L’analisi che sottoponiamo alla considerazione del lettore fa parte di un insieme di problemi teorici e metodologici non ancora risolti o insufficientemente trattati dal pensiero di un tempo o contemporaneo, incluso il marxismo-leninismo, in particolar modo quello cubano; siamo quindi di fronte a una polemica non conclusa. Come tale, richiede una riflessione critica collettiva da una prospettiva sistemica multidisciplinare e olistica.
Per affrontarla, bisogna stabilire connessioni dirette con la continuità e con lo sviluppo dei sistemi politici, altrimenti può portare all’alienazione.
Con il proposito di evitare al lettore digressioni che andrebbero contro l’interesse e l’obiettivo di questa riflessione teorica, abbiamo ritenuto opportuno sviluppare il contenuto di queste idee a partire dalla spiegazione di tre idee principali sul lavoro sociale:
Carenza: le definizioni attuali sul lavoro sociale sono insufficienti, poiché non affrontano il problema in questione da una prospettiva causale. Il Progetto Sociale Cubano non ha potuto superare del tutto questa limitazione, anche se esistono volontà politica e potenzialità e per propria natura dovrebbe essere in grado di ottenere tale obiettivo, perché non va oltre la stretta cornice dell’assistenzialismo, “soluzione” tipica del capitalismo.
Necessità: non esiste uno studio completo sul lavoro sociale che soddisfi in modo appropriato la teoria e la pratica e che si articoli in particolar modo con il Progetto Sociale Cubano.
Soluzione: risulta imprescindibile l’avvicinamento alla formulazione di quello che si potrebbe chiamare “oggetto di studio del lavoro sociale”, a partire dal suo nucleo centrale, la comunità, ossia non il ritorno al passato, bensì il ritorno alle origini stesse dell’esistenza umana, spazio naturale della sua riproduzione, non solo biologica materiale e spirituale. Al loro interno, di estrema importanza è l’attività politico-sociale. Non a caso l’uomo è definito “animale politico”. Questa soluzione è realizzabile solamente se ci si addentra nella psicologia dei soggetti, cosa che implica la costruzione o la ricostruzione della politica della comunità.
L’obiettivo del presente articolo è avvicinarsi all’oggetto attraverso il dibattito e la riflessione, (affrontando la sua storicità da una prospettiva marxista-leninista) su che cosa potrebbe essere l’oggetto di studio del lavoro sociale e il suo legame con la partecipazione.
Il lavoro sociale è un fenomeno secolare. La sua analisi risulta di valore inestimabile. Per questo motivo risulta imprescindibile addentrarsi, almeno sinteticamente, nella storia del problema dell’oggetto di studio del lavoro sociale da una prospettiva olistica.
Nel mondo antico, i lavoratori e le classi più basse patirono il giogo della schiavitù. Il lavoro, soprattutto quello manuale, era disprezzato, sinonimo di natura servile e solo gli individui con tali caratteristiche potevano svolgerlo; era pertanto incompatibile con i diritti politici e di questa opinione erano, tra gli altri, Platone, Aristotele e Cicerone.
Il suo successore, il lavoro corporativo, una delle componenti economiche fondamentali del Medioevo, anche se costituì un salto qualitativo non risolse il problema della disuguaglianza. Anzi la consolidò giuridicamente.
Il liberalismo, la cui origine risale al XVII secolo e alla Rivoluzione Francese del 1789-99, lo catalizza. Come tale, rende la sfera personale il nucleo essenziale dell’esistenza umana, vista come libertà assoluta, senza freni né limiti, così com’è concepita dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo (1789), costruita con il cemento teorico fornito dall’umanesimo (1) neopagano, dal protestantesimo (2) e dal filosofismo (3), che gettano le basi per lo sviluppo accelerato dell’individualismo e in particolar modo dell’egoismo sociale.
Il suo decollo è associato alle necessità dell’esistenza umana, alla quale lo sviluppo scientifico e tecnologico raggiunto sino ai giorni nostri non ha potuto fornire soluzioni efficaci, ma solo palliative e postume.
