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INVITO ALLA LETTURA

CIRO PIZZO

Leggere il sociale

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Una strana parabola, quella de “Le metamorfosi della questione sociale”, che esce in traduzione italiana a poco più di dieci anni dall’originale francese. Sembrerebbe quindi un testo inattuale e in realtà lo si può considerare tale solo nell’accezione nietzscheana della inattualità, cioè la perenne attualità lo rende qualcosa che non deve fare i conti con il tempo che passa, come una fabula in cui ogni volta di nuovo de te narratur. Ed è una parabola, perché questo è il percorso che ha compiuto il salariato, dall’indegnità all’auge e un ritorno lento e inesorabile all’indegnità, con però un arricchimento, secondo la terribile e fatale parabola narrata da Hegel dello Spirito Assoluto, chissà se quel weberiano spirito del capitalismo che oggi si diffonde per il mondo apparentemente incontrastato, un aufhebung, un ritorno che si arricchisce e mette a frutto l’eredità del passato. Sembra qui il nodo. L’incapacità di far fruttare l’eredità del passato da parte del salariato e la perfetta capacità di far fruttare l’eredità invece del capitale. La produzione che ricomincia e stavolta ripercorre il cammino su scala più ampia, su scala mondiale. Ecco i richiami dalle campagne alle città, in un mondo che sta conoscendo una fortissima concentrazione delle popolazioni in città, con la creazione di nuovi “operai” e nuovi “quartieri operai”, in cui confluisce lo scarto della società, le classi pericolose, quelle persone che sono in soprannumero, ma che proprio per questo pesano sulla bilancia delle trattative per il riconoscimento dei salari, quelle anime morte, quei fantasmi pronti a comparire improvvisamente all’orizzonte, pallidi, nelle metropolitane più mattiniere, nei pullman sovraffollati, essere ingoiati dai buchi neri della produzione per essere risospinti nei luoghi da cui son partiti, negli stessi vagoni metropolitani o negli stessi pullman, nella loro invisibilità. Surnumerari che gravitano intorno a questo centro che davvero assomiglia a un buco nero, che li mantiene nell’orizzonte degli eventi e che da un momento all’altro è pronto a ingoiarli e a cancellarli per sempre. Ed è una storia che parla di sempre più persone, perché oggi il salariato più che sparire continua a moltiplicarsi, su scala mondiale. La cronaca di Castel è un paziente lavoro di ricostruzione di questo movimento, che avviene ogni volta nel linguaggio delle fonti, quasi a restituire anche nel linguaggio e nell’uso dei termini lo spirito dei tempi. Il movimento di fondo è un movimento centrifugo, un movimento che produce spinte verso il fuori lungo una traiettoria continua, che conosce solo segmentazioni arbitrarie, ogni punto che si cristallizza è puramente arbitrario e può servire ogni volta a creare segmentazioni e divisioni, barriere tra le zone che sono barriere di partizioni che producono distanze e distanziamento e riproducono divisioni che facilitano il lavorio continuo di individualizzazione dei gruppi, che erode e impedisce la ricreazione di quelle solidarietà di prossimità e solidarietà di quelle che una volta si chiamava classe, che è proprio della temperie neoliberale. La disaffiliazione è proprio questo movimento di progressivo snodare ogni giorno un filo di quelli che legano l’individuo al resto della società, uno sganciamento, una espulsione lenta e inesorabile dalle sfere di sociabilità che producono le molteplici appartenenze alla società. Questo forte movimento centrifugo non è che il trionfo della economia libera di agire, di slegarsi dai vari “lacci e lacciuoli”, che in realtà non sembrano che essere i “lacci e i lacciuoli” che legano l’individuo al collettivo, cancellando così la funzione coesiva dello Stato, che veniva svolta attraverso quel che si chiamava appunto lo stato sociale. Quel che sembra essere richiesto dai tempi, almeno in quelle poche indicazioni che l’autore lascia nelle pagine finali, in cui soltanto sembra trasparire un piccolo sguardo sul futuro, sottraendosi così alla necessità sociologica di una ricostruzione della storia del passato per la comprensione del presente, che è il compito che si assume Castel, è “uno Stato stratega che ridispieghi i propri interventi per accompagnare questo processo di individualizzazione, smorzare i punti di tensione, evitare le sue rotture e rimpatriare coloro che sono caduti al di là della linea di fluttuazione” (p. 554). In effetti, e questa è la conclusione della lunghissima parabola narrata in questo grande affresco storico e sociologico, ricchissimo di spunti di riflessione sul presente e sul futuro della nostra società, bisogna fare i conti con una considerazione che l’autore lascia alla fine: “in mezzo alle incertezze che sono oggi una legione, una cosa almeno è chiara: nessuno può sostituire lo Stato, in quella che ne è d’altronde la funzione fondamentale, condurre la manovra ed evitare il naufragio” (ibidem). L’immagine attuale di fatti sembra essere quella di una nave senza pilota o con un pilota incapace di gestire i marosi della storia, una navicella che si muove insicura in un mare incerto. Ma il cuore del problema, la ragione di questa incertezza, per Castel, resta lo status del salariato: “Il consolidamento dello statuto del salariato permette l’espansione delle protezioni, mentre la sua precarizzazione conduce, di nuovo, all’insicurezza sociale” (p. 380). Questa sembra essere l’eredità da raccogliere e da mettere a frutto per i salariati di oggi e di domani, ma, potremmo dire, per la società nella sua interezza. In fondo, come detto, in fabula de te narratur.