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TEORIA E STORIA DEL MOVIMENTO OPERAIO

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MARCOS DEL ROIO
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Lotte sociali e problema del potere.

MARCOS DEL ROIO

Dialogo con John Holloway

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1. Si può cambiare il mondo senza prendere il potere?

Qualunque sia il punto di vista di chi interviene sulla realtà storica, non ci sono molti dubbi sul fatto che la teoria socialista e la cultura marxista, insieme al movimento operaio e alle sue istituzioni tradizionali - il sindacato e il partito di massa -, hanno sofferto una pesante sconfitta in questo ultimo quarto di secolo. Indipendentemente dalla corrente politico-ideologica alla quale si può far riferimento, il fatto è che la disintegrazione dell’URSS ha pregiudicato in modo decisivo le organizzazioni politiche e culturali delle classi subalterne, che già soffrivano una pesante pressione disarticolatrice, indotta dall’offensiva del capitale in crisi, che ha provocato cambiamenti molto significativi nella stessa composizione del mondo del lavoro. Alla fine del XIX secolo, nel momento in cui il capitalismo iniziava una nuova fase di vigorosa espansione, il movimento socialista si è trovato di fronte ad una seria crisi teorica, che ha propiziato una diversificazione culturale di una certa portata, nei decenni successivi. In modo molto semplificato, potremmo dire che quelli, come Kautsky, che hanno preteso seguire la rotta inaugurata da Engels, enfatizzando il carattere ‘scientifico’ e ‘obiettivo’ del marxismo, hanno consolidato il versante del ‘marxismo scientifico’, come criticamente lo chiama John Holloway. Questo versante, in varie sfumature, ha prevalso all’interno di gran parte del movimento operaio del XX secolo, che fossero vincolate all’una o all’altra corrente politico-ideologica del contesto internazionale, incorrevano tutte nell’impotenza e nel riformismo di fronte al dominio del capitale e alle sue forme istituzionali. La corrente revisionista riformista si adattò teoricamente e praticamente alla logica del capitale, assumendo il discorso dell’ordine e dell’imperativo etico, predicando l’approfondimento della libertà liberale, poiché sembrò che di fronte alle innovazioni del capitalismo questa sarebbe la via più plausibile per il raggiungimento della ‘giustizia’, così come sosteneva Bernstein. C’è stato però anche un revisionismo di sinistra, che rifiutava a priori qualsiasi forma di dominio del capitale, incluso il partito politico e la rappresentanza parlamentare nello Stato. Capitale e potere politico venivano identificati e la via d’uscita per il lavoro passava per il rifiuto della proprietà privata capitalista e dello Stato, creando una scissione, una sfera autonoma del lavoro e antagonista al potere del capitale. In questa visione completamente negativa, si riproduce, però, la scissione tra l’economico e il politico generata dal movimento del capitale e non si cerca una strategia di superamento. Questa era la concezione di Sorel. Anche tenendo in debito conto tutte le enormi differenze, di circostanza e di tempo, si può dire che il recente libro di John Holloway, Cambiare il mondo senza prendere il potere: il significato della rivoluzione oggi (San Paolo: Boitempo / Viramundo, 2003, 330 p.), ha un vincolo con questa tradizione revisionista di sinistra. Certo è che il punto di partenza dell’elaborazione critica di Holloway è il fallimento del socialismo di Stato in URSS, del movimento operaio e delle sue istituzioni, ispirati dal ‘marxismo scientifico’, nel promuovere una lotta di classe efficacemente anticapitalista e emancipatrice del lavoro. Una caratteristica di questo marxismo è stata, secondo il ragionamento di Holloway, quella di privilegiare la dimensione del politico, della presa del potere politico statale, sia per mezzo di scontri istituzionali, sia attraverso l’insurrezione. In questo modo, per quanta audacia e impegno si possano mettere nell’azione, si finirà solo per riprodurre il feticcio dello Stato, il potere politico e lo stesso movimento del capitale, elementi costitutivi che fanno parte dello stesso flusso del reale. Secondo questo autore non si tratta, penso, di ignorare tutto quello che è stato prodotto dalla teoria socialista, i grandi scontri di classe e le guerre rivoluzionarie che hanno fatto il XX secolo. Semplicemente non si tratta di un lavoro di revisione storica, ma di filosofia e teoria politica, se spetta un qualche inquadramento a questo scritto. Per Holloway, specialmente