La crisi della “munnezza”: ovvero la dilatazione sociale della generale contraddizione capitale/lavoro
MICHELE FRANCO
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1. L’ex Campania Felix
Le vicende campane, ascrivibili, a vario titolo, al tema della cosiddetta emergenza rifiuti sono, inequivocabilmente, una vasta e complessa questione che non può essere catalogabile come problema che interessi unicamente Napoli e la Campania. Ciò che è accaduto lungo un arco temporale di oltre 15 anni è lo specchio di un particolare aspetto della generale contraddizione capitale/lavoro la quale, a determinate condizioni e con tratti di specifica strutturalità, segna e pervade l’intero ciclo della produzione, della riproduzione non solo del lavoro ma dell’intera dinamica sociale della società. Certo il disastro palesatosi nell’ex Campania Felix presenta chiavi di lettura coniate sulle caratteristiche del sistema di amministrazione del potere presente in loco ma - se sfrondiamo alcuni involucri di carattere “locale” - quello che, prepotentemente, emerge è la fotografia di un enorme eco-sistema violentato e devastato dal procedere tumultuoso di un modello societario le cui conseguenze, a breve ed a lungo raggio, iniziano già ad evidenziarsi in forme drammatiche.
In questo articolo non ci dilungheremo sulla documentazione riguardante i vari disastri provocati o sugli acclarati intrecci tra ceto politico di comando, sistema delle imprese e criminalità organizzata. Su tali argomenti esiste un ampia letteratura, a cui richiamiamo, che ha aperto uno squarcio di verità su un autentico verminaio antisociale dentro cui affoga la Campania. Le pubblicazioni di Roberto Saviano, le denunce di alcuni intellettuali organizzati nell’Assise di Palazzo Marigliano, il grido di Alex Zanotelli e, perfino, alcuni articoli de “L’Espresso” costituiscono una enorme mole di atti, racconti, testimonianze ed inchieste in cui si descrive cosa è accaduto in Campania mettendo sotto accusa da un lato l’intero sistema politico e dall’altro le palesi complicità e le vergognose omissioni da parte dei grandi mezzi dell’informazione e della Magistratura che hanno intuito, visto e taciuto riguardo la tragedia che si andava profilando.
2. Un necessario riepilogo
Per chi ci legge fuori dalla Campania è complicato addentrarsi nel ginepraio dell’affaire rifiuti. Riepiloghiamo, per punti sintetici, alcuni dati ed eventi su cui si è consolidata l’ultima crisi ribadendo che anche redigere una cronologia sistematizzata è un compito arduo a causa dei molteplici intrecci, non solo di natura affaristica ma anche temporale, con cui questa vicenda è incardinata al territorio:
mentre in molte regioni la raccolta differenziata è iniziata negli anni 70 e 80, da noi è partita dalla metà degli anni 90 e, a tutt’oggi, è sotto il 10% (laddove la legge stabilisce che per il 2003 si doveva riciclare almeno il 35% e alcune regioni italiane sono ormai sul 40-50%);
la quantità di rifiuti prodotta è aumentata sempre più: nel 1998 era di 424 Kg per abitante all’anno, oggi è di 485 Kg (fonte APAT);
la Giunta Regionale di destra, presieduta da Rastrelli (AN), ha varato nel 1997 un Piano che prevedeva 7 impianti CDR (gli impianti che separano la parte bruciabile dei rifiuti da quella non bruciabile) e 2 enormi inceneritori capaci di bruciare tutta la spazzatura prodotta in Campania, non rispettando le indicazioni della legge nazionale riguardo la necessità di privilegiare la riduzione dei rifiuti, la raccolta differenziata, il recupero, il riciclaggio ed il compostaggio;
la Giunta Regionale, succeduta a quella di Rastrelli, presieduta da Losco (centrosinistra), ha affidato la costruzione degli inceneritori e degli impianti CDR alla FIBE (del gruppo FIAT), preferendo la sua proposta perché il costo era più vantaggioso e i tempi di realizzazione brevi (1 anno), anche se il termovalorizzatore progettato era di vecchio tipo, particolarmente inquinante e la legge nazionale impone di scegliere innanzitutto la tecnologia meno nociva;
Bassolino, subito dopo il periodo della presidenza di Losco, ha utilizzato le ingenti risorse economiche elargite alla Campania per costruire i 7 impianti CDR e il termovalorizzatore di Acerra. Inoltre sono state pagate profumatamente consulenze “amiche” e non sono stati costruiti gli impianti di compostaggio dove trasformare i rifiuti organici in concime. In questo modo si è sabotato, di fatto, l’avvio di una seria raccolta differenziata;
i cittadini di Acerra hanno cercato di bloccare la costruzione del termovalorizzatore che, essendo di vecchio tipo e 5 volte più grande dei normali inceneritori, non li rassicurava, e non li rassicura ancora oggi, sulla tutela della loro salute;