Il problema del lavoro sociale, nonostante la sua antichità, non ha occupato uno spazio nel sapere, né si è tradotto nell’organizzazione di un sistema teorico con un apparato categorico imprescindibile per la nascita di una scienza. Si tratta di un fenomeno che indica l’urgenza e insieme la carenza di una visione scientifica. Invece si è avuto il predominio della frammentazione. D’altro canto il lavoro sociale è stato considerato un problema pratico e non concettuale per le scienze e l’attuazione di strategie politico-sociali concrete.
Il lavoro sociale ha la propria genesi nella stessa natura contraddittoria dell’esistenza umana, poiché l’uomo ha necessità, desideri, progetti che non sono sempre realizzabili perché il contesto sociale non fornisce elementi di giudizio sufficienti o le contraddizioni necessarie. Lo si è visto chiaramente nelle diverse formazioni sociali, con enfasi particolare nel capitalismo, la cui contraddizione fondamentale, “più sociale diventa la produzione, più privata diventa l’appropriazione”, genera la proliferazione di fattori alienanti, a causa dell’insoddisfazione dei soggetti sociali, da un punto di vista sia materiale, sia spirituale.
Il lavoro sociale è stato uno strumento di legittimazione del capitalismo e pertanto non è concepito per ottenere un vero rafforzamento dell’individuo come essere sociale.
Ciononostante, il lavoro sociale non deve essere visto solamente come un palliativo; esso è anche uno strumento di sviluppo dell’individuo e ne favorisce un ruolo chiave nel soddisfare i bisogni sempre più urgenti dell’ambiente sociale che lo circonda.
Così, partendo solamente da queste problematiche, costituisce una sfida cercare di giustificare il lavoro sociale come disciplina scientifica e la conseguente elaborazione teorico-concettuale del suo sistema di conoscenza.
Avvicinarsi all’estrema diversità dei punti di vista riguardo all’oggetto di studio del lavoro sociale implica: 1) valutare criticamente quello che è stato formulato sino a oggi; 2) avvicinarsi ai veri bisogni umani e all’emancipazione.
L’emergere contraddittorio di questi due grandi poli contrapposti, la povertà e l’opulenza che raggiungono una corporazione uniforme, con l’avvento della società classista genera allo stesso tempo l’agire di individui spinti dal bene, di fronte alle strazianti realtà umane. Sebbene questi comportamenti siano l’espressione di un’attitudine di tipo filantropico ed etico-morale, ciò non significa che essi non siano permeati di relazioni politiche, che nel bene o nel male si rifletteranno nello sviluppo della comunità.
Risulta evidente che non era ancora maturato il pensiero al riguardo, anche nel circuito socio-classista più avanzato e soprattutto nei circoli politici di potere, che nella loro riproduzione economica, sociale e politica sono in gran parte determinati da quella moltitudine privata di tutto, così come Marx sosteneva che la borghesia non poteva esistere senza il proletariato.
Ci si attendeva che in futuro il capitalismo avrebbe riservato ai lavoratori il loro posto, quello di schiavi della modernità. Di fronte a una realtà così crudele, che avrebbe accompagnato nell’immediato e in maniera definitiva gli umili all’interno del sistema, istituzioni caritative o individui a titolo personale alleviavano la situazione mediante donazioni palliative, concessioni o altre cose simili che non facevano che aumentare il flagello della povertà e i rantolii provocati dalla morte.
L’avvento del capitalismo, con la sua zavorra di ingiustizie, fu d’impulso e stimolò come mai prima d’allora il modello di produzione, e con esso l’inevitabile esercito di lavoro di riserva, che conviveva con la disoccupazione di gran parte della società.