nel momento storico in cui ci troviamo, nel quale è chiara la coscienza di una grande sconfitta e nel quale il processo di ‘feticizzazione’ sembra essere (quasi) totale, essenziale è ritornare a Marx, riscattando la sua dialettica radicalmente critica del reale, nella quale l’azione e la volontà del soggetto svolge un ruolo essenziale. Questo è uno strumento indispensabile affinché si possa far fronte al feticismo estremo del capitalismo moderno. Il metodo dialettico di Holloway riprende la prospettiva del flusso continuo del reale, del quale il soggetto è elemento costitutivo e attivo, che si muove per contraddizioni negative che si compenetrano. Holloway non pretende di analizzare la stabilità o la forma, ma l’instabilità, la contraddizione e il movimento di negazione, poiché l’obiettivo è di mostrare la debolezza del potere politico del capitale, la vulnerabilità del processo di ‘feticizzazione’, la possibilità della rivoluzione, anche se essa sembra impossibile. La possibilità della rivoluzione si trova, però, nella sua necessaria radicalità, nell’enfasi della negatività in relazione al capitale e al potere politico, qualunque sia la sua forma. Una negatività che parte dal soggetto che si ribella contro il feticismo e il dominio del capitale e progetta un mondo oltre il capitale e in un modo che è sempre la cristallizzazione di relazioni sociali determinate. Questa negazione soggettiva, questa ribellione, tuttavia, non è contemplativa o isolata, poiché si trova sempre e in qualche modo inserita nel flusso sociale del fare dell’uomo generico, che presuppone la capacità del potere-fare, di proiezione e di superamento. Questo è sempre un potere sociale, collettivo, comune, generico. Il potere-fare è il fondamento materiale della nostra umanità, ma anche della ribellione e della critica radicalmente negativa del potere politico del capitale, sotto il dominio del quale la ‘feticizzazione’ e la frattura tra il potere-fare (potere sociale) e il sovra-potere (potere politico) arriva a limiti indefinibili, esigendo una soluzione radicalmente negativa del sovra-potere, una rivoluzione comunista. La nascita di un sovra-potere (potere politico) ha significato una frattura nel flusso sociale del fare, la nascita di una contraddizione dialettica tra gli sfruttati e gli sfruttatori, che nel capitalismo separa il potere-fare dai mezzi-per-fare e anche da ciò che è fatto (il prodotto del potere-fare), trasformandoli in ‘oggetti’, in proprietà privata, in merce. Soggetto e oggetto si trovano chiaramente delineati, essendoci stata una rottura radicale nel flusso sociale del fare, una rottura tra fare e progetto, tra coloro che fanno e coloro che comandano il da farsi. In questo modo, il processo del fare, il potere-fare, si aliena da ciò che è fatto, mediato dal sovra-potere, dal potere politico, che si appropria di ciò che è fatto, creando lo Stato (e il Diritto) come istanza separata che garantisce l’appropriazione di ciò che è stato fatto da parte del sovra-potere e riproducendo la rottura del flusso sociale del fare, la rottura della soggettività tra il fare e il progettare. Il flusso sociale del fare può stabilirsi solo se si nega il potere-fare che esiste sotto forma di sovra-potere che è, a sua volta, la negazione della sostanza stessa del potere-fare, poiché alienato. Cioè, il superamento del feticismo e della rottura del flusso sociale del fare può avvenire solo se la soggettività tra il fare e il progetto si connettono, rompendo la mediazione del sovra-potere e del sovra-sapere, che è una dimensione del sovra-potere. La lotta del potere-fare con il sovra-potere è una lotta antagonistica e l’emancipazione dal sovra-potere avviene nella misura in cui si oppone alla creazione del valore e crea un contro-potere o antipotere, la negazione del sovra-potere, che è la chiave per l’emancipazione della soggettività umana collettiva. La lettura di Marx proposta da Holloway riscatta la concezione che concepisce il potere politico come penetrato nelle relazioni sociali capitaliste, componendo un antagonismo sociale irriducibile. Questa idea, che potrebbe sembrare ovvia, è stata frequentemente contestata dai versanti che Holloway chiama “marxismo scientifico”, che riproducono la prospettiva liberal-borghese di separazione tra il “soggetto” e l’ “oggetto”, che porta alla separazione tra l’ “economico” e il “politico”; la stessa idea è anche contestata dalle correnti “post-moderne” che suggeriscono una frammentazione dei saperi e dei poteri. In realtà, la cosiddetta conoscenza scientifica, nel cercare definizioni e classificazioni all’interno