Flessibilità, occupazione e reddito e Reddito Sociale Minimo
Nicola Galloni
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E’ oramai opinione diffusa che lo scambio tra flessibilità
e occupazione non abbia funzionato, ovvero abbia prodotto risultati non del
tutto auspicabili.
I livelli della disoccupazione permangono, infatti,
incredibilmente alti, mentre esistono beni e servizi che la popolazione domanda,
ma che non vengono prodotti perché il funzionamento del mercato è impedito
dall’insufficiente sviluppo del reddito (o, come si cercherà di vedere più
avanti, perché le condizioni dell’offerta non risultano adeguate alle
possibilità del mercato).
In molti casi i lavoratori con contratto a tempo pieno e
indeterminato sono stati sostituiti da un numero superiore o uguale di
lavoratori precari, a tempo determinato, a “part time” e, comunque, con
paghe orarie più basse. Se, ad esempio, 10 lavoratori a tempo pieno e
indeterminato vengono sostituiti da 12 precari la cui paga oraria è del 20%
inferiore, le statistiche dicono che c’è stato un aumento dell’occupazione;
in realtà si tratta di una evidente mistificazione.
Purtroppo, se si osserva l’insieme dell’economia negli
ultimi 8-10 anni, ci si accorge che la situazione risulta molto peggiore di
quella dell’esempio; ormai, oltre il 50% della forza lavoro presente nell’impresa
appare precaria (ed ha sostituito quella stabile e meglio pagata): “consulenti”
con o senza partita IVA; contratti a tempo determinato che, data la legislazione
vigente, vengono portati a pretesto della stessa sostituzione di giovani precari
con giovanissimi ancora più precari; lavoratori completamente o parzialmente
“in nero”.
Le stesse imprese - che pure reclamano una maggiore
flessibilità soprattutto per i licenziamenti (come se 800.000 dimissioni “volontarie”
all’anno non testimoniassero della pratica diffusa di far firmare alle
lavoratrici e ai lavoratori tali dimissioni in bianco al momento dell’assunzione)
non sembrano soddisfatte della situazione, in quanto avvertono che un turn
over troppo veloce e la dequalificazione della manodopera non porteranno di
certo a buoni risultati nel futuro.
La situazione è paradossale. Alla crescente precarizzazione
della forza lavoro si contrappone la pressante richiesta di un sistema
previdenziale privato, individuale e a valorizzazione del capitale versato: come
se retribuzioni attorno al milione di lire al mese (e, a volte, meno)
consentissero o consigliassero di realizzare un tale passaggio dalla previdenza
pubblica alla sua privatizzazione.
Molti paesi, tra cui - principalmente, ma non solo - l’Italia,
hanno finora favorito lo sviluppo dell’economia sommersa, quella senza
contributi e senza imposte sui profitti; si calcola che, in Italia, i lavoratori
esclusivamente in nero siano circa 4,5 milioni (da non confondere con gli altri
6 e passa milioni - secondo l’ISTAT - di lavoratori regolari che svolgono -
anche - attività professionali irregolari), fenomeno che potrebbe venir
corretto dal miglioramento dei controlli ispettivi e dalla eliminazione di un
tempo eccessivamente lungo --5 giorni - che viene richiesto alle imprese per
comunicare l’assunzione regolare di un lavoratore. Questi 5 giorni, infatti,
sono sufficienti per regolarizzare la situazione solo quando arriva l’ispettore
dell’INPS o del Ministero.
La flessibilità - nei suoi aspetti normativi e retributivi
che, per l’impresa, sono equivalenti a, e vengono calcolati esclusivamente in
termini di costo - ha richiesto, per venir gestita, di introdurre e rafforzare
gli strumenti della concertazione sociale che la hanno nobilitata politicamente
e legittimata (sebbene la realtà abbia ampiamente superato il senso e i limiti
degli accordi o patti i quali erano partiti, più che altro, dall’esigenza di
assicurare un quadro macroeconomico di stabilità e certezza a livello dei
salari e dei loro rapporti con l’inflazione).
Oggi è evidente che, senza uno sforzo di “governance”
del mercato del lavoro non sarà possibile intervenire in modo adeguato sul
fronte delle pensioni (di coloro che lasceranno il lavoro tra 20 o 30 anni), né
delineare una politica dell’occupazione dotata di un minimo sufficiente di
efficacia.
A questo proposito basti pensare che la miope prospettiva
della mancanza di limiti verso il basso alla riduzione dei salari ed al
peggioramento nelle condizioni di lavoro può finire per risultare molto
concreta (spiazzando, così, lo scenario alternativo di una ripresa delle
strategie industriali, della ricerca scientifica e tecnologica, della difesa
della competitività attraverso il miglioramento produttivo derivante da una
forte qualificazione del lavoro in tutte le sue forme).
E’ su questa alternativa tra “flessibilità totale” e
limiti al deterioramento delle condizioni normative e retributive del lavoro che
si pone il dibattito tra reddito di cittadinanza (salario garantito) e reddito
sociale minimo. La riflessione sull’argomento si impone nel momento in cui la
dimensione dei fenomeni (disoccupazione ovvero irregolarità di massa, aumento
della povertà nelle sue forme nuove e passate, crescente disparità nelle
condizioni di vita della popolazione) suggerisce che debbano venir introdotti
drastici correttivi dal lato della domanda e del sostegno ai consumi.
