3. Modello concertativo e involuzioni normative
Intorno all’ “emergenza” (quale pietra angolare della nuova
produzione normativa, quale prospettiva per affrontare le emergenze sociali
non solo - come è ben noto - in materia di politiche del lavoro) il ruolo delle
grandi confederazioni sindacali si trasforma e si ridefinisce.
Il ruolo via via assunto dal “sindacato ufficiale” (“moderato
e responsabile”) ha in un certo senso scavalcato il ruolo proprio dei partiti
politici nel processo di produzione normativa. Si è creata così una dialettica
perversa e stringente tra organizzazioni sindacali, padronato, e ministeri sempre
più apparentemente tecnici.
La concertazione delle politiche di crisi e la cogestione del
nuovo modello produttivo e normativo (caratterizzato da sempre maggiore concentrazione
delle ricchezze e decentramento delle produzioni) ha sempre più determinato
il comportamento delle tradizionali confederazioni sindacali.
Ciò spiega - almeno in parte - l’ apparente paradasso della
coesistenza di una significativa crisi di rappresentatività del sindacato tradizionale
(crisi di rappresentatività che costituirà, come abbiamo accennato, uno dei
nostri campi di ricerca) e la crescita contemporanea del suo “peso” su un piano
generale (nei primi anni novanta assistiamo ad un crollo della tradizionale
rappresentanza politica ed alla “tenuta” del sindacato quale supporter e consigliere
dei governi chiamati ad applicare dure politiche di attacco alle conquiste dei
lavoratori ed ai livelli raggiunti dalla spesa pubblica).
Quali sono le parole d’ ordine che caratterizzano questa (ormai
ventennale) inversione di tendenza? Flessibilità e precarizzazione.
I momenti centrali di tale evoluzione (o involuzione) normativa
sono segnati dalla legge 19 dicembre 1984 n. 863, dalla legge 56 del 1987, e
da ultimo dal cosiddetto “pacchetto Treu” del 1997.
Intendiamo concentrare l’ attenzione soltanto su tali passaggi
legislativi, pur avendo ben presente che essi si accompagnano ad una miriade
di interventi che vanno nel senso che cercheremo di indicare.
L’ art. 3 del Decreto Legge 30 ottobre 1984 n. 726 (recante
significativamente in rubrica “Misure urgenti a sostegno e ad incremento
dei livelli occupazionali”), convertito nella legge n. 863 del 1994, dispone
al primo comma che “i lavoratori di età compresa tra i quindici ed i ventinove
anni possono essere assunti nominativamente, in attuazione dei progetti di cui
al comma 3° [ovvero progetti predisposti dalle imprese ed approvati dalla Commissione
regionale per l’ impiego], con contratto di formazione e lavoro non superiore
a ventiquattro mesi e non rinnovabile, dagli enti pubblici economici e dalle
imprese che al momento della richiesta non abbiano sospensioni dal lavoro in
atto.
Imposteremo ai sensi dell’ art. 2 della legge 12 agosto
1977 n. 285, ovvero non abbiano proceduto a licenziamenti nei dodici mesi precedenti
la richiesta stessa, salvo che l’ assunzione non avvenga per l’ acquisizione
di professionalità diverse da quelle dei lavoratori interessati alle predette
sospensioni e riduzioni del personale”.
Ed ancora il comma 1 bis dello stesso articolo, introdotto
successivamente con il D.L. n. 108 del 1991, prevede che nelle aree interessate
dagli interventi nel Mezzogiorno e nelle aree svantaggiate del Centro-Nord “l’assunzione
con contratti di formazione e lavoro è ammessa sino all’ età di 32 anni”.
Il contratto di formazione e lavoro, è un contratto
a tempo determinato (in cui quindi il datore di lavoro ha il vantaggio di poter
scegliere al termine del periodo prestabilito se instaurare o meno un rapporto
di lavoro a tempo indeterminato) che può instaurarsi fuori dai limiti rigidi
posti dalla legge 230/1962.
