pubbliche che agisce nello stesso verso della speculazione (togliere alle classi lavoratrici per dare al capitale) tramite la leva fiscale.

4. Secondo caso: scommetti che ti diverti? Qualcuno ricorderà il felice slogan di una campagna pubblicitaria del Totip di qualche anno fa: “scommetti che ti diverti?”. Vediamo in questo caso chi ha scommesso e chi si è divertito: per una curiosa coincidenza, la crisi delle borse cade con lo stesso periodo del culmine della crisi dell’ippica italiana con ippodromi chiusi e manifestazioni nazionali,centinaia di posti a rischio: il paragone non è troppo azzardato: nei periodi di crisi prevale la logica dell’operare a breve termine, il “prendi i soldi e scappa” ed acquistare un titolo o un derivato è effettivamente equivalente a scommettere su un cavallo, con la non secondaria differenza che se tutti gli scommettitori puntano sullo stesso cavallo il cavallo non è che per questo motivo corra di più: in Borsa, invece,è esattamente questo che accade: si punta sul risultato di un titolo, e più si è a puntare più il risultato del titolo potrà essere brillante. Allo stesso modo, il fatto che molti operatori abbiano aspettative negative su di un titolo può indurre un’ondata di vendite. Il punto è che da questa ondata di vendite non è detto che ci rimettano tutti: anzi, non lo è affatto: chi gioca al ribasso ci guadagna. La vendita allo scoperto è, almeno in teoria, l’arma preferita dai cosiddetti ribassisti: in pratica il meccanismo è abbastanza semplice; vediamo più nel dettaglio, semplificando tutto il semplificabile: ammettiamo che l’operatore ribassista abbia ragionevoli aspettative che l’azione dell’azienda XY subisca un calo del valore nella settimana successiva. La prima mossa da fare è quella di vendere le azioni di detta società al prezzo di oggi senza in realtà averle nel portafoglio, promettendo la consegna dopodomani (in realtà le cose sono più complicate: ci sono vari tipi di vendita allo scoperto: lo shorting classico prevede il prestito del titolo da parte di un broker, mentre lo shorting cosiddetto “naked” prevede la consegna posticipata del titolo). Ammettiamo che la promessa di consegna avvenga il 13 dicembre, e che riguardi 100 azioni della XY al prezzo di un euro l’una da consegnare il 15 dicembre. A questo punto occorre dividere bene i ruoli tra chi compra e chi vende:

Chi vende allo scoperto spera che il prezzo delle azioni sul mercato cali nei due giorni. Allo scadere dei due giorni, infatti, dovrà tornare sul mercato e reperire “al volo” i titoli; ammettiamo che il prezzo delle azioni, in quel momento sia di 0.98 euro per azione. Egli comprerà le 100 azioni promesse spendendo però solo 98 euro, e le rivenderà incassando, come da accordi, 100 euro guadagnando 2 euro.

Chi ha comprato i titoli sperava invece che il prezzo salisse. Se le azioni fossero costate infatti 102 centesimi egli avrebbe potuto acquistarle a 1 euro e rivenderle subito a 102 centesimi guadagnando anche in questo caso 2 euro.

Va da sè che non tutti gli operatori di mercato sono ribassisti: anzi, la maggioranza del cosiddetto “parco buoi” ossia chi entra in Borsa con piccoli capitali sperando che nel medio-lungo periodo rendano più di un deposito bancario, è decisamente rialzista: così come, alla fine, chi investe parte deu sui guadagni nei fondi-pensione, sperando di ritrovare i frutti dell’investimento come salario differito alla fine del periodo deve veder incrementato il valore delle quote detenute. Invece, la vendita al ribasso è uno strumento più che altro di quei trader che cercano di cavalcare l’onda (negativa). Tornando alla metafora iniziale, è come se volessero scommettere sulla defaillance di un cavallo: questo meccanismo ha una precisa responsabilità nel fatto che le borse sembrino sempre più spesso oscillare tra euforia e panico: il meccanismo della vendita allo scoperto, imitato da una molteplicità significativa di operatori, fa avvitare le borse su sè stesse e contribuisce ai crolli vertiginosi cui abbiamo assistito in questi ultimi mesi.

