Inserimento di emigrati messicani e di altri latini nel mercato del lavoro statunitense
ELAINE LEVINE
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1. Il perché della migrazione messicana
Nel 2003 sono entrati in Messico 13.266 milioni di dollari come rimesse inviate dai lavoratori immigrati ai loro familiari. Questo importo è maggiore del 35% rispetto a quanto entrato nel 2002 ed è il doppio di quello registrato nel 2000, secondo le cifre fornite dalla Banca del Messico. Questo organismo ha stimato che una famiglia su quattro riceve rimesse dagli Stati Uniti ed ha riconosciuto in queste rimesse uno dei fattori che contribuiscono a sostenere il consumo interno del Paese. Le rimesse hanno superato gli investimenti stranieri diretti ed anche le entrate derivanti dal turismo internazionale. Il flusso di divisa dovuto alle rimesse è stato il 79% del valore delle esportazioni di petrolio greggio nel 2003 e rappresenta il 2,2% del prodotto interno lordo (González Amador, 2004). Le stime ufficiali calcolano che oggi esistono circa dieci milioni di persone nate in Messico che si sono stabilite negli Stati Uniti.
Mentre le rimesse inviate dagli emigrati acquistano un’importanza crescente per il Messico, il flusso di nuovi immigrati verso gli Stati Uniti - provenienti da un gran numero di Paesi, tra i quali emerge il Messico - sta diventando notevole. Di fatto il censimento del 2000 rivela che tra il 1990 e il 2000 c’è stata l’ondata maggiore di nuovi immigrati (in termini generali) della storia statunitense. I quattordici milioni di immigrati, entrati in questo lasso di tempo, hanno contribuito per il 41% alla crescita della popolazione, che è la percentuale più alta mai registrata nel XX secolo (Sum, et. al. 2002). Si deve inoltre segnalare che mentre la popolazione statunitense è aumentata, generalmente, del 13,2% (dal 1990 al 2000), la componente latina1 è cresciuta del 57,9%, superando perfino il ritmo di crescita degli asiatici che è stato del 53%, e trasformando i Latini nel gruppo minoritario più numeroso del Paese (US Census Bureau, 2001). Il 46% di questa crescita così accentuata della popolazione latina durante il decennio è stato il risultato dell’immigrazione.
D’altro canto, Andrew Sum e i suoi coautori sostengono che il peso dei nuovi immigrati nella crescita della forza lavoro statunitense è il più alto osservato negli ultimi 60 anni, ovvero da quando si hanno dati in merito (Sum, et. al. 2002). Viene segnalato che la crescita della Popolazione Economicamente Attiva (PEA) si deve per il 50% agli otto milioni di nuovi immigrati2 che si sono incorporati alla PEA tra il 1990 e il 2001. Di fatto il ritmo di crescita della PEA statunitense è diminuito dopo il decennio degli anni Settanta, quando era aumentato del 29,2% grazie alle persone nate nel dopoguerra e ad una crescente partecipazione delle donne. Durante gli anni Novanta la PEA è cresciuta solo dell’11,5% e senza i nuovi immigrati la crescita registrata sarebbe stata non più del 5%. Sum e i suoi collaboratori affermano che se non fossero stati considerati i nuovi immigrati come parte della PEA, sia la crescita dell’occupazione che la crescita economica in generale sarebbero state inferiori a quelle registrate.
Il decennio 1991-2001 è considerato il periodo di crescita economica più lungo verificatosi negli Stati Uniti in tempo di pace. In questo lasso di tempo si sono creati più di venti milioni di posti di lavoro. Molte persone, compresi George W. Bush e Alan Greenspan, hanno riconosciuto l’importanza della mano d’opera dei nuovi immigrati per la crescita economica del Paese, tuttavia non tutti sono convinti della positività della loro presenza. Esiste un ampio dibattito sull’impatto che hanno i lavoratori immigrati sui livelli di lavoro ed i livelli salariali, soprattutto per quanto riguarda gli immigrati con un basso livello di istruzione e tratti etnici o razziali che li rendono oggetto di discriminazione in ambiti lavorativi e sociali, come nel caso della maggioranza degli immigrati messicani.
Come conseguenza del Trattato di Libero Commercio dell’America del Nord, l’emigrazione dei messicani verso gli Stati Uniti è aumentata, e non diminuita come invece ci si era aspettati; 3 non è diminuita neanche la grande differenza esistente tra i salari messicani e quelli dell’altro lato della frontiera. In Messico il potere d’acquisto della maggior parte dei cittadini è in diminuzione e l’economia non produce posti di lavoro sufficienti per assorbire la crescente forza lavoro. Negli ultimi venticinque anni il salario reale è precipitato del 70%” (Ochoa, 2003) e più del 85% dei lavoratori percepisce tra 0 e 5 salari minimi (Ortiz Rivera, 2003) - totale che equivale circa al 50% del salario minimo statunitense, che è a sua volta solo leggermente al di sopra della soglia di povertà per un individuo, senza persone a carico, in quel Paese. Certamente, le pressioni per emigrare sono più forti oggi che dieci anni fa. Inoltre, attraverso il processo migratorio, si sta rafforzando, lentamente, un’integrazione di fatto dei mercati del lavoro, sebbene con condizioni svantaggiose per i messicani.
Per molti messicani emigrati in anni recenti, la mobilità socio-economica all’interno degli Stati Uniti non può essere considerata un risultato possibile, e nemmeno una conquista facilmente accessibile per i propri figli. Le condizioni del mercato del lavoro in Messico interagiscono con quelle degli Stati Uniti così da creare un clima favorevole in cui le “nicchie di posti di lavoro per immigrati” possano nascere e fiorire in numerose località, in lungo e in largo per tutto il Paese. Mentre il flusso costante di immigrati cancella, in un certo senso, la frontiera tra i due Paesi, sorgono nuovi confini, all’interno degli Stati Uniti, che sono quelli dei quartieri in cui vivono i messicani e si parla spagnolo, o quelli dei luoghi di lavoro in cui predomina la mano d’opera latina.
Chi occupa questi spazi tende a misurare il proprio benessere paragonandolo alle condizioni terzomondiste che si è lasciato alle spalle; di conseguenza, la sua nuova condizione risulta abbastanza accettabile anche quando è notevolmente inferiore agli standard prevalenti negli Stati Uniti. I lavoratori messicani occupano in genere i posti meno desiderati e meno pagati, si concentrano in quartieri degradati dove i loro figli frequentano scuole in cui predominano appartenenti alle così dette minoranze etniche o razziali. Considerando il basso livello di istruzione degli immigrati che arrivano negli Stati Uniti e la scarsa conoscenza dell’inglese, non ci si può aspettare molto, in un mercato del lavoro così segmentato e stratificato come quello statunitense.