Erano state poste le condizioni per l’emergere di un numero sempre maggiore di cittadini ai margini della povertà e dell’indigenza: un problema non isolato né sporadico, bensì endemico, un’epidemia strutturale di grande portata, che paradossalmente non aveva concluso il proprio sviluppo. Tale precarietà sociale richiedeva premura e attenzione: essa fu spiegata scientificamente da Marx nell’analisi delle rivoluzioni borghesi. È da sottolineare che il suo significato reale si riduce a essere la rivelazione di chi sono i veri nemici dei proletari.
Tuttavia, la proposta ottocentesca di presunta soluzione ai mali della società non è stata raggiunta. Questo evidenzia la complicità dell’ignoranza: ossia la scienza non ha fornito una risposta scientifica, mentre il potere istituzionalizzato non ha assunto il ruolo che gli spetta, mettendo in luce le proprie intenzioni. Quest’ultimo agisce in modo inversamente proporzionale allo sviluppo.
Entro i limiti che il necessario divenire storico impone, qualsiasi tentativo di giustificare la continuità dell’impoverimento sociale si rivela non un deficit sociale, bensì una deliberata azione reazionaria.
Anche se sussistono determinati indizi che denotano la coerenza di una scuola di lavoro sociale con caratteristiche proprie, il sigillo peculiare dei tentativi finora considerati è costituito dal fatto che l’oggetto del lavoro sociale è stato focalizzato come un problema più pratico che concettuale. Ha avuto la meglio un atteggiamento più pratico che teorico-concettuale, una questione molto importante che ha determinato in una certa misura la mancanza di una teoria, vitale nel problema della referenza.
Il fattore decisivo risulterà essere la volontà politica imperante nel sistema di relazioni politiche tra le classi sociali e il loro corrispondente ordine politico-sociale dominante. Ciò, oltre a essere imprescindibile per comprendere l’importanza del problema, è anche decisivo poiché il quotidiano non deve compromettere l’obiettivo strategico fondamentale: la continuità del Progetto Sociale Cubano, a partire dai soggetti comunitari.
Il problema della questione sociale era presente anche in passato: già Papa Leone XIII nell’Enciclica “Rerum Novarum” del 1891 ribadiva la triste condizione degli uomini delle classi più umili che si trovavano in una situazione di disgrazia e calamità, dopo che un gruppo di opulenti borghesi aveva ridotto in condizioni praticamente di schiavitù una grande moltitudine di uomini che lavoravano per un salario. È evidente la degradazione che implicava per loro, ma anche le reazioni sociali di fronte a quella realtà insostenibile che non poteva essere ignorata né dagli uni né dagli altri.
Un’altra considerazione critica la si ritrova nell’Enciclica di Pio XI “Quadragesimo Anno” del 1931, in cui con parole non meno severe di quelle di Leone XIII si fa eco a una stridente realtà sociale e si rompe in tal senso un importante insieme di principi e direttrici dell’ordine sociale che rivoluziona le istanze dei poteri legislativi degli stati nazionali e degli organismi internazionali. La questione sociale riguarda ormai tutti.
Un altro punto di vista nella conoscenza del problema lo apporta l’Illuminismo, pensiero politico borghese di spicco, prima del marxismo. Mentre riscatta la ragione umana, mette l’uomo al centro dell’attenzione e costruisce la libertà, la giustizia, l’eguaglianza sulla base dell’individualità, consolida la polarizzazione, la continuità e l’aggravamento della già precaria questione sociale. Tra i suoi esponenti si distinguono: Jean-Jacques Rousseau (1715-1778) e la teoria sulla bontà naturale dell’uomo; Immanuel Kant (1726-1770) e la dottrina sul dominio della volontà; Charles Darwin (1809-1882) e la teoria sull’evoluzione della specie; Friedrich Nietzsche (1844-1900) e l’idea del superuomo.