5. Effetti collaterali del ribasso in Borsa e prova empirica della subalternità delle regole alle leggi economiche Il panico in Borsa ha degli effetti chiari e visibili sulla distribuzione di reddito tra capitale e lavoro: ad esempio, il lavoratore dipendente che affida il suo salario differito ai fondi pensione si trova depauperato in favore dei ribassisti. Un andamento di panico costante in Borsa, che quindi esula dall’ottica di breve periodo, a parte togliere soldi ai rialzisti e in genere a quello che si definisce parco-buoi, crea problemi di bilancio alle aziende e alle banche, che hanno in bilancio anche assets finanziari che, nel caso dell’Unione Europea, per rispetto alle indicazioni contenute nei principi contabili IAS, devono essere iscritti per quello che si definisce Fair Value ossia valore di mercato: questi criteri sono introdotti nell’Unione Europea nel 2002 con il Regolamento (CE) n. 1606/2002 per questioni di trasparenza: il razionale è quello di iscrivere asset in bilancio al valore effettivo di mercato nel momento in cui il bilancio stesso viene redatto. La situazione attuale dei mercati è però talmente penosa da aver costretto l’Unione Europea a dare facoltà alle aziende quotate ed alle banche di non adottarlo, dato che se si dovessero iscrivere in bilancio i titoli all’attuale valore si avrebbe un netto peggioramento dei saldi: ad esempio, nel caso di Intesa-Sanpaolo il terzo trimestre del 2008 è stato chiuso con un utile di negoziazione pari a 329 milioni di euro, mentre senza tale deroga il saldo sarebbe stato negativo. Si argina panico, ma la regola ha effetti collaterali indesiderati: lo spiega Alessandro Graziani in un articolo sul Sole-24 Ore del 13 novembre 2009: “In generale, la sospensione dell’applicazione del fair value ha l’effetto di stemperare nei bilanci gli effetti della speculazione. Ma non bisogna dimenticare che anche la trasparenza è stata sospesa. E il mercato resta in attesa di un outing definitivo sulla composizione del portafoglio di titoli e crediti a rischio. Quanti asset tossici sono ancora in circolazione? Chi li ha in portafoglio? Le trimestrali, anche grazie al beneficio della sospensiva degli Ias, non hanno fatto chiarezza. Finchè questo nodo non sarà sciolto in via definitiva, difficilmente tornerà la fiducia tra le banche. E, a seguire, anche quella degli inventori e della clientela” (A. Graziani - Gli IAS, Profumo e gli altri). Questa situazione dimostra inequivocabilmente come le regole, anche quelle improntate alla trasparenza, sono subalterne anch’esse alla gravità della crisi: addirittura la crisi in atto ha condotto a modificare i principi contabili; quindi, dire che al crisi può essere risolta grazie ad un sistema di regole significa intestardirsi sulle variabili dipendenti.