Infatti l’ art. 1, primo comma, della legge 18 aprile 1962,
n. 230, prevede che “il contratto di lavoro si presume a tempo indeterminato,
salvo le eccezioni appresso indicate” (e qui il legislatore del 1962 elenca
le tipologie possibili per il contratto a tempo determinato: lavoro stagionale,
sostituzione di lavoratori che hanno diritto alla conservazione del posto, esecuzione
di un servizio od opera predeterminata, personale dello spettacolo e del trasporto
aereo con riferimento a particolari attività).
Ma al vantaggio derivante dalla possibilità di interrompere
senza motivazione e senza oneri il rapporto di lavoro alla scadenza del termine
prefissato, il datore di lavoro aggiunge quello di notevoli sgravi contributivi
e del costo del lavoro (oltre a quello - ormai però divenuto regola generale
- di procedere a chiamata nominativa).
In cambio il datore deve procedere nei confronti del neo-assunto
ad attività di formazione, spesso risibili con riferimento a qualifiche con
basso contenuto di professionalità (per le quali peraltro con più frequenza
si ricorre all’ utilizzo di questo strumento) e specie con riferimento a contratti
di formazione e lavoro che possono raggiungere la durata di ventiquattro mesi.
Il paradosso è che la possibilità per il datore di lavoro di
avere a sua disposizione lavoratori facilmente allontanabili (e che se vogliono
la trasformazione del rapporto al termine della formazione-lavoro devono trasformarsi
in soggetti pronti a tutto), pagati meno di altri che svolgono le stesse mansioni
e che portano un minore onere contributivo viene presentata come un intervento
in favore del giovane disoccupato (“misure urgenti a sostegno e ad incremento
dei livelli occupazionali”).
Si tratta di una delle tante concessioni da parte del sindacato,
che viene invece sbandierata come una conquista dei lavoratori (ottenuta in
cambio del cedimento nel 1984 sui punti di contingenza), e nella quale al maggior
potere datoriale in ordine alla gestione della manodopera (flessibile e ricattabile)
si accompagna un maggior potere del sindacato inteso come istituzione (attraverso
la sua presenza nelle Commissioni regionali per l’ impiego che devono approvare
i progetti di formazione e lavoro).
È una operazione che nasce prima del 1984, assecondatata dalla
legislazione che favorisce ed accompagna le massiccie riduzioni del personale
che caratterizzano il periodo fine anni ‘70/inizio anni ‘80, e che vedremo meccanicamente
ripetersi negli anni a seguire.
La stessa legge del 1984 prevede, all’ art. 5, l’ istituzione
e la regolamentazione del contratto a tempo parziale, anche qui con la individuazione
di un ruolo fondamentale assegnato alla contrattazione collettiva anche aziendale,
e l’ introduzione della chiamata nominativa per il cinquanta per cento degli
avviamenti al lavoro.
Della legge 28 febbraio 1987, n. 56 (recante “Norme sull’
organizzazione del mercato del lavoro”), approvata anch’ essa sotto la Presidenza
del Consiglio Craxi, e che contiene la definitiva affermazione - nella globale
riforma del collocamento al lavoro - dell’ istituto della chiamata nominativa,
ciò che in questa sede interessa esaminare è l’ art. 23.
L’ art. 23 di detta legge, che è assolutamente significativo
in relazione agli elementi di lettura che abbiamo prospettato, detta “disposizioni
in materia di contratto a termine”, e dispone che “l’apposizione di un
termine alla durata del contratto di lavoro, oltre che nelle ipotesi di cui
all’ art. 1 della L. 18 aprile 1962, n. 230, e successive modifiche [.....]
è consentita nelle ipotesi individuate nei contratti collettivi di lavoro stipulati
con i sindacati nazionali o locali aderenti alle confederazioni maggiormente
rappresentative sul piano nazionale. I contratti collettivi stabiliscono il
numero in percentuale dei lavoratori che possono essere assunti con contratto
di lavoro a termine rispetto al numero dei lavoratori impegnati a tempo indeterminato”.