Rita Martufi e Luciano Vasapollo nel loro recente “Profit
State, redistribuzione della accumulazione e reddito sociale minimo” (La
città del Sole, Roma 1999) fanno il punto della situazione distinguendo tra i
due tipi di misure di sostegno del reddito: 1) un dividendo che spetterebbe ai
cittadini - in determinate condizioni socio-economiche o meno - in quanto tali
consentendo loro di scegliere tra il “non lavoro”, la valorizzazione del
tempo libero, l’impiego di sé stessi in attività produttive a qualunque
condizione di flessibilità; 2) un’integrazione retributiva comunque capace di
contribuire alla definizione di un “reddito minimo” che costituisca un
limite alla flessibilizzazione cosiddetta selvaggia.
Tra le due misure vi è, dunque, un abisso culturale ed
economico dato, appunto, dall’esistenza o meno di un legame tra formazione del
reddito ed esistenza di attività produttive.
A questo proposito il ragionamento sul reddito sociale minimo
si collega a quello sulle condizioni dell’offerta (soprattutto nei comparti di
produzione dei servizi di cura delle persone e dell’ambiente) in rapporto allo
sviluppo occupazionale ed alle sue condizioni concrete. Oggi, forse in tutta
Europa, la situazione è caratterizzata da un dilemma: a) pagare poco i
lavoratori dei servizi di cura (come attualmente avviene con le istituzioni del
Terzo Settore) per consentire ad un numero il più elevato possibile di famiglie
di ottenere i servizi e l’assistenza di cui hanno bisogno; b) pagare i
lavoratori ai salari correnti e, così, rinunciare a soddisfare quella parte del
mercato che non risulta in condizioni di reddito adeguate per pagare tali
servizi.
Le riflessioni di Martufi e Vasapollo, nel testo prima
citato, consentono di costruire un modello alternativo di gestione di tali
servizi (di cura delle persone e dell’ambiente) che, se fossero in grado di
dare le risposte a tutti i bisogni della popolazione al proposito,
consentirebbero, altresì, di raggiungere (di avvicinarsi o, al limite, anche di
“superare”) l’obiettivo della piena occupazione.
La quantità di lavoro per unità di servizio, nei comparti
di cura delle persone e dell’ambiente, è infatti, rimasta quasi uguale negli
ultimi 150 anni (a differenza di quanto è accaduto nelle industrie) perché l’esistenza
di lavoratori non remunerati (casalinghe e agricoltori non in quanto produttori
di alimenti, ma in quanto manutentori del territorio) ha reso poco conveniente l’introduzione
di innovazioni tecnologiche ed organizzative.
Negli altri comparti (manifatture, energia, costruzioni,
agricoltura in senso stretto, servizi alle imprese) la spettacolare riduzione di
lavoro per unità di prodotto - resa possibile dalle innovazioni tecniche e
organizzative - ha compatibilizzato la crescita dei salari e il mantenimento
negli equilibri finanziari delle imprese, dato il volume della domanda. Nei
comparti di cura delle persone e dell’ambiente, dove si nascondono le
potenzialità economiche della piena occupazione, la domanda delle famiglie non
risulta, in mancanza di interventi, sufficientemente solvibile (e, quindi,
effettiva), salvo accontentarsi, ai salari correnti, di soddisfare solo una
piccola parte - la più benestante - del mercato.
Di qui la possibilità di esplorare tre strategie non
alternative tra loro: a) l’integrazione salariale dei lavoratori del terzo
settore fino al livello del reddito minimo; b) la somministrazione di buoni e
coupons alle famiglie meno abbienti; c) l’introduzione di tecnologie
efficienti e di nuove formule
organizzative della domanda (gli utenti), ad esempio,
attraverso cooperative di consumato e dell’offerta.
Le prime due soluzioni richiedono un sostegno finanziario
esogeno, sicché una parte della redistribuzione del reddito dovrebbe venir
destinata a sostenere i salari dei lavoratori del settore e/o la domanda dei
consumatori.
La terza soluzione presenta, invece, notevoli caratteri di
endogeneità, nel senso che l’introduzione (e, quindi, prima, lo studio) di
tecnologie e di azioni di organizzazione, capaci di ridurre la quantità di
lavoro per unità di servizio (e, quindi, di rendere compatibili adeguati salari
ed equilibri nei bilanci delle imprese), creerebbe le condizioni adatte al
recupero dei costi finanziari sopportati per promuoverla.
Comunque sia appare evidente in tutta Europa che le risposte
efficaci alla disoccupazione, alla precarizzazione e alla povertà di massa
impongono una riflessione più matura sul ruolo dello Stato, la redistribuzione
della ricchezza prodotta e la definizione di un reddito minimo collegato o alla
mera esigenza di sostenere il livello della domanda oppure alla risposta dei
bisogni di cura delle persone e dell’ambiente a condizioni economiche
possibili.