del mondo sociale alienato, che presuppone il capitalismo, è essa stessa un prodotto della rottura del flusso del fare sociale dell’uomo. L’intero scopo di classificare e identificare formalmente qualcosa che si trova in movimento contraddittorio può solo produrre concetti formali astratti, invece che concetti dinamici e storicamente determinati, costituendo così identità che rafforzano la frammentazione del flusso sociale del fare. Lo Stato è una forma decisiva che ci conferisce l’identità di ‘cittadino’ e ci conferisce l’illusione che il sovra-potere si delimiti e si concentri in esso. Invece, in realtà, lo Stato è solo un elemento all’interno della frammentazione delle relazioni sociali e del flusso del fare, del quale il sovra-potere è un prodotto. Ciò che genera le relazioni di dominio si trova nella rottura del flusso del fare tra il potere-fare e il sovra-potere, che, nel capitalismo, separa ciò che è fatto dall’atto del fare, producendo astrazione del lavoro e feticismo. Secondo Holloway da ciò deriva che è un equivoco teorico e pratico concentrare l’azione rivoluzionaria sulla presa di potere dello Stato. Non è questa la chiave per la ricomposizione del flusso del potere-fare e dell’eliminazione del sovra-potere (potere politico), poiché lo Stato è solo un frammento particolare di un processo sociale che ha le sue radici nella produzione del valore, è una forma alienata e cristallizzata delle relazioni sociali capitaliste. Lo Stato più che una forma che condensa il potere politico è un processo di riproduzione delle relazioni sociali che separa il ‘politico’ dall’ ‘economico’. Tanto che è inutile, dal punto di vista dell’emancipazione umana, prendere il potere politico statale per, a partir da quel momento, cambiare l’‘economia’. Il capitale, il potere politico e lo Stato, che sono prodotti della rottura del flusso sociale del fare -che genera alienazione- devono essere sconfitti dall’attività autonoma delle masse, nella costruzione di una alternativa di vita che non riproduca valore e merci, ma che non riproduca neanche potere politico.

2. Quale Marx?

L’intenzione di Holloway è quella di un ritorno a Marx e ad una lettura radicalmente negativa del Capitale e del potere politico. Non si può, però, rimanere limitati a Marx, dal momento che si è avuto un avanzamento teorico durante il XX secolo. Qui, cercando elementi per rafforzare il suo metodo e anche per approfondire la riflessione rispetto al tema cruciale del feticismo, Holloway fa ampio uso del Lukács della Storia e coscienza di classe e di alcuni autori della cosiddetta Scuola di Francoforte, in special modo di Horkheiner, Adorno e Marcuse, oltre che di Bloch. Seguendo il ragionamento di Holloway, il fallimento del movimento socialista del XX secolo, così come del ‘marxismo scientifico’, è stato causato dall’insufficiente preoccupazione riguardo alla questione della dialettica come metodo rivoluzionario, come negazione del processo di ‘feticizzazione’, che ha reso possibile l’erezione, in seno alla sinistra, del feticcio dello Stato e della ‘presa del potere’. Il versante revisionista/riformista, che coincide con un aspetto “post-moderno”, intende che non c’è modo di negare radicalmente il mondo del capitalismo, poiché si può solo migliorarlo, combattendo per diritti affermativi di identità, rafforzando così la frammentazione sociale (da cui la valorizzazione dell’americanismo in seno ad una certa “sinistra”). Il versante che più si identifica con il “marxismo scientifico”, cerca di osservare nel movimento di affermazione del capitale il processo oggettivo di ricomposizione della classe operaia, affinché possa riattivare la lotta di classe attraverso il potere politico contro la borghesia, in questo caso la classe operaia è ‘resa positiva’. Lo stesso versante teorico che alimenta la riflessione di Holloway ha portato a concepire una situazione di feticismo senza uscita, una situazione che diventa sempre più grave. Afferma: allora la rivoluzione è impossibile! Non è che un’illusione! Non è che un altro feticcio dentro un mondo irrimediabilmente trasformato in feticcio! Non è così che la pensa Holloway. Secondo lui la dialettica negativa come realtà del movimento delle relazioni sociali capitaliste, che genera feticismo e sovra-potere, indica, essa stessa, l’esistenza di un processo di ‘antifeticizzazione’ e di antipotere, che rivela il soggetto collettivo critico rivoluzionario. Il movimento rivoluzionario è passibile di costituirsi a partire da tutta l’azione antagonistica contro il capitale, il potere e lo Stato. Certamente il nucleo di questo