La popolazione di origine messicana che si è stabilita negli USA è cresciuta sensibilmente nel corso degli ultimi due decenni. La maggioranza degli immigrati di prima generazione è povera ed ha livelli di scolarizzazione molto bassi, paragonati al resto della popolazione statunitense. Pertanto, le possibilità lavorative si riducono a lavori poco appetibili e mal pagati, ai quali non mirano generalmente altri lavoratori. Date le ultime trasformazioni del mercato del lavoro, la crescente stratificazione sociale e le difficoltà che hanno le persone con scarsi mezzi di accedere all’istruzione superiore, sembra che l’ascesa socioeconomica negli Stati Uniti sarà più difficile per i figli degli immigrati messicani di oggi di quanto lo sia stato in epoche precedenti.
2. Inserimento di messicani e Latini
nel mercato del lavoro statunitense
Dato che il lavoro rappresenta la principale motivazione per un gran numero di emigrati messicani, non stupisce che la popolazione di origine messicana rappresenti la percentuale maggiore della popolazione economicamente attiva (PEA) rispetto ad ogni altro gruppo. Nel caso degli uomini dai sedici anni in su, la percentuale è del 80,8%, questa percentuale supera quella di tutti i bianchi4 (74,6%), a sua volta superiore a quella degli afro-americani (68,4%). La percentuale di partecipazione delle donne di origine messicana (56,4%) è leggermente inferiore a quella di tutte le donne bianche (59,6%), che risulta a sua volta leggermente minore di quella del 62% delle afro-americane. D’altro canto, bisogna considerare che le percentuali di disoccupazione per i messicani, così come per l’insieme della popolazione ispanica, si situano ad un livello intermedio, più elevato del tasso di disoccupazione di tutti i bianchi - sia degli uomini sia delle donne - ma inferiore al tasso degli afro-americani (Employment and Earnings, gennaio 2003, pp. 164-165).
Gli immigrati non specializzati si inseriscono di solito all’interno delle fasce più basse dello spettro occupazionale e salariale statunitense, anche se i salari risultano comunque superiori a quelli dei rispettivi luoghi di provenienza. La maggior parte dei messicani che emigrano sono lavoratori scarsamente specializzati; il livello di scolarizzazione è solitamente inferiore a quello dei lavoratori statunitensi meno specializzati, anche nei casi in cui supera il livello medio prevalente in Messico. Il profilo occupazionale della popolazione di origine messicana mostra quindi una serie di differenze svantaggiose, in termini socio-economici, rispetto ad altri gruppi della popolazione (vedere tabella 1).
I dati emersi dal “Mexican Migration Project” - un’iniziativa di collaborazione tra ricercatori della University of Pennsylvania e della Universidad de Guadalajara - sono un punto di partenza interessante per analizzare l’inserimento degli immigrati messicani all’interno del mercato del lavoro statunitense (MMP71)5. Al momento della stesura del presente studio, la base dati di questo progetto conteneva i risultati delle interviste ad immigrati realizzate tra il 1982 ed il 1999, rilevate principalmente nei loro luoghi di provenienza. Per analizzare le risposte in merito al tipo di impiego dell’intervistato nel corso del suo ultimo viaggio migratorio, sono stati fissati tre periodi: 1) coloro che hanno realizzato il viaggio prima del 1981; 2) coloro che lo hanno effettuato tra il 1981 e la fine del 1990; 3) coloro che hanno fatto il loro ultimo viaggio a partire dal 1991. In questo modo si sono potuti osservare i cambiamenti all’interno della struttura occupazionale relativi agli emigrati degli ultimi decenni (vedere la tabella 1).
Più della metà di coloro che hanno realizzato l’ultimo viaggio prima del 1981 - si tratta del 42% del totale degli intervistati - si sono trovati a lavorare nell’agricoltura, ma successivamente l’importanza di questa attività è notevolmente diminuita. Soltanto il 26% di chi è emigrato dopo il 1990 ha trovato un impiego nei lavori agricoli. Questo cambiamento riflette chiaramente la trasformazione della struttura occupazionale statunitense ed anche la provenienza urbana di un numero crescente di immigrati. Di conseguenza, il lavoro agricolo è stato lentamente sostituito, nel corso degli ultimi due decenni, da lavori poco specializzati nei settori manifatturiero e della costruzione (dal 20% nel primo periodo al 26,9% nell’ultimo), nei servizi (dal 9,3% del primo periodo al 15,8% dell’ultimo), nel commercio (dal 1,8% al 5,5%) ed anche in posti di lavoro come operai specializzati ed artigiani (dal 7,7% al 12,1%).
Un’altra fonte di informazioni sugli immigrati di prima generazione sono i risultati dello studio della campagna che ho realizzato nella primavera del 2001, a Los Angeles, California; ho intervistato un campione di 275 persone che frequentavano scuole per adulti, in due luoghi diversi. Le persone che hanno risposto al questionario sono immigrati latini di prima generazione, la grande maggioranza dei quali messicani che attualmente vivono nella contea di Los Angeles. Frequentavano corsi per adulti per imparare l’inglese e, in uno dei due luoghi, alcuni seguivano dei corsi di abilitazione professionale. In questo caso, ovviamente, si tratta di un contesto chiaramente urbano che resta comunque significativo, dal momento che più del 90% dei latini negli Stati Uniti vive in zone urbane, comparato con il poco più del 70% del resto della popolazione.
Si osservano dei leggeri cambiamenti nella struttura occupazionale, paragonando il primo lavoro degli intervistati con il loro impiego attuale (vedere tabella 1), anche se il tempo trascorso per ogni individuo è diverso. La mediana del tempo nell’impiego attuale è risultata di tre anni, con un minimo di un mese e un massimo di 32 anni; la media è stata di quattro anni e nove mesi. Il 2,2% ha ottenuto un lavoro agricolo come primo impiego negli Stati Uniti, ma attualmente nessuno degli intervistati svolge ancora questo lavoro. La percentuale di operai non specializzati è salita dal 40,8% al 47,1%, mentre quella degli operai specializzati è passata dal 11,1% al 12,5%. La percentuale delle occupazioni tecniche, di tipo amministrativo o relative alle vendite è aumentata, passando dal 9,7% al 15,8%. L’occupazione nei servizi - in cui le remunerazioni sono generalmente più basse di quelle degli operai - è diminuita, dal 34,2% al 22,4%. Questo miglioramento del profilo occupazionale è dovuto in parte al fatto che alcune donne precedentemente assunte nel servizio domestico hanno smesso di lavorare per dedicarsi alla propria famiglia. È inoltre diminuito il numero degli uomini impiegati nel settore dei servizi.