gli impianti CDR, entrati in funzione, invece di produrre vero CDR (combustibile derivato da rifiuti) e FOS (frazione organica stabilizzata) hanno prodotto da una parte milioni di ecoballe, che non sono bruciabili perché contengono rifiuti putrescibili, dall’altra migliaia di tonnellate di materiale organico non stabilizzato e quindi anch’esso putrescibile. Tale materiale si è andato quindi accumulando presso gli impianti e siti di stoccaggio “provvisorio” come quello enorme collocato a Giugliano (Napoli) nella località Taverna del Re;
i Commissari Straordinari di governo succeduti a Bassolino (Catenacci, Bertolaso, Pansa, Cimmino, fino allo sceriffo De Gennaro), per risolvere l’emergenza, hanno aperto vecchie discariche (spesso sequestrate dalla magistratura perché contenenti rifiuti tossici smaltiti illegalmente dalla camorra), senza fare niente per risolvere alla radice il problema;
in questa situazione di sfascio la camorra, in combutta con molte imprese “pulite” ha potuto continuare a smaltire illegalmente rifiuti tossici e nocivi provenienti da tutta Italia sia in discariche che avrebbero dovuto contenere solo rifiuti non tossici, sia in discariche abusive, aiutata in questo anche dal testo unico delle leggi sull’Ambiente varato dal Governo Berlusconi che, declassando una serie di reati, ha reso più difficile l’azione della magistratura (intercettazioni telefoniche ecc.).
3. Dietro l’angolo della crisi campana
Leggendo i punti sopraelencati è possibile delineare il contesto politico, economico e sociale in cui si è consumato il disastro in Campania. Questa descrizione, dopo anni di lotte e di denunce, non è più sostenuta solo dagli attivisti dei movimenti di lotta ma è diventata patrimonio comune di un ampio arco di forze che iniziano ad interrogarsi sul nefasto ruolo che le istituzioni, con modalità bipartisan, hanno esercitato. Spesso, però, questa nuova consapevolezza, che coinvolge larga parte delle organizzazioni ambientaliste non colluse con le amministrazioni e settori del mondo cattolico con forti attitudini verso l’impegno sociale, sconta, anche inconsapevolmente, alcuni luoghi comuni che - a parere di chi scrive - producono una distorsione interpretativa verso questa fenomenologia. Di fronte a tale questione ritorna la suggestione di chi, ancora una volta, continua a proporre come soluzione la necessità di una moralizzazione della vita pubblica, di una cosiddetta alleanza tra gli onesti per contrastare il connubio tra imprenditoria legale ed illegale, e tra questa ed i politici corrotti. In tali ragionamenti, anche quelli elaborati in settori sociali che, comunque, sono stati coinvolti dagli effetti antisociali dell’emergenza rifiuti, si continua a concepire che i problemi della Campania e del Sud sono distorsioni locali, una sorta di vera e propria deviazione, dal corso di un “capitalismo sano”. In realtà, come questa vicenda sta evidenziando, il tema delle devastazioni ambientali e delle nuove forme di degrado metropolitano sono l’altra faccia di un fenomeno unitario che segna le caratteristiche del modo di produzione capitalistico e del suo attuale modello di sviluppo. In sintesi, il caos, il degrado, la commistione tra il ceto politico di comando e i poteri della criminalità organizzata del Sud non sono un accidente casuale, ma il risultato locale del modo in cui si è realizzato e sviluppato il capitalismo in Italia, nel contesto della divisione internazionale del lavoro e nella formazione dello stato nazionale italiano con la polarizzazione sociale tra Nord e Sud del paese. In altri termini: il capitalismo al Sud non potrebbe configurarsi altrimenti che nelle modalità con le quali lo conosciamo. Del resto l’emergenza rifiuti in Campania ha solo evidenziato una situazione comunque in via di esplosione e che comincia ad esserlo in tutto il pianeta. Basterebbe dare una occhiata un po’ più in là per scorgere devastanti immagini di paesi interi invasi dai rifiuti, in particolare nei grandi agglomerati urbani da milioni di abitanti nel terzo mondo. Queste aree urbane, oltre a riprodurre i meccanismi sopra ricordati per lo smaltimento dei rifiuti e a non avere la possibilità economica di realizzare una raccolta efficace, subiscono l’odioso mercato dei rifiuti tossici di casa nostra, spediti loro per pochi soldi. Questo traffico di rifiuti dai paesi ricchi si è indirizzato prevalentemente verso quelle regioni poverissime dove le politiche economiche e sociali dell’Occidente (assieme ai nostri cannoni sotto l’egida delle “guerre umanitarie”), avevano già aperto la strada a tali pratiche, come la Somalia, l’Eritrea e l’Etiopia.