movimento deve essere la produzione del lavoro astratto, la classe lavoratrice, dal momento in cui, e questo è importante, questa venga intesa come un processo, come un soggetto sociale antagonistico che non può essere delimitato, che non può incontrare un’identità positiva, poiché questo significherebbe soccombere al feticismo e al potere del capitale. Come, allo stesso modo, non può essere concepibile una classe ‘feticizzata’ preesistente. La classe lavoratrice come soggetto critico rivoluzionario esiste solo dentro una dialettica negativa interna al potere-fare, che oppone feticismo e antifeticismo, che oppone l’idea di un potere politico speculare e antipotere. Se la lotta è contro il lavoro alienato e la ‘feticizzazione’, non può esserci una identificazione e definizione positiva di quello che è essere classe lavoratrice, al contrario, la lotta di classe deve essere rivolta alla negazione della classe lavoratrice, attraverso la costruzione di una non-identità. In questo modo, la non-classe lavoratrice è una costruzione soggettiva, è la comunità di tutti coloro che si oppongono al capitale. Il conflitto lavoro/capitale, potere-fare/sovra-potere, è un conflitto tra l’umanizzazione e la negazione dell’umanità dell’Uomo. In questo modo, la non-classe lavoratrice, definita nell’antagonismo sociale contro il dominio del capitale, tende a confondersi con l’umanità emancipata nella ricomposizione del flusso sociale del fare, nella misura in cui si amplia la comunità della lotta negativa contro il capitalismo. Il punto di partenza è, e può solo essere, il potere-fare, il lavoro potenzialmente emancipato dell’uomo, e non il lavoro alienato. Ma esiste una realtà concreta che possa sviluppare il poter-fare, l’‘antifeticizzazione’ e l’antipotere? Non è facile affermarlo! L’antipotere, in un mondo tanto sgominato dal feticismo e dal dominio del capitale, è anche frammentato e quasi invisibile, ma può essere intravisto in tutto il movimento che si oppone al sovra-potere: il capitale e lo Stato. L’antipotere si trova dovunque ci sia resistenza anticapitalista. Meno complicato è intendere che l’antipotere, la lotta del poter-fare, l’antagonismo sociale del lavoro, è la forza che muove il sovra-potere. Questo dal momento in cui si concordi con il fatto che potere e antipotere si compenetrano negativamente e condizionano il movimento del reale. Allo stesso modo anche capitale e lavoro si compenetrano, e si compenetrano generando la ‘crisi’. Tuttavia, seguendo ancora il ragionamento di Holloway, la crisi può essere vista come risultato inevitabile delle contraddizioni obbiettive dello sviluppo capitalista o anche come espressione della lotta di classe. La prima accezione porta con sé l’implicazione che la presa del potere politico è indispensabile affinché una soggettività, agendo dall’esterno, ridirezioni l’organizzazione sociale e l’economia; la seconda rende possibile intendere che la crisi deriva dal rafforzamento dell’antipotere e della soggettività antagonistica dentro la contraddizione capitalista. L’esistenza materiale dell’antipotere può essere storicamente dimostrata a partire dalla disintegrazione delle relazioni sociali feudali. La disintegrazione del feudalesimo e la disarticolazione delle sue relazioni di subordinazione interpersonali hanno condotto il servo e il signore alla libertà, all’emancipazione politica. Il servo è sfuggito alla subordinazione personale vincolata alla terra e il signore è sfuggito ai suoi obblighi monetarizzando la sua ricchezza. A partire da allora l’uomo che lavora è libero, sia di muoversi e vendere la sua forza lavoro dove e a chi vuole, sia libero dagli strumenti del potere-fare, il che lo riporta alla subordinazione sotto forma di contratto di lavoro. I padroni degli strumenti del potere-fare e del sovra-potere capiscono che senza una nuova subordinazione del lavoro la loro ricchezza si esaurirebbe. Il capitalismo ricompone la forma della subordinazione del lavoro, spersonalizzandola, ma anche prevenendo la fuga del lavoro. La contraddizione tra capitale e lavoro è di repulsione reciproca che fa in modo che l’uno cerchi di sfuggire all’altro. Il capitale cerca di scappare dal lavoro attraverso il sovra-potere che nega il potere-fare, ma non può prescindere dal lavoro, che è la fonte del valore e del denaro. Il capitale dipende dal lavoro, ma il suo tentativo di fuga è autodistruttivo. A sua volta, almeno in principio, il lavoro può sfuggire dal capitale sempre che si costituisca in antipotere e in lavoro non-alienato, in umanità, poiché la forma attraverso la quale il lavoro dipende dal capitale