L’unico professionista del gruppo è un pastore evangelico proveniente dal Guatemala. Quattro persone si sono definite pensionati o anziani che hanno smesso di lavorare. La percentuale degli intervistati che non lavora è aumentata, passando dal 8,8% al 19,8%, fenomeno dovuto principalmente al fatto che diverse donne, che all’inizio facevano parte della popolazione economicamente attiva (PEA), hanno smesso di lavorare fuori di casa, per sposarsi o avere dei figli, così che il 43,4% delle donne ha indicato di non svolgere attualmente alcuna attività remunerativa. Pertanto il tasso di partecipazione nella PEA tra le intervistate è del 56,6%, cifra quasi uguale a quella che prevale tra le donne latine che vivono negli Stati Uniti, che si aggira attorno al 57%; tuttavia, molte di loro hanno lavori precari o informali, come accudire bambini, invalidi o anziani, oppure la vendita di cosmetici o alimenti preparati svolta dalla propria casa. Ciò nonostante, la maggioranza degli intervistati ha riferito di lavorare otto ore al giorno, cinque giorni alla settimana. Inoltre un 12% ha un secondo impiego che svolge alcuni pomeriggi o alcune sere o nei fine settimana.
L’importanza delle reti sociali degli immigrati per ottenere un lavoro negli Stati Uniti è fondamentale. Il 78% degli intervistati ha ottenuto il suo primo lavoro per mezzo di un parente o di un amico e il 61% riferisce di avere avuto anche il proprio lavoro attuale in questo modo. La percentuale di coloro che hanno trovato lavoro tramite il giornale è scesa dal 5,7% al 4,3%. Soltanto una percentuale molto bassa afferma di essersi rivolta ad un’agenzia per avere un lavoro, l’1,6% nel caso del primo impiego e l’1,9% per l’impiego attuale. Chi ha avuto lavoro perché “ha sentito dire che si cercavano lavoratori in quel posto” è aumentato dal 9,8% al 12,5% ed è anche aumentata la percentuale di coloro che lavorano in proprio dal 2,4% al 7,7%; inoltre, un 8,2% ha ottenuto il lavoro attuale passando ad un posto migliore nello stesso luogo in cui già lavorava. Ad ogni modo, il ruolo delle reti è preponderante ed è incentivato - e contemporaneamente disincentivato - dalla crescente frammentazione del mercato del lavoro statunitense (Waldinger e Lichter 2003).
Un’oscillazione della situazione lavorativa degli intervistati mostra un leggero miglioramento in termini di tipo di impieghi e remunerazioni, dal loro arrivo negli Stati Uniti. Il tempo medio di residenza risulta essere di 9,9 anni, ma con un ordine di variazione che va da un mese a cinquantatre anni; le stime sono tuttavia molto circoscritte e, soprattutto, ristrette agli ambiti nei quali sono soliti trovare lavoro gli immigrati messicani con scarsa scolarizzazione o poca conoscenza dell’inglese. Sebbene alcuni abbiano lavorato nel settore agricolo come primo lavoro, nessuno lo fa attualmente, mentre soltanto una persona su quattro con un livello di istruzione universitario lavora come professionista. L’importanza del lavoro domestico, così come del settore dei servizi in generale come fonte di lavoro, è diminuita; la percentuale impiegata come operai non specializzati è aumentata del 6,3% e come operai specializzati del 1,5%, con alcuni aggiustamenti all’interno di entrambe le classificazioni generali. Il numero di coloro che dipendono ancora dalle reti sociali per ottenere un impiego è molto alto.
Analizzando la struttura occupazionale attuale di tutta la popolazione di origine messicana negli Stati Uniti - secondo dati del Dipartimento del Lavoro per l’anno 2002 - si osserva (vedere tabella 1) che più del 60% si distribuisce, in proporzioni più o meno uguali, tra operai non qualificati (22,6%), tecnici, vendite, amministrativi (22,0%) e servizi (203%).Il 16% lavora come operaio qualificato, il 12,2% in posti di dirigenti o come professionisti e soltanto il 6,8% in impieghi del settore agricolo (Employment and Earnings, gennaio 2003). Questo profilo occupazionale mostra un avanzamento significativo rispetto agli immigrati di prima generazione.
Tuttavia, rispetto ad altri gruppi di latini, o anche agli afro-americani, e soprattutto rispetto all’insieme dei bianchi, gli svantaggi dei messicani sono noti. Tutti gli altri hanno una partecipazione molto più alta all’interno delle categorie dei dirigenti, dei professionisti, tecnici, addetti alle vendite e del settore amministrativo, mentre vengono impiegati meno come operai non specializzati e nell’agricoltura. Nel settore dei servizi, nel quale gli afro-americani ed i portoricani hanno un livello di partecipazione vicino a quello dei messicani, questi ultimi si collocano relativamente meno nel servizio domestico - in cui la remunerazione è di solito ancora più bassa di quella dei lavori agricoli - e un po’ di più nei servizi di protezione - nei quali la remunerazione è alta, se paragonata ad altri lavori nello stesso settore.
L’unico ambito lavorativo in cui i messicani hanno un vantaggio relativo, rispetto agli altri, è come operai specializzati, soprattutto nei lavori vincolati alla costruzione. Questo tipo di impiego è uno dei pochi rimasti oggi negli Stati Uniti, in cui vi siano prospettive di un buon livello di entrate - che sia uguale o maggiore alla mediana generale - per le persone che non possiedono titoli universitari. Anche gli operai altamente specializzati del settore manifatturiero percepiscono in genere delle buone entrate, ma l’offerta di posti di questo tipo tende a diminuire.
Oltre che all’interno di ognuna delle categorie generali, i latini si concentrano in alcuni settori: alcuni rami specifici della manifattura leggera, più che di quella pesante; servizi di pulizia e conservazione di edifici e giardini; preparazione di alimenti; cassieri in negozi di vendita al dettaglio; lavori specializzati nelle costruzioni, ecc., per menzionarne solo alcuni. La concentrazione occupazionale si incrocia con la concentrazione geografica, molto marcata nel caso dei latini. Il 75% della popolazione latina è situata soltanto in sette Stati, mentre un gruppo di Stati del Sud-Est - nei quali la popolazione latina è ancora molto ridotta - ha registrato tassi di crescita molto alti - da più di 200 a quasi 400% tra il 1990 e il 2000 - nel numero dei residenti latini, proprio per le possibilità di lavoro. Per rafforzare una nicchia di mercato di questo tipo sono necessari un’affluenza di latini e lavori che ormai quasi nessuno vuole svolgere o salari che altri non accetterebbero. Questo è molto chiaro nel caso dei lavori agricoli in Stati come la California, il Texas e l’Oregon, ma anche in altri ambiti.