Inoltre, pensatori di spicco e loro seguaci hanno studiato il problema sociale sovrastimando però il fattore economico, in particolar modo per quel che concerne la produzione e la distribuzione della ricchezza. Altri formulano il loro pensiero a partire da un punto di vista tecnico, ossia mediante una formula giusta di distribuzione attraverso i suoi tre agenti principali della produzione: natura, capitale e lavoro. Entrambi i punti di vista sono unilaterali, anche se sono impliciti e non intravedono il punto essenziale: la polarizzazione della ricchezza a scapito della povertà di altri. Questa è l’idea conclusiva della grande opera teorico-pratica di Karl Marx.
Il marxismo supera le limitazioni dei pensieri che lo precedettero, inquadrando giustamente il problema sociale come un problema politico, economico, sociale, culturale, morale, etico, estetico, tra le altre cose, sostenendo che ciò che ai nostri occhi sembra un problema sociale, in realtà contiene in se stesso una storia piena di sfruttamento, che non è dovuto al capitalismo - tale fenomeno esisteva molto prima di quest’ultimo - ma che il capitalismo come nessun altro sistema sociale acuisce, aumentando a dismisura i mali sociali.
È appurato che si tratta di risolvere il problema da un punto di vista rivoluzionario e trasformatore che nell’ambito delle società di sfruttamento non ha una reale soluzione. Il socialismo come alternativa al capitalismo non ha ancora costruito una scuola o una scienza in cui il progetto sociale trovi le formule, i modi o gli strumenti per un’azione non palliativa, ma che soddisfi le necessità, gli interessi e i desideri dell’uomo medio.
Per la prima volta nella storia - perché quella anteriore non era mai uscita dalla preistoria - l’uomo è soggetto cosciente della trasformazione. I tentativi di formulare l’oggetto di studio del lavoro sociale sono stati molteplici. E la diversità di proposte non liquida di certo la presenza di caratteristiche comuni in tali formulazioni, visto il legame esistente tra individuo, situazione, problema, ambiente sociale.
Una formulazione, qualunque sia chi la sostiene, contiene una sensibilità con queste quattro idee. Ciononostante, risulta molto utile approfondire la relazione tra individuo e ambiente sociale. Essa non è casuale, ma è dovuta in primo luogo al fatto che l’individuo è il contenitore naturale delle capacità culturali, dei valori politici, morali, etici, estetici, solo per citarne alcuni. Quindi può legittimare o meno l’ambiente sociale e di conseguenza essere soggetto cosciente del cambiamento oppure un attore formale del medesimo.
Però non si possono ignorare determinate strutture sociali prevalenti all’interno delle comunità, e con le quali interagiscono obiettivamente. Tra esse si segnalano: i sistemi culturali, l’organizzazione sociale, le strutture di classe, i meccanismi di potere; in ambito socio-psicologico troviamo la struttura della personalità, le capacità, le attitudini, le condizioni morali e altre cose ancora.
Risulta evidente che lo svolgersi del lavoro sociale non può avvenire al margine dell’interazione di questi aspetti, perché l’oggetto del lavoro sociale va diretto verso la totalità sociale, poiché questo destinatario manifesta la propria individualità, frutto di fattori endogeni ed esogeni. Questi non si può sottrarre a fattori influenzanti che vanno oltre i limiti della comunità, compreso il territorio, per raggiungere il mondo intero, che inevitabilmente è mediatore e influisce. Oggi come mai, questa idea di fronte al vertiginoso processo di globalizzazione in atto - indipendentemente dal suo segno politico - si riassesta.
L’interazione dell’oggetto del lavoro sociale trova un terreno di polemica, giustificazione e formulazione teorica da parte di ampi settori politici, economici e sociali.