passa direttamente per la soggettività, il che comporta l’insubordinazione e la volontà di fuggire dal capitale, di disarticolare le relazioni di sfruttamento e di dominazione del capitale. Se allora è vero che il capitale genera l’astrazione del lavoro e il feticismo nella massa lavoratrice, sottomettendola al suo sovra-potere per mezzo del salario e dell’organizzazione della produzione, è anche vero che il lavoro, quando irrompe con il suo potere-fare, impregna di ‘libertà’ il capitale e il suo dominio. Una libertà che prende la forma del valore e che può riprodursi solo con relazioni sociali disarticolate, che non si stabilizzino e che non gestiscano classi sociali stabili, facendo in modo che la ‘crisi’ sia elemento costitutivo del capitalismo e della sua forma di antagonismo sociale, che è centrifuga. Il capitale fugge dal lavoro e dalla sua ribellione come potere-fare per mezzo della macchina e del rentismo, ma con questo tende a deprezzare la sua tassa di accumulazione del valore, che è la sua propria sostanza, vedendosi obbligato ad ampliare ancora di più lo sfruttamento e il dominio sul lavoro. Lo sfruttamento e il dominio ampliato del capitale avviene per mezzo delle nuove tecnologie, di nuove forme di gestione e attraverso l’ampliamento del campo di appropriazione privata (salute, educazione, risorse naturali, conoscenza scientifica). Ma come il lavoro fugge dal capitale? Come il lavoro si emancipa? Come è possibile la rivoluzione? Ecco qui la parte più delicata e polemica dell’argomentazione di Holloway. Di fronte alla dinamica capitalista, centrifuga e disarcolatrice delle relazioni sociali, si tratta prima di tutto di accentuare la disarticolazione sociale, di accentuare la crisi del capitale. Si tratta di dire no e di fuggire alla dominazione, di gridare, di protestare, di ribellarsi e mobilitarsi contro la barbarie del capitale. Questo però può essere innocuo, poiché potremmo continuare a gridare e protestare in modo indefinito contro la perversità del capitale, senza riuscire a disarticolare la sua dinamica sempre più sorda. Come fuggire quindi, se è possibile farlo, ora che quasi tutto è proprietà privata e questa tende a perseguitare e catturare i fuggitivi, anche se sia solo per mantenerli ridotti all’alienazione e alla miseria? Oltre a rifiutare soggettivamente il capitale, oltre a gridare e protestare deve esserci anche un impegno per riscattare il potere-fare, un impegno per l’autonomia, per la creazione di una comunità di lotta anticapitalista. Ancora una volta, però, questo movimento viene limitato dal processo di appropriazione privata degli strumenti del fare. Allora è necessario che gli strumenti del fare (i mezzi di produzione) siano espropriati. Insiste e ricorda Holloway, però, che la proprietà privata è un processo di relazioni sociali di appropriazione privata di ciò che è fatto per mezzo del sovra-potere e a costo della trasformazione in feticcio del potere-fare, non un elemento fisso offerto dalla realtà. In modo che queste relazioni sociali non possono essere interrotte attraverso la presa del potere politico, poiché questo farebbe in modo che le relazioni del sovra-potere, inteso come un potere-fare trasformato in feticcio, si ristabiliscano e così lo stesso potere politico, che è un elemento della ‘feticizzazione’. Che fare allora qui e ora per aggravare la crisi del capitale, con le sue relazioni sociali di appropriazione privata del potere-fare da parte del sovra-potere e aprire la strada alla rivoluzione comunista? La risposta è la moltiplicazione di comunità di lotta che tendano a ristabilire il potere-fare, dando le spalle al capitale e creando nuove relazioni sociali ai margini degli Stati nazionali, dal momento che la rivoluzione è contro il feticismo e lo Stato politico (qualunque Stato) è anche un feticismo, che esprime l’antagonismo in una pratica sociale/culturale indicativa dell’emancipazione sociale del processo di lavoro. In pratica, questa sarebbe una antipolitica di una anticlasse lavoratrice, un movimento ‘antifeticizzazione’ per l’istaurazione del flusso sociale del fare, basata non su una qualche politica di organizzazione, ma sull’organizzazione di eventi. Durante il processo, la crisi del capitale diventerebbe sempre più grave, disarticolando le sue relazioni di dominio e rendendo ridicola la stessa idea di proprietà privata. Sembra che qui, senza andare oltre, Holloway si ricordi del passaggio di Marx nel quale vincola l’accentuazione della crisi del capitale all’emergere della coscienza collettiva da cui deriva che il capitale agisce contro l’umanizzazione.