Dalton, in Georgia, conosciuta come “carpet city” (la città dei tappeti) ha attratto un gran numero di latini con le sue fabbriche. In questa stessa zona del Nord della Georgia, nella parte occidentale dell’Arkansas e nella penisola di Delmarva (formata da parti di Delaware, Maryland e Virginia), per esempio, vi sono latini impiegati nella vendita all’ingrosso di polli, mentre in alcuni Stati del Centro-Ovest trovano lavoro nei mercati all’ingrosso dei bovini e dei suini. Nel Nord-Est del Paese trovano lavoro nella coltivazione di funghi, che si realizza in luoghi umidi e bui. Molte donne emigrano da Tampico verso le coste del North Carolina per lavorare negli impianti per la lavorazione del gambero di fiume. Nei pochi posti dove esiste ancora l’industria della confezione all’interno degli Stati Uniti - come ad esempio Los Angeles - la mano d’opera è quasi tutta di donne immigrate, la maggior parte delle quali latine.
Un altro spazio dominato dai lavoratori messicani a Los Angeles è quello delle cucine dei ristoranti. Indipendentemente dalla categoria o dal tipo di cibo che offrono, i lavoratori che stanno in cucina ad eseguire le istruzioni dello chef, quasi invariabilmente, sono messicani. In molte città i giovani studenti della classe media, che sono soliti lavorare part-time o nei periodi di vacanza, hanno abbandonato i “fast-food” per lavorare in luoghi più piacevoli e di categoria superiore, lasciando i loro posti agli immigrati latini.
Non appena hanno avuto accesso ad altri impieghi, le donne afro-americane hanno incominciato a lasciare il servizio domestico - nel quale attualmente rappresentano solo il 12,4% del totale - alle donne latine che, secondo cifre ufficiali, costituiscono più di un terzo (33,5%) delle persone occupate in questo settore (Employment and Earnings, 2003); è molto probabile che il predominio delle latine sia anche più forte, dato che molte collaboratrici domestiche - un buon numero delle quali immigrate irregolari - sono assunte mediante accordi informali che non vengono recepiti dalle statistiche ufficiali. Bisogna sottolineare che la trasformazione delle nicchie lavorative non è sempre un processo pacifico come sembra essere stato in questi ultimi due casi menzionati.
Sfortunatamente le statistiche, disaggregate in termini occupazionali, per ogni categoria registrano soltanto la percentuale di ispanici rispetto al totale delle persone impiegate; non distinguono tra i differenti gruppi che compongono la popolazione ispanica, così che non è possibile analizzare in questa sede i differenti profili occupazionali con più precisione. Quello che si può notare, partendo dall’informazione disponibile, è la percentuale, e dunque il numero, di lavoratori ispanici in ogni settore della lista delle categorie occupazionali, pubblicata dal Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti (Employment and Earnings, gennaio 2003). Bisogna segnalare in proposito che, data la preponderanza dei messicani - il 65% dei lavoratori ispanici è di origine messicana - e il fatto che le divergenze degli altri due gruppi principali, cubani e portoricani, sono spesso tra loro contrapposte, i dati sul totale della popolazione ispanica non possono dare una buona approssimazione sull’inserimento lavorativo dei messicani.
L’analisi della partecipazione relativa degli ispanici nelle diverse categorie e sotto categorie occupazionali mostra che, nel 2002, essi avevano ciò che ho definito “concentrazione” - ovvero, costituiscono una percentuale del totale degli impiegati in alcuna categoria, maggiore della percentuale che rappresentano nella forza lavorativa totale, in questo caso 11,1% - in 143 delle 360 categorie e sotto categorie occupazionali che presenta il Dipartimento del Lavoro nelle sue tabelle di categorie occupazionali “dettagliate”.6 Si osserva quello che ho definito come un alto grado di concentrazione - ovvero una percentuale tra due e tre volte superiore a quella avuta nell’occupazione totale (al di sopra del 22,2%) - in 42 di queste 143, ed una concentrazione molto alta - più di tre volte superiore - in 19 di queste categorie o sotto-categorie (Employment and Earnings, gennaio 2003).
Nessuna delle categorie o sotto-categorie con una concentrazione alta o molto alta di ispanici sono situate all’interno delle classificazioni generali: I. Dirigenti e professionisti, o II. Tecnici, vendite e settore amministrativo. Le concentrazioni più alte, per es. al di sopra del 33%, di lavoratori ispanici si trovano nelle categorie dei lavoratori agricoli, del servizio domestico, degli operai non specializzati - soprattutto in alcuni settori dell’industria tessile e della costruzione - oltre ad alcuni operai specializzati della costruzione, dell’industria tessile e dell’industria alimentare. Le altre categorie con un’alta concentrazione di ispanici, ovvero superiore al 22%, si trovano distribuite in una serie di settori all’interno delle classificazioni generali III. Servizi. IV. Operai specializzati, impiegati e costruzione, e V. Operai non specializzati. Molti di questi lavori comportano elevati rischi - sia immediati come l’utilizzo di macchinari, affettatrici o tagliatrici, sia a più lungo termine come i macchinari per la pittura a spruzzo, l’esposizione prolungata alle sostanze chimiche del lavaggio a secco, o i procedimenti di riempimento con fibre che liberano particelle dannose - o sono associati ad uno status sociale basso come i servizi di pulizia degli edifici o i servizi domestici.
Inoltre, non è casuale che dei 143 settori in cui si incontra un certo grado di concentrazione di lavoratori ispanici, solo 15 abbiano una remunerazione settimanale mediana che supera la mediana generale di $610 nel 2002. Delle 42 categorie o sotto-categorie con una concentrazione alta o molto alta di lavoratori ispanici, nessuna ha una remunerazione settimanale mediana uguale o superiore alla mediana generale.7 Quella che vi si avvicina maggiormente è l’installazione di isolanti nella costruzione, in cui la mediana settimanale è di $601,00 e la percentuale di ispanici è del 26,2%. Soltanto altre cinque categorie con alta o molto alta concentrazione di ispanici - tutti impieghi nel ramo della costruzione - hanno mediane del salario settimanale tra l’80% e il 96% della mediana generale. Per quanto riguarda le restanti categorie o sotto-categorie con un’alta concentrazione di ispanici, 18 si situano tra il 60% e l’80% della mediana generale, e 17 settori hanno mediane di entrata settimanale inferiori a $366,00 settimanali, che corrisponde a meno del 60% della mediana generale.
D’altro canto solo l’11,6% delle 164 categorie e sotto-categorie occupazionali che offrono un’entrata mediana al di sopra della mediana generale, di $610 settimanali, hanno una proporzione di lavoratori ispanici uguale o maggiore della percentuale che essi rappresentano all’interno della PEA totale, ovvero del 11,1% o oltre. La massima proporzione che raggiungono gli ispanici in alcuni di questi settori è del 16,4%, che corrisponde agli operai specializzati della produzione di beni. In altra parole, i lavoratori ispanici sono molto più concentrati nei lavori non ben remunerati che nei posti ben pagati.
Questa analisi mostra in maniera evidente che esiste una rapporto inversamente proporzionale tra la percentuale di ispanici assunta e la rispettiva mediana salariale, viste le categorie occupazionali dettagliate registrate dal Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti. Ma nonostante l’alta corrispondenza di lavoratori ispanici con bassi salari e la scarsa concentrazione di ispanici dove vi sono salari più alti, i dati non aderiscono perfettamente a un modello regolare o lineare. I lavoratori ispanici sono molto più concentrati in alcuni settori all’interno di una categoria o classificazione generale che in altri.