È in gioco la sopravvivenza legittimante delle idee politiche polarizzate. Questo rivela con chiarezza i rischi che corrono gli spazi societari oggigiorno. È stato dimostrato che l’ambito principale di riproduzione della vita economica, politica e sociale è quello delle comunità, che esigono una cosmovisione diversa da quella di un tempo, a partire dall’esigenza che le si interpreti e le si valuti non come aggregazioni umane, ma come spazi di riproduzione sociale in tutte le loro dimensioni, visto che è in esse il luogo in cui si costruiscono, si sviluppano e si affermano i progetti sociali. Gli altri scenari non perdono il proprio valore e significato, ma la comunità è senza dubbio l’asse centrale. È ovvio che l’incremento del significato della comunità, a partire dal doppio processo di crescita e trasformazione qualitativa avvenuto nelle masse di lavoratori, incrementa in misura del tutto rilevante la massa ai margini del processo produttivo materiale o dei servizi dello Stato. In questo senso Ulises Rosales del Toro, ministro dell’Industria dello Zucchero, sosteneva: “Nel paese ci sono 1.400.000 casalinghe, 1.250.000 pensionati, 1.500.000 studenti, 500.000 disoccupati e 200.000 lavoratori autonomi. Quindi nelle case rimangono a tempo pieno circa 5.000.000 di persone, su un totale di 10.900.000 abitanti. A essi aggiungiamo i lavoratori parzialmente occupati e una diminuzione dei centri studenteschi, tecnici, preuniversitari, universitari con un proprio regime interno”1.
Questa costruzione è possibile solo attraverso la partecipazione cosciente e attiva dei soggetti. La lista di definizioni e concetti risulta essere quasi infinita.
Innumerevoli definizioni riguardo alla partecipazione fanno riferimento a molte delle variabili che si associano al tema, ma per una sua migliore comprensione accogliamo il concetto che espone Miguel Limía: “Questo è il legame interessato, attivo, costruito su fattori intrinseci all’attività stessa dei distinti agenti sociali, che sotto queste condizioni diventano i soggetti della propria attività; e non solo, né essenzialmente, in presenza dei menzionati agenti sociali in qualsiasi condizione nel sistema dell’attività, poiché in effetti questo non può esistere senza quelli (sia come soggetti, oggetti, mezzi o risultati dello stesso)”2.
La reale partecipazione dell’uomo, come fenomeno globale della società, ha il proprio fondamento nel superamento di una serie di contraddizioni sociali che riguardano la sua stessa esistenza e di un sistema di relazioni sociali autoritarie a favore dell’emancipazione sociale che garantisce, nel significato più ampio possibile, lo sviluppo della comunità umana.
Il concetto di partecipazione è poi in stretta correlazione con la democrazia ed è l’elemento fondamentale per lo sviluppo della società nel suo insieme. È però inevitabile che chi ricorre a esso, sia dal punto di vista teorico, sia da quello pratico, lo vede come un elemento che tocca inevitabilmente altri spazi sociali come il lavoro, la famiglia, il riposo ecc. Pertanto è un concetto che deve essere utilizzato non solo nell’ambito delle relazioni sociali che si manifestano, quelle politiche, economiche o giuridiche, ma anche in tutta la società civile, in cui si manifestano le più diverse forme di comportamento da parte degli individui.
Nel suo rapporto con lo sviluppo sociale, bisogna considerare la partecipazione dei cittadini, quando è assunta come il libero agire dell’individuo in tutte le relazioni sociali, come un elemento indispensabile per ottenere la trasformazione della società dall’interno. Da qui l’estrema importanza che riveste attualmente questo elemento, uno degli strumenti essenziali per lo sviluppo del protagonismo sociale, a condizione che i componenti cessino di essere oggetto delle politiche di sviluppo e ne diventino soggetti attivi, obiettivo che è enunciato nei fini che si propone il nostro progetto sociale. Al suo raggiungimento devono contribuire le azioni che dal lavoro sociale si convertono in strumenti fondamentali che consentano l’azione delle masse nella risoluzione dei conflitti e delle contraddizioni.