3. Costruire la soggettività antagonista

Nel dare una soluzione tanto poco sviluppata o poco soddisfacente al problema della lotta rivoluzionaria anticapitalista oggi, Holloway non starebbe forse ricadendo nella visione di una situazione tanto orribilmente feticizzata, che non avrebbe via d’uscita (come negli esponenti della Scuola di Francoforte), o avvicinandosi pericolosamente, in pratica, a Tony Negri, da lui criticato per non intravedere una strada per la sconfitta del sovra-potere dell’Impero? Preferisco pensare che l’ispirazione maggiore di Holloway si trovi in Bloch e nel principio della speranza, nella speranza che la lotta di classe incrementi la speranza emancipatrice e la soggettività antagonistica, contenuta nella ‘libertà’ presente già nelle stesse relazioni sociali capitaliste. Ma anche in questo caso saremmo inappellabilmente dediti ad un problema cruciale che rimane senza soluzione, solo con alcuni indizi suggestivi, cioè quello dela configurazione materiale della soggettività antagonistica. Si riconosca, però, che Holloway non ha preteso di rispondere a questa questione, certamente perchè ha capito che questo è un falso problema, poiché la risposta può trovarsi solo nel processo stesso di superamento del feticismo. La radicalità della dialettica negativa non permette una previsione. Non c’è dubbio sul fatto che Holloway faccia un ritorno creativo a Marx, includendo una elaborazione categoriale che demolisce qualsiasi possibilità di lettura positiva dell’opera di questo autore e riscattando tutta la radicalità della critica del capitale. Recupera, tuttavia senza alcun riferimento esplicito, una linea di riflessione critica che ha le sue radici in Proudhon prima e in Sorel poi. L’enfasi sulla questione della scissione e dell’antagonismo sociale irriducibile e, quindi, sulla questione della necessaria autonomia del lavoro rispetto al capitale e al potere politico avvicina Holloway a questi autori suggerendo la materialità della soggettività antagonistica e dell’antipotere. La proposta della formazione di comunità autonome che manifestino l’antagonismo al capitale e che anticipino forme non alienate di relazioni sociali vincola Holloway a questo versante anticapitalista. Tuttavia, Holloway, nell’enfatizzare la critica al “marxismo scientifico” e alla separazione tra l’“economico” e il “politico”, che in questi autori viene mantenuta, supera anche l’analogo equivoco presente nella riflessione di Proudhon e di Sorel. Come in Sorel, in Holloway, poiché non si ha il problema della presa del potere politico e la rivoluzione comincia essendo esclusivamente negativa, tanto meno esiste il problema della transizione, della previsione o del programma. Sospetto che su questo punto Holloway, oltre che ricadere nello ‘spontaneismo’, non ha considerato un versante del marxismo del XX secolo, che molto può contribuire all’interesse di tutti coloro che si occupano del problema cruciale dell’emancipazione del lavoro sociale dell’uomo e alla stessa riflessione che si propone. Certo è che Rosa Luxemburg, nel 1899, si collocava a fianco della “ortodossia” contro il “revisionismo” di Bernstein e enfatizzava l’‘obiettività’ dello sviluppo contraddittorio del capitale, che farebbe della rivoluzione un fatto inevitabile. È anche vero che Lenin, nel 1902, è vincolato all’“ortodossia” e che la sua argomentazione sulla coscienza rivoluzionaria intesa come qualcosa che si origina ‘fuori’ dalla classe, per iniziativa dell’intellettualità rivoluzionaria, è una concezione kautskiana. La proposta centralista dell’organizzazione partitica non era estranea alla tradizione della social-democrazia tedesca, ma fu già criticata a suo tempo da Rosa e Trotsky. Ci sono però alcune attenuanti poiché Lenin nel suo Che fare? suggerisce che la coscienza di classe che sopraggiunge dalla lotta di classe è onnipresente e deve avvenire in tutti i settori della vita sociale. L’antagonismo non si manifesta solo nello spazio della fabbrica, nella dimensione dell’immediatamente economico, come proclamavano i suoi interlocutori ‘menscevichi’, ma anche nella lotta contro lo Stato. Bisogna ricordare anche che lo stesso Lenin ha riconosciuto, in più di una occasione, di aver ‘forzato la mano’ nella sua argomentazione contro gli ‘economisti’. Quello che voglio suggerire è che l’analisi di Holloway si limita a criticare Rosa e Lenin in un momento nel quale loro erano vincolati al versante “ortodosso”, ma non colloca il pensiero di questi rivoluzionari dopo il 1912, quando si differenziavano sempre di più da quel troncone teorico, processo questo che si è accentuato con la guerra. Intendere che la crisi emerge come aspetto della lotta di classe e che la sua radicalizzazione propone la scelta tra il socialismo e la barbarie è piuttosto evidente. L’attualità della rivoluzione non verrebbe posta dall’eventuale maturità delle forze produttive, ma dall’intensificazione della lotta di classe