Le oscillazioni sono dovute, tra l’altro, alle differenze tra i diversi gruppi che compongono la popolazione ispanica negli Stati Uniti, in termini di luogo di provenienza e luogo di stanziamento, di differenze socioeconomiche ed educative che esistono all’interno di ogni gruppo e di reti informali di contrattazione - soprattutto per alcuni settori ed alcune località - che sono sorte negli ultimi decenni. Inoltre riflettono le “discontinuità”, segnalate da Michael J. Piore, che caratterizzano un mercato del lavoro segmentato (Berger e Priore, 1980). Bisogna considerare che questi dati appoggiano l’idea di una crescente segmentazione del mercato del lavoro statunitense, all’interno del quale vengono di solito assegnati alcuni tipi di lavori ai sempre più numerosi lavoratori ispanici con bassi livelli di specializzazione. A questa crescente segmentazione corrisponde, a sua volta, una polarizzazione sempre più alta della scala salariale.
Durante questi due ultimi decenni il livello di istruzione è diventato una discriminante sempre più importante nella determinazione del reddito. La popolazione di origine messicana è il gruppo più arretrato in questo senso. Nell’anno 2000 il 49% della popolazione di origine messicana non aveva concluso la scuola media superiore o high school. Per i portoricani e i cubani le cifre erano rispettivamente 35,7% e 27,0%; allo stesso tempo, soltanto il 21,5% degli afro-americani e il 15,1% di tutti i bianchi non aveva raggiunto questo livello di scolarizzazione. D’altro canto solo il 6,9% delle persone di origine messicana possedevano titoli universitari, rispetto al 13% dei portoricani e al 23% dei cubani; la percentuale degli afro-americani era del 16,5%, mentre il 26,1% di tutti i bianchi aveva titoli universitari (Statistical Abstract of the United States 2001, p. 139).
Queste differenze nella scolarizzazione, sommate ad altri fattori socioculturali che caratterizzano ognuno dei sotto-gruppi principali, si riflettano in maniera evidente nella struttura occupazionale. A livello delle categorie generali, il profilo occupazionale dei cubani si avvicina più a quello dei bianchi, e quello dei portoricani più a quello degli afro-americani, di quanto il livello di entrambi si avvicini al profilo dei messicani. Tali differenze sostengono ancora di più l’idea della crescente segmentazione del mercato del lavoro statunitense, considerando anche la distribuzione geografica di questi singoli gruppi.
Gli immigrati messicani hanno la fama di buoni lavoratori. Sopportano giornate più lunghe e salari più bassi di quanto non facciano altri lavoratori; molti di loro sono appena arrivati, spesso sono illegali, dunque di solito non protestano quando vengono trattati male né protestano per le irregolarità commesse dai loro datori di lavoro; non sono esigenti né contestatori. Per queste ragioni, in diversi ambiti in cui non è necessario conoscere molto bene l’inglese, sono diventati i lavoratori preferiti dagli imprenditori. Anche in luoghi dove dominano il razzismo e la discriminazione nei confronti degli afro-americani, i messicani sono più accettati, ma le stesse persone che assumono messicani per lavorare nei loro negozi e fabbriche, non vogliono poi che vivano nei loro quartieri, né che i loro figli vadano a scuola con i propri.
Certamente, l’affluenza di questa mano d’opera economica è stata uno degli elementi chiave del boom economico degli anni Novanta. Nei dieci anni tra il 1991 e il 2001, l’economia statunitense ha creato più di venti milioni di nuovi posti di lavoro, la maggior parte dei quali non richiedono un livello di studi superiore, di conseguenza i salari sono di solito più bassi. Nel 2000 solo 3 posti di lavoro su 10 esigevano studi più alti del diploma di scuola media superiore (high school). Le proiezioni per il prossimo decennio prevedono un panorama simile. Si prevede la creazione di 22,2 milioni di posti di lavoro tra il 2000 e il 2010; gli impieghi che richiedono un tipo di studio universitario o parauniversitario aumenteranno più rapidamente, tuttavia in termini assoluti il maggior numero di posti di lavoro creati si creerà in quegli ambiti in cui si richiede soltanto una certa esperienza o un aggiornamento da acquisire sul posto di lavoro (Hecker, 2001, p. 57).
La stratificazione economica che deriva anche dalla maggiore segmentazione del mercato del lavoro, si manifesta nella frammentazione residenziale e nella divisione delle grandi città, dei sobborghi e delle aree extraurbane che le circondano, in quartieri molto differenziati. La segregazione economica è più forte ed efficace, nel determinare dove possono vivere le persone, di qualsiasi ordinanza municipale - come quelle che esistevano in precedenza in alcune località - che proibivano agli afro-americani o agli ebrei o ad altri di comprare case in certe zone riservate ai bianchi anglosassoni. I quartieri latini o i quartieri messicani, così come i quartieri etnici del passato e anche del presente, nascono dalla ricerca di affinità e solidarietà in un ambiente ostile; ma la permanenza al loro interno per molti anni, e anche per diverse generazioni, è dovuta in parte anche ai limiti economici che rendono altri luoghi inaccessibili.
3. Entrate e status economico
dei messicani e latini negli Stati Uniti
Una delle caratteristiche più note dell’economia statunitense nell’ultimo quarto di secolo è la crescente disuguaglianza nella distribuzione delle entrate. Il coefficiente di Gini per le famiglie (che misura il grado di disuguaglianza nella distribuzione delle entrate) è aumentato del 23% tra il 1970 ed il 2001, evidenziando un aumento più marcato a partire dal 1985. I due periodi di crescita economica più prolungati, in tempo di pace, che questo Paese ha conosciuto dal 1945 - dal 1983 al 1990 e dal 1992 al 2001 - sono stati accompagnati da maggiori disparità nella distribuzione della ricchezza.
Mentre la partecipazione alla ricchezza totale del 20% più povero della popolazione si sgretola lentamente, quella del 20% più ricco aumenta sempre di più. Nel 2001 il gruppo (quintile) più povero ha ricevuto il 4,2% delle entrate di tutte le famiglie, mentre il gruppo(quintile) più ricco ha ricevuto il 47,7% e il 5% più alto ha ricevuto il 21,0% del totale (March, Current Population Survey, http://www.census.gov/hhes/income/hinstinct/f02.html). L’esempio più estremo di questa crescente concentrazione delle entrate e della ricchezza negli Stati Uniti è il fatto che nel 1970 la compensazione annua reale dei dirigenti delle 100 imprese maggiori era 39 volte maggiore del salario del lavoratore medio, e che nel 1999 era già 1000 volte maggiore (Krugman, 2003). Secondo le spiegazioni più diffuse, la maggiore dispersione salariale è dovuta all’espansione del commercio internazionale, alla decrescente affiliazione sindacale, alla crescente domanda di lavoratori con alti livelli di scolarizzazione, al grande aumento assoluto e relativo dell’occupazione nel settore dei servizi e all’incremento del numero di donne e immigrati nella forza lavoro.