6. Altro esempio dell’inutilità delle regole e ruolo dei derivati Si è molto parlato in questi giorni di vietare le vendite allo scoperto al fine di bloccare tale trend. La manovra però rischia di rivelarsi inutile (le regola che ha imposto il blocco trisettimanale dello short-selling deciso dalla SEC negli USA a metà settembre sta li a dimostrarlo) il mercato ha continuato a calare, anche per il ruolo giocato dal mercato dei derivati: il divieto di vendita allo scoperto consiste nalla proibizione di vendere un titolo senza disporre di esso in portafogli. Tuttavia, esistono in Borsa dei prodotti raffinati che consentono di aggirare tale divieto. Ad esempio, si può negoziare non la vendita del titolo ma il diritto di vendere quel titolo nel futuro (in tal caso si parlerà di opzione Put) oppure, ancora, si può vendere un Future sugli indici di Borsa: in quest’ultimo caso non siamo troppo lontani come tipologia, dalla scommessa all’ippodromo di cui sopra: vendere un contratto Future sull’indice Dow Jones singinfica scommettere che quell’indice calerà nel futuro. Come si vede, il divieto materiale di vendita allo scoperto rischia di rimanere un’arma spuntata. Un altro derivato che agisce in materia pro-ciclica è il famoso credit-default swap (CDS): è in pratica un contratto che assicura a chi lo compra un pagamento nel caso si dovesse verificare un determinato evento, ossia il fallimento dell’azienda cui il contratto è riferito: utilizzato in maniera corretta è una copertura per chi acquista un’obbligazione dal rischio che l’azienda emettitrice fallisca. Detta così, sembrerebbe un utile strumento di controllo di quello che comunemente è detto rischio-controparte: il problema è che spesso i CDS hanno un volume complessivo ben superiore a quella che è l’esposizione dell’azienda, ossia alle obbligazioni stesse: è sempre la vecchia storia della montagna di carta che si discosta dal valore reale di ciò che si intenderebbe coprire. L’effetto pratico di questa differenza di volumi è la possibilità di guadagnare sulla variazione del merito del credito di un azienda: più l’azienda va male, più i CDS dell’azienda in questione valgono sul mercato e possono essere rivenduti con profitto prima che si verifichi il fallimento: più il fallimento dell’azienda è probabile e più i CDS somigliano all’assicurazione sulla vita dello zio ricco 99enne: una ghiotta occasione per far soldi. Tuttavia c’è un particolare: che se l’azienda in questione va davvero in default, e i CDS ammontano a 10 volte il valore delle obbligazioni che coprono, il fallimento dell’azienda “cuba” 10 volte tanto come perdite complessive, amplificando così l’effetto domino del default. Va da sé che in questo gioco c’è anche ci guadagna (come detto, i soldi non vengono mai “bruciati”) ma occorre focalizzarsi sul fatto che anche questo tipo di leva aumenta vertiginosamente la velocità della caduta dei titoli. Un altro strumento che contribuisce ad atterrare il valore degli indici a velocità supersonica è il cosiddetto meccanismo di “stop loss”, ossia la vendita automatica dei titoli in portafoglio nel momento in cui essi perdono una percentuale prefissata del prezzo di acquisto: l’azione simultanea di tutti i software in dotazione ai trader fa si che la caduta del prezzo di un titolo sia esponenziale. In questo quadro, vietare le vendite allo scoperto può apparire abbastanza inefficace come sistema per garantire le riprese dei mercati: gli operatori di mercato basano la propria scelta sulle aspettative: e in questo momento, l’unica “aspettativa” valida è un ricco rastrellamento di risorse pubbliche (ossia pagate con i proventi delle tasse, in massima parte quindi dal lavoro dipendente) verso il capitale.

7. Una specie di conclusione Una soluzione all’orizzonte per la crisi attualmente in atto non si intravede: l’unica costante che emerge analizzando i dati è il depauperamento della classe lavoratrice, un costante smottamento della ricchezza prodotta che si attua tramite speculazione finanziaria, (ingigantita ed accelerata da strumenti quali i derivati) e spesa pubblica nel (vano) tentativo di rianimare il malato. Un aspetto positivo dell’attuale fase è che alcuni miti sono stati sfatati, primo tra tutti quello dei “fondamentali sani”, mentre sembra resistere ancora il mito delle regole, che sembrerebbero in realtà rivestire più il ruolo passivo del notaio. La storia dimostrerebbe che la via d’uscita può risiedere in una guerra di vaste proporzioni oppure in uno shock tecnologico che consenta una ripresa del saggio di profitto, l’unica variabile in grado di restituire “fiducia”: la “rivoluzione verde” di Barack Obama sembra andare nella seconda direzione. In questo contesto, una maggior coscienza ed attività della classe lavoratrice al fine di riappropriarsi della quota di prodotto sottratta nel corso degli anni può risultare un utile obbiettivo di medio periodo.

Ricercatore indipendente