e dall’aggravarsi della crisi del capitale e del(/dei) suo(/suoi) Stato(/Stati), nell’epoca imperialista. Solo così Lenin potrebbe supporre una rivoluzione socialista a partire dalla Russia. Tutta la riflessione di Lenin sullo Stato e sui soviet non potrebbe essere considerata come una riflessione sulla rivoluzione e la fine dello sfruttamento e della dominazione? Solo che questo processo esige mediazioni, questione che non è presente nella discussione di Holloway. Leggendo Lenin con le categorie di Holloway, potremmo dire che il soviet è la materializzazione della soggettività antagonistica e dell’antipotere, è la possibilità dell’instaurazione del flusso sociale del fare, è la forma di organizzare il movimento di ‘antifeticizzazione’. Ma il flusso sociale del fare si stabilisce senza che sia distrutta la scissione imposta dal sovra-potere. Da qui la necessità in un primo momento di fare uso dello strumento del partito antipolitico (o partito politico rivoluzionario) per destrutturate il sovra-potere del capitale (idea questa presente anche in Marx). Essenziale è, però, la forma sociale del soviet, che possiede il requisito di stabilire il flusso sociale del fare, di dissolvere il sovra-potere localizzato nello Stato e nella produzione. Non il partito, poiché a questo spetterà appena piegare la forza del potere politico della classe dominante e estinguersi insieme ad esso, senza che si crei un nuovo potere politico. In realtà, però, questo passaggio costituisce un periodo di transizione nel quale il partito antipolitico e il non-Stato diventano espressione della soggettività antagonistica, a meno che siano assorbiti dal sovra-potere, trasformandosi in un nuovo sovra-potere, sotto forma di partito politico e di Stato, che, naturalmente, ricomporrebbe anche la forma valore. Sconfitta la rivoluzione e ricomposto il potere politico e lo Stato, con l’identità di URSS, Lenin ha cercato sempre un modo per ravvivare l’antagonismo sociale contro lo Stato e lo stesso partito della classe operaia, in quanto espressioni del sovra-potere, anche sapendo che questo sarebbe stato un processo contraddittorio, lungo e difficile. L’idea del cooperativismo e dell’ispezione operaio-contadina era rivolta a contrapporsi al potere politico nel partito e nello Stato, detto della classe operaia, anche se il sovra-potere dei lavoratori già si stava accentuando nella fabbrica, proprio a causa dello svuotamento del soviet. Nonostante sia un tema piuttosto polemico e particolarmente difficile, non penso che in Lenin fosse presente dal 1902 e per sempre l’idea di una presa del potere da parte del partito politico rivoluzionario, che aveva l’intenzione di creare un nuovo Stato alle spese dei lavoratori. Più chiaramente, non penso che nel Lenin di Che fare? fosse già contenuto lo stalinismo e il socialismo di Stato, sebbene sia piuttosto plausibile che Stalin abbia letto quel testo in modo da rafforzare i suoi aspetti di “ortodossia” e stabilito così una linea di collegamento tra il ‘marxismo scientifico della II e della III Internazionale, quando allora il pensiero di Lenin e Rosa appariva come un regno di mezzo. Questo però è un lungo discorso che ci svierebbe dalla questione qui trattata. Anche negli ultimi scritti di Rosa, prodotti subito dopo l’uscita dalla prigione, nel novembre del 1918, è piuttosto chiaro che vedeva i consigli come una forma di organizzazione della soggettività antagonistica e che la rivoluzione si sarebbe realizzata attraverso l’organizzazione della produzione da parte dei lavoratori e del circolo del potere politico del capitale, il quale dovrebbe essere distrutto e trasformato in potere pubblico o potere sociale (o potere-fare). È vero che Holloway percepisce e valorizza le esperienze storiche della Comune di Parigi e dei soviet come manifestazioni di un movimento ‘antifeticizzazione’ e di antipotere, ma riconosce meno gli sforzi fatti per concepirli come teoria e momento di lotta di classe. Riconosce Pannekoekm, ma si dimentica di Korsch, e soprattutto non cerca di capire cha la trasformazione positiva dello Stato e del partito avvenuti nel processo storico, sono avvenuti all’insaputa della teoria e della volontà di Lenin o Rosa. Holloway ricorda anche l’importante contributo di Pachukanis, che ha mostrato come la forma giuridica e lo Stato siano espressioni della forma merce e delle relazioni sociali feticizzate del capitalismo. Pachukanis, in realtà, sviluppa la tesi di Lenin esposta ne Lo Stato e la rivoluzione, che riconosce che lo Stato e il Diritto (così come la produzione di valore) sono forme sociali specifiche del capitalismo, ma che certamente sopravviverebbero se l’anti-Stato e l’antipotere non si sovrapponessero. Per Lenin, senza dubbio, il processo di emancipazione del lavoro sociale e di realizzazione del comunismo si confonde con il processo di estinzione dello sfruttamento, dello Stato, del diritto e di tutto il potere politico. Inutile