Le nuove pratiche e strategie imprenditoriali, associate alla ristrutturazione industriale degli ultimi due decenni, hanno generato una maggiore instabilità e insicurezza nell’occupazione per la maggior parte dei lavoratori, minando il loro potere di negoziazione. Famiglie di professionisti e di lavoratori e impiegati specializzati - che hanno resistito alle vicissitudini degli anni Settanta e Ottanta con l’inserimento crescente delle donne nella PEA - fanno ora fronte alle nuove esigenze del mercato con un maggior numero di ore di lavoro. Si trasformano quindi in consumatori di un maggior numero di beni di consumo e servizi personali, forniti da lavoratori meno qualificati, la cui remunerazione è diminuita nettamente, in termini relativi, rispetto a quella del resto della popolazione, nonostante la crescente domanda dei lavori da essi svolti.
Le nuove “nicchie di lavoro per immigrati” - che offrono condizioni di lavoro e salari inaccettabili per la maggioranza degli statunitensi - crescono alla pari dell’offerta apparentemente inesauribile di immigrati appena arrivati per i quali i pur bassi salari rappresentano un aumento da 10 a 15 volte rispetto a quello che potrebbero guadagnare nei loro Paesi di origine. Nonostante ciò, la maggioranza viene relegata negli strati inferiori dello spettro socioeconomico negli Stati Uniti. “Sebbene i lavoratori latini costituiscano una percentuale in aumento della forza lavoro del Paese, persistono alti livelli di povertà e disoccupazione, ed entrate basse” (Thomas-Breitfeld, 2003).
Dall’inizio degli anni Ottanta, per quanto riguarda le donne, e dagli anni Novanta, per gli uomini, la mediana delle entrate dei lavoratori latini è minore di quella di qualsiasi altro gruppo della popolazione statunitense. Nel caso degli uomini è leggermente inferiore alla mediana degli afro-americani (nel 2001 $20.189 annui per i latini e $21.466 per gli afro-americani) e il divario tra questi due gruppi ed i bianchi non ispanici ($31.791) è notevole. A partire dalla metà degli anni Ottanta, per gli uomini che svolgono durante l’anno lavori a tempo pieno, la mediana dei latini è stata inferiore a quella degli afro-americani e il divario tra i due gruppi si allarga sempre più ($25.271 vs $1.921 nel 2001), come diventa sempre più ampio anche il divario esistente tra ispanici e bianchi non ispanici ($43.194 nel 2001). La mediana delle donne latine ($12.583 annui nel 2001) è notevolmente inferiore a quella delle afro-americane ($16.282), che attualmente hanno un livello abbastanza vicino a quello delle bianche non ispaniche ($17.229). Nel caso delle donne che svolgono lavori a tempo pieno durante l’anno, la mediana delle latine ($21.973 annui nel 2001 a fronte di $27.297 per le afro-americane e $31.794 per le bianche non ispaniche) è stata nettamente la più bassa, da quando si hanno dati in merito, ed il divario è in crescita (Current Population Survey (CPS) via Internet). Tra i lavoratori latini, i messicani e le messicane hanno la mediana di entrate più bassa.8
D’altro canto, sebbene le mediane delle entrate dei nuclei abitativi e delle famiglie latini siano un po’ più alte di quelle degli afro-americani, le differenze di entrambi rispetto alle mediane dei bianchi non ispanici tendono ad aumentare. Inoltre, le differenze non sono dovute a migliori remunerazioni per i latini - già abbiamo visto che sia gli uomini che le donne latine tendono a guadagnare meno che gli afro-americani - ma al fatto che il numero di lavoratori per ogni nucleo abitativo o famiglia è maggiore; allo stesso tempo vi è anche generalmente un numero più elevato di dipendenti. Molte volte i nuclei abitativi latini comprendono membri della famiglia allargata, come zii, cugini, nipoti, ecc... e anche persone che non sono membri della famiglia, ma che quasi certamente vengono dallo stesso luogo di provenienza. La chiara conseguenza è che l’entrata maggiore viene divisa tra un numero più alto di persone e, pertanto, dal 1985, l’entrata pro capite dei latini è più bassa di quella degli afro-americani. Nel 2001 la differenza è stata di quasi $2.000,00 annui (rispettivamente, $13.003 e $14.953), e l’entrata pro capite dei bianchi non ispanici è stata due volte più alta ($26.134) (CPS su Internet).
La segmentazione del mercato del lavoro, senza dubbio, ha un impatto negativo sulle entrate dei latini. Analizzando i dati di 38 zone metropolitane in lungo e in largo per il Paese, Lisa Catanzarite ha rilevato salari più bassi in lavori - da lei denominati lavori di “cuello café” - con un’alta concentrazione di immigrati latini. Afferma che queste differenze salariali colpiscono maggiormente le minoranze etniche e razziali di quanto non accada per i bianchi non ispanici e che pregiudicano soprattutto gli immigrati latini che sono arrivati in precedenza, dato che essi hanno maggiori probabilità di essere impiegati in questi settori. Fa riferimento alla svalutazione delle mansioni svolte, gli svantaggi del mercato inerenti a lavori intensivi quanto a mano d’opera, la mancanza di potere politico dei gruppi coinvolti e la loro disposizione ad accettare salari bassi, come fattori che interagiscono per determinare questa differenza salariale (Catanzarite 2003). Un recente documento del Consiglio Nazionale della Razza (NCLR, sigla in inglese) segnala che i bassi livelli di scolarizzazione fanno sì che i latini si concentrino in lavori poco qualificati che a loro volta portano bassi salari e scarso accesso ad altri benefici. Si osserva però anche che “altri fattori importanti relativi allo status e al benessere dei lavoratori latini sono la discriminazione, il loro status migratorio e la scarsa partecipazione sindacale” (Thomas-Breitfeld, 2003).
Nel caso dei nostri intervistati, ad esempio - come ci si può aspettare tra immigrati di prima generazione con bassi livelli di scolarizzazione - tendono ad avere entrate al di sotto della mediana dell’entrata dell’insieme degli ispanici a Los Angeles, soprattutto quelli di origine messicana. D’altro canto, sia il costo della vita che i salari in questa grande zona metropolitana - la seconda del Paese - sono solitamente più alti di quelli prevalenti a livello nazionale. La mediana dell’entrata familiare tra gli intervistati è stata di $20.800 annui. Questa cifra risulta molto alta, se paragonata con i livelli di entrate prevalenti in Messico, tuttavia non lo è se si considerano i livelli salariali ed il livello e i costi della vita negli Stati Uniti, o il numero di persone che sostengono questa entrata familiare o che ne dipendono.