Particolare significato nei processi partecipativi assume il diritto all’informazione corretta, nel momento opportuno, e la pratica di una cultura del dialogo che rispetti la pluralità di opinioni. In tal senso ci sono due posizioni che differiscono per l’approccio. Una affronta il problema della partecipazione come sinonimo di informazione, vedendo in essa l’espressione della capacità della popolazione di sensibilizzarsi, appoggiare e agire sulla base di decisioni già prese da altri. In tal caso, i soggetti si impegnano solamente a collaborare od offrire il proprio appoggio nell’esecuzione del compito assegnato. Partecipare attraverso questa proposta implica la risposta dinamica della popolazione a una proposta già fatta. Questo limita il trasferimento di una quota di potere alla cittadinanza: i soggetti approvano le decisioni. Da un’altra prospettiva, si sensibilizza la popolazione, aumentandone la ricettività e la capacità di reagire alle proposte cui si trova di fronte, incoraggiando e sviluppando le iniziative locali3.
Sono qui esposti due aspetti importanti per il raggiungimento della partecipazione, che sono in relazione con la comunicazione come elemento indispensabile: l’informazione corretta e la cultura del dialogo. Ciononostante, partecipare in questo caso si limita solamente all’agire dei cittadini a partire da proposte già elaborate: pertanto si impedisce un aspetto importante del processo, che dovrebbe garantire non solo la mera esecuzione, ma anche una fase di creazione, una partecipazione a ogni singolo passaggio.
Condividiamo l’idea espressa da Limía che oggi la società esige un nuovo modo di partecipazione popolare, di tipo particolarista, territoriale, lavorativo, comunitario, e non solo del carattere sinora avuto, ma che sia in grado di inglobarlo. Inoltre, questo nuovo modo deve essere accompagnato da un nuovo senso della partecipazione, la cui definizione va fatta dal basso, nella prospettiva di costruire il potere dalla base4. Secondo noi deve essere questa l’idea guida dello sviluppo presente e futuro della professione del lavoro sociale, poiché essa deve avere come principale funzione il raggiungimento di questo nuovo modo di partecipazione popolare, se si configura a partire dai postulati che racchiudono il concetto che abbiamo analizzato.
La sfida che si assume, di fronte alla dicotomia lavoro sociale/comunità, implica la costruzione di un disegno la cui proposta è, a nostro parere, realizzabile attraverso la formulazione del Gruppo di Studio e Sviluppo Comunitario della Universidad Central, che postula la relazione fra tre componenti essenziali: soggetto demandante, risposta istituzionale e risposta scientifica. Questa triade prelude alla presenza di un nuovo attore comunitario, il lavoratore sociale: problema nuovo e come tale soggetto alla prova della pratica sociale comunitaria. Pertanto, l’oggetto del lavoro sociale va di pari passo con la trasformazione socio-comunitaria, attraverso però un processo di autotrasformazione mediante le conoscenze scientifiche richieste con il dovuto compromesso e volontà politica di oggettivare i corrispondenti cambiamenti strutturali che consentano la partecipazione cosciente nell’esercizio del governo ai soggetti sociali, rendendoli più partecipi nelle decisioni delle politiche e dei progetti. Quindi le comunità non si possono edificare a partire dalle “externalidades”, bensì dalla “internalidad”, con la promozione della capacità di cogliere le contraddizioni, ossia le proprie necessità, e insieme l’interesse non mediato e mediato, individuale e collettivo. Questo spiega la complessità dell’affrontare il lavoro comunitario, vista l’eterogeneità e l’intersoggettività sociale comunitaria: esso riguarda la componente culturale dei soggetti, ragion per cui la comunità all’interno del capitalismo è di fronte a una doppia sfida: quella dello stesso sistema, contrario a cambiamenti delle comunità che possano rompere lo status quo, e quella dei soggetti, impossibilitati a realizzare tali cambiamenti.
Trovare i metodi e i modi per un’azione efficace, potenziando così il movimento e lo sviluppo comunitario del Progetto Sociale Cubano, non è solo una necessità, ma un imperativo per il futuro. Quest’idea costituisce il corpo teorico di progetto di ricerca di uno degli autori del presente lavoro.