Tra l’ altro ai sensi dell’ art. 25 della stessa legge è possibile
alle commissioni regionali per l’impiego, “al fine di incentivare l’ incontro
tra domanda ed offerta di lavoro”, “proporre deroghe ai vincoli esistenti
per le imprese in materia di assunzioni di lavoratori”.
È facile vedere il legame esistente tra le deroghe alla cosiddetta
“rigidità” del lavoro ed il ruolo preminente che in cambio dell’ assenso a queste
deroghe il sindacato ufficiale sempre più assume nella gestione (sempre subalterna
comunque alle esigenze delle imprese) - o, forse meglio, nella certificazione
- della precarietà e sostituibilità della manodopera.
Si giunge adesso alla legge 24 giugno 1997, n. 196, il cosiddetto
“pacchetto Treu”.
In particolare questa legge, di cui in un prossimo numero dovremo
analizzare più compiutamente l’ ambito di effettiva applicazione, contiene la
disciplina del lavoro interinale (ovvero del lavoro in affitto) e nuove disposizioni
di smantellamento delle tutele poste, in tema di lavoro a termine, dalla legge
230 del 1962.
Significativo, anche qui, un dato. La legge viene denominata
“Norme in materia di promozione dell’ occupazione”.
In realtà si tratta di altre, nuove ed efficaci misure a sostegno
della possibilità fornita ai datori di lavoro di sbarazzarsi senza alcun vincolo
della manodopera che inseriscono nuovi devastanti elementi di precarizzazione
della condizione di lavoro, in una con la legalizzazione del “caporalato”.
Sempre più ci sarà dato vedere un esercito di lavoratori utilizzati
per brevi periodi, sbattuti fuori dai posti di lavoro, resi incapaci - perchè
deboli e non stabilmente inseriti nel mondo del lavoro - di contrattare minime
condizioni retributive e normative.
Ed ancora si usa la parola magica della lotta alla disoccupazione,
per mascherare una realtà innegabile: si stanno approntando sempre nuovi strumenti
per facilitare la gestione della manodopera, per ridurre le tutele dei lavoratori,
per impedire rivendicazioni e conflitti.
Si è sempre più, anche ideologicamente, uniformemente subalterni
alla logica per cui solo un’ impresa con le mani libere e con gli artigli di
granito può creare condizioni di benessere e sviluppo complessivi, che possono
far derivare benefici effetti anche con riferimento ai generali livelli occupazionali.
La realtà di questi ultimi decenni però - complessivamente
- smentisce questo rassicurante messaggio ideologico e la fondatezza delle pseudo-politiche
per l’ occupazione.
Il livello di disoccupazione non scende anzi cresce a fronte
dell’ innovazione tecnologica e produttiva che determina incrementi di produttività
del lavoro e reddittività per le imprese; l’ estensione della concorrenza
a livello planetario induce ad una sempre progressiva riduzione delle tutele
in favore del lavoro; assistiamo dall’ America all’ Europa alla crescita non
dell’ occupazione ma di una massa di lavoratori occupati precariamente, senza
tutele e senza propspettive per il futuro.
E tutto ciò si accompagna - come svelano i sociologi - ad un
sentimento di insicurezza e precarietà collettiva e ad un profondo mutamento
in senso regressivo delle forme di rappresentanza istituzionale.Ciò che di fatto
si è ottenuto - a fronte di una fase di complessiva notevole espansione economica
e produttiva - è il portare il lavoratore da solo di fronte al mercato del lavoro,
alle controparti datoriali, con meno forza, meno diritti, meno tutela, pochi
riferimenti sindacali.
E si tratta di un cittadino-lavoratore immerso in uno stato
di disoccupazione, che non sa come sbarcare il lunario, come condurre sè e la
propria famiglia al giorno successivo, disponibile ad accettare lavori pesantissimi,
orari lunghissimi, paghe ridotte, mancanza di regolarizzazione contributiva
e previdenziale, ambienti di lavoro malsani, il rischio continuo di incidenti,
rapporti di lavoro subordinato mascherati da lavoro autonomo, l’ avvilente mercato
delle braccia collegato ad una deregolamentazione del collocamento al lavoro.