4. La civiltà dei rifiuti,
i rifiuti della civiltà
Le statistiche ci dicono che per ogni aumento dell’1% del prodotto interno lordo di una nazione, la sua produzione di rifiuti cresce almeno del 2%, e che la stragrande maggioranza dei rifiuti di un paese ricco sono rifiuti industriali. Per le imprese, impegnate nella competizione globale per battere i concorrenti internazionali (sulla pelle dei propri lavoratori), le spese necessarie alle bonifiche e agli smaltimenti “regolari” sono sempre più una voce “intollerabile”, ecco perché si ricorre allo smaltimento illegale affidato alle varie mafie. Nel contempo nei bilanci delle famiglie popolari la tassa sui rifiuti diventa una voce sempre più pesante, e ancor più è destinata ad aumentare nei prossimi anni. Indicativa la vicenda di alcuni paesi del nord Italia, dove in seguito all’impegno profuso per collaborare alla raccolta differenziata, gli abitanti si sono visti raddoppiare le tasse per i rifiuti solidi urbani. Questo a dimostrazione che non esistono politiche fiscali declinabili socialmente. Del resto, non c’è da stare tanto tranquilli circa le promesse di smaltimento effettuato attraverso inceneritori ed altri sistemi presentati come “puliti”, poiché i loro effetti tossici, al di là di una propaganda interessata tesa a dimostrare che l’ultima generazione di termovalorizzatori sarebbero ecologicamente sostenibili, sono anche peggiori delle discariche a cielo aperto.
Nella rappresentazione materiale della crisi dei rifiuti - in Campania ma anche, in proporzioni diverse, in alcune megalopoli del Sud del mondo - si staglia, pure sul piano simbolico e dell’immaginario, il disinteresse dell’economia capitalistica per il destino della merce che ha perso il suo valore d’uso. Tale processo crea, sempre più, uno scarto tra uomo e natura che autorizza a considerare le opere e l’attività umana a prescindere dei cicli biologici di cui esse necessariamente fanno parte. In questo processo criminogeno il capitalismo sviluppa vere e proprie produzioni di morte le quali, dentro dinamiche sempre più parossistiche, diventano incontrollabili e deflagranti.
È evidente che la soluzione non può essere quella di spostare i propri rifiuti sotto la casa di qualcun altro, né quella di illudersi che il problema si risolva perché lo si rende meno appariscente. Del resto anche il controverso tema della Raccolta Differenziata non può essere invocato acriticamente come una possibile soluzione miracolosa senza mettere in discussione le questioni che sottendono alla ciclica esplosione dell’emergenza rifiuti. Questa scelta, la quale quando è correttamente amministrata consente, comunque, di abbassare la produzione di monnezza tal quale, è costantemente depotenziata dall’intervento delle varie lobby ambientaliste e dal crescente eco/business. Per cui dobbiamo essere consapevoli che limitare la portata dei nostri obiettivi di mobilitazione ai soli aspetti eclatanti comporta il rischio politico di ricondurre, anche inconsapevolmente, le vertenze in cui agiamo ad una sorta di compatibilizzazione al generale ciclo di riproduzione dei profitti e, quindi, della perpetuazione della continua devastazione ambientale
La questione vera è banale e, tragicamente, immanente. Oggi, sul piano globale, si produce troppa immondizia, al di là di ogni ragionevole necessità umana, e di una qualità tale da rendere praticamente impossibile un suo smaltimento e riciclaggio che la reimmetta nel ciclo biologico naturale facendola diventare una risorsa invece che una piaga velenosa. Tale situazione rende sempre più stridente la contraddizione tra l’esigenza della difesa della specie umana e lo sviluppo illimitato e socialmente inutile della stragrande maggioranza delle attuali forze produttive. Questa crescente contraddizione non è sempre governabile e gestibile, tranquillamente, dagli apprendisti stregoni del capitale. Può succedere che nel procedere anarchico del modo di produzione capitalistico non tutti i dispositivi preposti si armonizzino, automaticamente, all’unitario disegno antisociale. Da difficoltà di questo tipo possono prodursi vari inceppamenti e l’esplodere di crisi incontrollate. In Campania - grosso modo - si è verificata una situazione che fotografa e riflette questo assunto teorico.
Affermare - dunque - che la questione monnezza è parte, specifica ed integrante, della contraddizione capitale/lavoro non è una boutade ideologica ma una affermazione che consente a tutti noi, che agiamo collettivamente nei movimenti di lotta e nelle varie vertenze popolari, di iniziare ad inquadrare questa fenomenologia in un unitario quadro di riferimento. Una dinamica - quella tra lavoro e capitale - che oramai pervade tutti gli aspetti della vita e che sta rapidamente stravolgendo in senso distruttivo la natura e la vita dell’uomo; basti pensare all’aumento dell’effetto serra, all’avvelenamento dei cibi animali e vegetali ed al complesso degli elementi degenerativi della specie umana.
Federazione Regionale della Campania dell’RdB/CUB