La mediana analizzata è sufficiente ad indicare che la maggioranza di queste famiglie vive in condizioni precarie all’interno degli Stati Uniti, dal momento che si trova molto più vicina alla soglia di povertà - la cui media valutata per una famiglia di quattro componenti è stata di $18.104 nel 2001 - di quanto si avvicini alla mediana generale dell’entrata annua dei nuclei familiari - che è stata di $42.151 nel 2000. Per quanto riguarda le entrate individuali, la loro situazione è di un’arretratezza notevole rispetto al resto della popolazione latina a Los Angeles, sia per gli uomini che per le donne. Bisogna qui segnalare che, generalmente, le entrate dei latini a Los Angeles sono inferiori rispetto a quelle degli afro-americani e soprattutto se paragonate a quelle dei bianchi non ispanici. Inoltre lo svantaggio resta anche paragonando le entrate degli intervistati con le mediane dei latini a livello nazionale, che in entrambi i casi (uomini e donne) sono inferiori a quelle che prevalgono a Los Angeles.
È noto che, a livello nazionale, l’indice di povertà per gli afro-americani è diminuito negli ultimi 40 anni (dal 55,1% nel 1959 al 22,7% nel 2001), nonostante le retrocessioni dovute ai periodi di recessione, ma nel caso dei latini non è successa la stessa cosa. Tra il 1972 e il 1994 il tasso di povertà è andato aumentando (22,8% nel 1972, 30,7% nel 1994), anche se da allora è calato in maniera significativa, fino a raggiungere il 21,4% nel 2001. Ad ogni modo, questo indicatore è stato maggiore per i latini che per gli afro-americani per quattro anni consecutivi dal 1994 al 1997. Inoltre, mentre l’incidenza degli afro-americani nell’insieme dei poveri è diminuita sistematicamente passando dal 31,1% del totale nel 1966 al 24,7% nel 2001, quella dei latini è cresciuta nettamente, passando dal 10,3% nel 1972 al 24,3% nel 2001 (CPS su Internet). In altre parole, i latini che formano quasi l’ottava parte della popolazione statunitense, sono al quarto posto tra i gruppi che hanno entrate al di sotto della soglia di povertà. Se continuerà la tendenza attuale, la popolazione ispanica negli Stati Uniti sarà non solo la minoranza etnica o razziale più numerosa - come si è già constatato nel censimento del 2000-, ma presto diventerà anche la più povera.
4. Conclusioni
È innegabile che il mercato del lavoro statunitense è diventato più stratificato e segmentato nel corso degli ultimi due decenni. I cambiamenti tecnologici e le strategie di riorganizzazione industriale hanno favorito la creazione, da un lato, di un certo numero di posti di lavoro che richiedono livelli di studio sempre più alti e maggiori specializzazioni e, dall’altro, di un gran numero di posti di lavoro che non richiedono un livello di istruzione superiore al diploma di scuola media superiore. Questi ultimi sono di solito lavori poco stabili, con remunerazioni molto basse e che offrono poche possibilità di carriera. La grande affluenza di immigrati disposti ad accettare salari bassi è stata un complemento ideale alla crescente offerta di lavori mal remunerati negli Stati Uniti.
Un numero importante di ispanici - soprattutto tra gli ultimi arrivati, che sono in maggioranza messicani - occupa i posti di lavoro meno desiderati e con salario più basso. Questo fatto, in sé, non è diverso da quanto accaduto ad altri gruppi di immigrati in epoche precedenti. Quello che non appare molto chiaro sono le prospettive di mobilità socioeconomica cui possono mirare i figli degli immigrati poveri di oggi, dato che i loro genitori si sono inseriti all’interno di un mercato del lavoro molto segmentato e stratificato. Per quanto riguarda la prima generazione, guardando indietro, è evidente che hanno progredito molto a livello delle condizioni materiali che lasciarono nella propria terra natale, tuttavia la mobilità socioeconomica che ha caratterizzato altri periodi e favorito l’idea del “sogno americano” - l’esistenza di un Paese dove con un duro lavoro si poteva riuscire a diventare, o per lo meno vedere i propri figli diventare, membri della classe media - sembra sempre più difficile da ottenere.
Gli immigrati che ho intervistato a Los Angeles hanno mostrato un alto livello di tolleranza verso le proprie condizioni di vita; più di tre quarti ha indicato l’intenzione di restare nel quartiere in cui vive attualmente; inoltre, più della metà ha affermato che pensa di continuare il lavoro attuale. D’altro canto, soltanto un quarto ha intenzione di ritornare al proprio Paese di provenienza, quando avrà “sufficiente” denaro per farlo e uno scarso 10% ha manifestato l’intenzione di farlo quando andrà in pensione, ma il 60% ha affermato che rimarrà negli Stati Uniti; inoltre quattro degli intervistati sono già pensionati che non sono tornati nel Paese di provenienza. La maggioranza di queste persone si trova non lontano dalla soglia di povertà in termini statunitensi. Anche se quasi tutti hanno manifestato il desiderio che i propri figli frequentino l’università, le probabilità che riescano a farlo sono poche. La percentuale di giovani di origine messicana che lasciano gli studi, senza terminare la scuola media, è molto più alta di quella che ottiene un titolo universitario.
La relativa soddisfazione degli immigrati di prima generazione può essere offuscata dalle frustrazioni dei loro figli, il cui referente più forte è l’ambiente statunitense nel quale vivono e non il quartiere, il paese o la fattoria da dove vengono i loro genitori. C’è una sostanziosa, e crescente, bibliografia molto importante, che affronta diversi aspetti dell’inserimento socioeconomico degli immigrati latini nel complesso mosaico che si sta delineando, sia nei luoghi tradizionali di arrivo come in molti altri, nei quali la loro presenza è abbastanza recente. Vilma Ortiz, per esempio - nel suo capitolo sulla popolazione di origine messicana nel libro Ethnic Los Angeles - sostiene che “già nel 1990 il 72% degli immigrati messicani lavorava in occupazioni che si potrebbero definire come “nicchie per immigrati messicani” (Ortiz, 1996, p.257). Inoltre le sue previsioni per il futuro non sono molto incoraggianti, dal momento che afferma che le condizioni di lavoro della maggior parte di queste persone non favoriscono le possibilità di un’ascesa socioeconomica; parla invece di un deterioramento relativo, rispetto ad altri gruppi della popolazione e di maggiore segregazione residenziale e quindi linguistica (Ortiz, 1996).