Facendo un’analisi dei problemi trattati, notiamo che le forme adottate dal lavoro sociale a Cuba si sono evolute a partire dalle condizioni specifiche in cui si dibatteva lo sviluppo sociale e le forme concrete in cui furono affrontate le carenze sociali e i problemi della popolazione. La tappa successiva al trionfo della Rivoluzione apre le porte all’implementazione di politiche più conseguenti per soddisfare le esigenze del popolo. Gli errori commessi durante il processo di costruzione della nuova società, però, e la propria espressione nei modi e nelle forme della partecipazione popolare, così come il sorgere e l’acuirsi delle contraddizioni dovute alle leggi oggettive del divenire storico, hanno fatto sì che nascessero idee di rinnovamento, con l’intenzione di porvi rimedio. È stato necessario quindi superare concezioni obsolete e in disaccordo con le esigenze di oggi, per quanto concerne il lavoro sociale.
È per questo motivo che nel 1997 si affida al Dipartimento di Sociologia dell’Università dell’Avana il compito di redigere un piano di studio per la preparazione di professionisti, come specializzazione di Sociologia; di recente, poi, sono state create scuole di Lavoro Sociale per formare professionisti di questo tipo in ogni angolo del Paese. Tuttavia, la decisione di implementare in modo massiccio la preparazione di questo tipo di professione non deve essere intesa come la soluzione ipso facto, essa richiede infatti un compito a nostro giudizio decisivo: costruire con la pratica e attraverso la pratica.
La comunità non può essere mera consumatrice delle decisioni politiche: bisogna convertirla in una specie di struttura produttrice non solo di consenso, ma soprattutto delle proprie politiche.
Ossia, l’oggetto di studio del lavoro sociale a Cuba deve avere implicitamente in sé un punto di vista della comunità che vada oltre la stretta e dannosa cornice di razze, classi o altre cose. Bisogna assumerlo come idea, principio: ciò significa una rottura netta, sosteniamo, nella costruzione di una comunità di storia e di valori. Martí diceva: “Con tutti e per il bene di tutti”. Quindi si tratta di superare gli stretti limiti dell’unicità e della molteplicità. La dialettica dello sviluppo riafferma che la costruzione dell’unico è possibile solamente attraverso il molteplice, mentre il molteplice si giustifica unicamente se è contenuto nel molteplice.
Possiamo riassumere che limitazioni storiche fondamentali del lavoro sociale sono le seguenti:
carattere assistenzialista, caritativo e paternalista;
interpretazione del lavoro sociale come un problema pratico e non scientifico;
vedere l’uomo come una figura inetta, incapace di soddisfare le proprie necessità e ottenere cambiamenti sostanziali;
mancanza di interrelazione con le altre scienze;
vedere l’uomo unicamente in funzione della soluzione dei suoi problemi materiali o degli squilibri sociali;
non prendere in considerazione la dialettica dell’oggettivo e del soggettivo, del cosciente e del non cosciente;
non considerare lo sviluppo dell’uomo nel sistema di relazioni sociali, le sue possibilità e la complessità sociale in cui queste cose si manifestano.
(1) Umanesimo: una delle manifestazioni del Rinascimento delle arti e delle lettere che cominciò nel XIV e terminò nel XVI secolo. L’uomo acquisisce importanza, lo si riconosce come soggetto e come centro e nucleo essenziale.
(2) Protestantesimo: rifiuto dell’autorità ecclesiastica. La ragione si sovrappone a ogni forma di soggezione e di arte.
(3) Filosofismo: pensiero contrario alla religione e alla politica del XVIII secolo; la sua base era il naturalismo e il razionalismo.
Bibliografia
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Note
* Università di Matanzas
Facoltà di Scienze Sociali e Umanistiche.
1 Tratto da: Curso de formación de trabajadores sociales. Selección de Lecturas sobre Trabajo Social Comunitario. Compilación. Stampato presso il Centro Gráfico di Villa Clara.
2 M. Limía, in Sociedad civil y partecipación en Cuba. Informe de investigación, 1997:29.
3 P. Oakley, 1985:24.
4 M. Limía, 1997:29.