ricordare quanto è stata grave la situazione storica, tanto da distorcere la teoria e la pratica e trasformarla nel suo opposto. Specialmente per la sua traiettoria differenziata, che ha origine in Sorel e nell’universo revisionista della fine del XIX secolo, un altro autore poco considerato da Holloway è Gramsci. Ha ragione Holloway quando dice che Gramsci è stato letto come un autore che studia la stabilità del capitalismo, un autore della ricerca del ‘consenso’, insomma come un riformista, quando non come una specie di Durkheim di sinistra. Se cambiassimo orientamento alla lettura, tuttavia, potremmo osservare come Gramsci, per lo meno dall’esperienza dei consigli di fabbrica, abbia sempre enfatizzato la questione della scissione del mondo del lavoro emancipato dal mondo del potere del capitale, abbia sempre valorizzato il tema dell’antagonismo sociale, l’autonomia operaia e la soggettività antagonistica. Gramsci ha inteso la gestione o il controllo operaio della produzione come un elemento fondamentale di materializzazione della soggettività antagonistica e dell’antipotere. Tuttavia, quando fu chiaro che il partito socialista e il sindacato (ad esempio della Germania) erano già forme sociali inserite nello Stato del capitale, Gramsci ha sentito la necessità di un partito rivoluzionario (il partito dell’antipotere). La sua concezione del fronte unico, che si venne sviluppando lentamente dopo il 1923, intravedeva un accumulo crescente di antipotere e di soggettività antagonistica che sconfiggesse non solo il fascismo, ma il capitalismo. Gramsci intendeva che l’egemonia, cioè, il predominio della soggettività antagonistica e dell’antipotere operaio si potrebbe realizzare solo dopo il rovesciamento del potere di classe e dello Stato. Nei Quaderni dal carcere, tuttavia, Gramsci suggerisce che l’egemonia potrebbe avvenire prima dell’abbattimento dello Stato, senza prendere il potere attraverso un attacco alla cittadella. Come sarebbe possibile questo? Attraverso la democratizzazione dello Stato politico? Se così fosse Gramsci sarebbe ricaduto nel revisionismo (questa volta di destra), essendo passato per il riformismo democratico? Penso di no. Quando Gramsci (ispirato da Sorel) ha concepito la categoria di blocco storico ha reso chiara la visione che il potere del capitale è onnipresente e che così deve essere affrontato. Subito, il fronte unico di coloro che si oppongono al capitale e al potere politico, la forma assunta dall’antagonismo sociale e dalla soggettività antagonistica, potrebbe intraprendere un’ampia operazione di assedio che iniziasse a debilitare il sovra-potere del capitale, evitando il feticcio dello Stato come dimensione che concentra e custodisce il potere politico. Così, rafforzato il fronte unico (forma specifica della lotta di classe) e la soggettività antagonistica con le sue nuove pratiche sociali e culturali, il potere politico del capitale sarebbe lentamente corroso a favore dell’antipotere. In questo caso si correrebbe un rischio ben minore per il partito rivoluzionario (o antipartito) di trasformarsi in un nuovo potere dominante di un nuovo Stato politico, correlato alla forma valore. In questo modo, l’egemonia dell’antipotere corrode il potere del capitale nell’insieme delle relazioni sociali trasformando il potere politico in potere sociale. Sicuramente non si tratta di supporre una trasformazione rivoluzionaria riformista e senza un ostinato confronto, prima, la questione è trovare le migliori condizioni per annientare il potere politico del capitale e le sue istanze statali. Per concludere questa riflessione, posso dire che l’operazione di riscatto della critica radicale del capitale e del potere politico intrapresa da John Holloway è non solo estremamente pertinente, ma necessaria e anzi indispensabile, affinché si possano incontrare elementi per la ricomposizione della lotta ‘antifeticizzazione’. La mia divergenza di fondo, tolte le minuzie del testo, è relativa al valore dell’eredità teorica della lotta, ad un certo disprezzo delle riflessioni di autori che potrebbero contribuire molto bene e rafforzare gli argomenti dello stesso Holloway, non solo nell’argomentazione politica, quasi sempre sottintesa, ma in quella centrale come quella del feticismo e del potere-fare emancipato. Ricordo in questo caso, oltre a quelle anteriormente citate, l’opera dell’ultimo Lukacs sulla Ontologia dell’essere sociale, che molto potrebbe contribuire al dibattito proposto. In un certo modo convergente con le preoccupazioni di Holloway è anche il lavoro di Istvan Meszàros, Oltre il capitale. Per finire, appare chiaro come Holloway si opponga a qualsiasi forma di organizzazione partitica istituzionalizzata, ma ammette, e forse pensa addirittura essere necessario, un movimento-partito che organizzi liberamente l’antipotere.

(traduzione Elisa Spampinato)

Note

* Prof. di Scienze Politiche della FFC-Unesp (campus di Marília).