Da parte sua, Min Zhou tende ad escludere la possibilità che i figli di immigrati, in generale, possano subire un deterioramento socioeconomico rispetto allo status raggiunto dai loro genitori. Tuttavia riconosce che i messicani sono coloro che avanzano con maggiore lentezza e che in particolare Los Angeles non è per loro di grande aiuto, in quanto a occasioni educative e occupazionali (Zhou, 2001, p. 301). Mark Ellis segnala che vi sono molti indizi sul divario sempre più ampio tra immigrati e persone nate negli Stati Uniti per quanto riguarda il benessere economico, e sulla diminuzione delle prospettive di assimilazione economica per quegli immigrati che sono entrati nel mercato del lavoro negli ultimi anni. Sostiene inoltre che uno dei fattori determinanti della possibilità che hanno gli immigrati di avanzare economicamente, in questo Paese, è il luogo di destinazione nel quale arrivano (Ellis, 2001, pp. 117-118).
Considerando i diversi fattori che interagiscono nel configurare le prospettive di ascesa socioeconomica dei nuovi immigrati e dei loro figli, in termini dei parametri prevalenti negli Stati Uniti, Alejandro Portes e Rubén Rumbaut utilizzano il concetto di “assimilazione segmentata” (Portes e Rumbaut, 2001). Osservano che mentre alcuni gruppi di nuovi immigrati si incamminano verso una rapida ascesa, “altri sembrano trovarsi su una strada di aspirazioni ostacolate e mobilità verso il basso, riproducendo in questo modo il dilemma delle minoranze estremamente povere nate nel Paese” (Portes e Rumbaut, 2001, p. XVIIII). Gli stessi autori sottolineano che la razza - che include ovviamente il colore o la tonalità della pelle - è un fattore primordiale per l’accettazione sociale che può oscurare l’influenza di altri fattori come la classe, la religione, la lingua e le caratteristiche e le capacità individuali (Portes e Rumbaut, 2001, p. 47).
Esiste, dunque, un insieme crescente di evidenza empirica e di argomentazione teorica che appoggia l’idea che la mobilità socioeconomica all’interno degli Stati Uniti diventa sempre più difficile per la maggioranza degli immigrati messicani arrivati di recente e quindi per i suoi figli. Mi sembra che in questo caso non si possa dare per scontato, come molti hanno voluto fare almeno a livello discorsivo, che gli immigrati di seconda generazione potranno inserirsi facilmente in un percorso ascendente, a livello lavorativo, che permetterà loro di cancellare le differenze socioeconomiche esistenti oggi tra i loro genitori e altri gruppi della popolazione statunitense. Anche se l’interrogativo sulle prospettive materiali reali di queste seconde generazioni costituisce una preoccupazione centrale per molti ricercatori, tra i quali anche la stessa autrice di questo studio, non vi saranno risposte chiare prima di una decina di anni o anche più; tuttavia le decisioni politiche che si prenderanno nei prossimi due o tre anni potranno essere determinanti per facilitare o ostacolare queste prospettive.
Approvare una proposta come quella che ha lanciato George W. Bush all’inizio di gennaio per creare un programma di lavoratori temporanei, che secondo le sue parole “metterà insieme i lavoratori stranieri disponibili con i datori di lavoro statunitensi quando non si possa trovare nessuno statunitense per i posti vacanti” (Bush, 2004, p. 3), servirà molto bene gli interessi di questi datori di lavoro. Assicurerà un’offerta praticamente inesauribile - che potrebbe essere regolata secondo l’oscillazione della domanda - di lavoratori disponibili ad occupare posti e percepire salari che gli statunitensi rifiutano perché indegni, ingiusti e insufficienti per sostentare le proprie famiglie.
Comporterà invece pochi benefici per i milioni di immigrati illegali che lavorano attualmente negli Stati Uniti. Faciliterà la mobilità tra questo Paese e i loro luoghi di provenienza finché sono inseriti nel programma, cosa certamente non disprezzabile; ma non assicura loro che il soggiorno non possa essere interrotto trascorso il tempo stabilito dal programma, che all’inizio sarà di tre anni. In altre parole, molte persone che vivono e lavorano negli Stati Uniti già da molti anni, potranno essere identificate e quindi obbligate a lasciare il Paese nel momento in cui questo fosse conveniente per gli imprenditori, dato che potranno essere facilmente rimpiazzati da nuovi lavoratori temporanei in qualsiasi momento.
È evidente che l’integrazione de facto tra il mercato del lavoro statunitense e i mercati del lavoro di vari Paesi dell’America Latina, tra i quali emerge il Messico, richiede un contesto istituzionale e soluzioni più eque che offrano benefici più duraturi a tutti i lavoratori coinvolti.
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note
* Prof.ssa Centro di Ricerca sull’America del Nord (CISAN)
Università Nazionale Autonoma del Messico (UNAM).
1 Utilizziamo indifferentemente i termini “Latino” e “Ispanico” per riferirsi agli immigrati provenienti da un Paese latinoamericano e ai loro discendenti nati negli Stati Uniti. I Latini di origine messicana, ovvero nati in Messico o discendenti da Messicani, costituiscono quasi i due terzi del totale.
2 Gli immigrati considerati come “nuovi” sono quelli arrivati negli USA a partire dal 1990.
3 Di fatto, uno degli argomenti principali invocati negli Stati Uniti a favore del trattato, prima che venisse firmato, era la previsione che il flusso migratorio proveniente dal Messico sarebbe diminuito.
4 Nelle statistiche ufficiali statunitensi la denominazione ispanica è una distinzione etnica, e non razziale, e viene sempre segnalato che gli ispanici possono essere bianchi o neri. Pertanto, quando si offrono dati in merito ai “bianchi” o a “tutti i bianchi” vengono inclusi, nell’insieme, anche la maggioranza degli ispanici o latini. Questo gruppo viene escluso solamente quando i dati indicano che ci si riferisce esplicitamente a “bianchi non ispanici”.
5 L’autrice ringrazia l’aiuto di Marcela Osnaya nell’analisi dei dati del Mexican Migration Project e la raccolta e lo studio dei dati dell’intervista realizzata a Los Angeles, cui si è fatto riferimento sopra.
6 Le considerazioni contenute nei paragrafi seguenti si basano su un’analisi, realizzata dall’autrice, dei dati contenuti nelle tabelle “11. Employed persons by detailed occupation, sex, race and Hispanic origin” e “39. Median weekly earnings full-time wage and salary workers by detailed occupation and sex” in Employment and Earnings, gennaio, 2003.
7 L’unica eccezione potrebbe essere il settore dei “lavoratori specializzati della metallurgia”, in cui la mediana è di $ 660,00 settimanali; tuttavia la mediana di questo settore specifico non è registrata e quelli di questo gruppo rappresentano solo il 6% della sotto-categoria corrispondente.
8 Per un’analisi più dettagliata della struttura salariale e occupazionale dei latini negli Stati Uniti, vedere Elaine Levine, Los Nuevos Pobres de Estados Unidos: los hispanos, Messico, D.F., UNAM e Miguel Ángel Porrúa, 2001, capitolo 3.