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SOCIETA’ E PROCESSI IMMATERIALI

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Vladimiro Giacché
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Società di massima (in)sicurezza.

Vladimiro Giacché

Il feticcio della sicurezza, la realtà della precarietà

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“Perpetuare i risultati della violenza, dell’inganno e del caso, si è chiamato sicurezza; e al mantenimento di questa falsa sicurezza sono state sacrificate senza misericordia tutte le forze produttive del genere umano”

(W. Thompson, Inquiry into the principles of the distribution of wealth, 1850)

1. “La sicurezza al primo posto”

“In un contesto internazionale caratterizzato da eventi di inaudita gravità, come l’attacco alle Torri Gemelle di New York e l’aspro conflitto in corso in Medio Oriente, il bene della sicurezza assurge ad una posizione sempre più elevata nella scala dei valori”. Queste parole, pronunciate nel 2002 dal presidente della Repubblica Ciampi (in un contesto appropriato quale la festa della polizia), esprimono bene la crescente importanza attribuita negli ultimi anni alla “sicurezza”: sino a farne - addirittura - un valore, e perdipiù elevato. Di fatto, nei discorsi ufficiali come nei testi di legge, nei telegiornali come negli articoli di stampa, la “sicurezza” accompagna ormai quasi invariabilmente valori quali la “democrazia” o la “libertà”. Emblematico il testo della cosiddetta “Costituzione europea”, in cui la “sicurezza” è presente non soltanto come una concreta politica dell’Unione, ma come valore e come diritto. All’art. I-42 segue la “libertà”, ma precede la “giustizia” (“l’Unione costituisce uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia”); più avanti nel testo la giustizia sparisce, ma la sicurezza resta (art. II-66: “Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza”). Invano si cercherebbe qualcosa di simile nella Costituzione italiana del 1948. Tanto è vero che è recentemente stata lamentata l’assenza, dall’ordinamento costituzionale italiano, di una norma esplicita posta a tutela della “sicurezza dello Stato”.1 (Norme del genere non mancavano, invece, nell’ordinamento dell’Italia fascista: come provano le numerose condanne di antifascisti, rei di “attentare alla sicurezza dello Stato”). Nelle enunciazioni ufficiali la formula “libertà e sicurezza” (o “democrazia e sicurezza”) è presentata come se si trattasse di un’endiadi, o quanto meno di due sfumature o due aspetti diversi di una stessa realtà, desiderabile e rassicurante. Se però si va a vedere un po’ più da vicino come stanno le cose, ci si accorge che il rapporto tra i due concetti è semmai di opposizione; o, se vogliamo, di proporzionalità inversa: quanto più le esigenze della sicurezza crescono e si fanno pressanti, tanto più la libertà deve restringersi. E infatti the Economist, commentando la vicenda della “bomba sporca” (una delle numerose bugie terroristiche create dalla Casa Bianca, e rilanciate acriticamente dai mezzi di informazione di tutto il mondo), scriveva: “purtroppo, se c’è gente che progetta di far esplodere bombe nucleari nelle città degli Stati Uniti, l’equilibrio tra libertà e sicurezza deve spostarsi un po’ a favore di quest’ultima”.2 Da noi il generale Tricarico, consigliere militare di Berlusconi, ha poi espresso con maggiore rozzezza lo stesso concetto: contro il terrorismo “le leggi ordinarie non bastano”; “per garantire la sicurezza dei cittadini è necessario rinunciare ad alcuni diritti e privilegi [sic!]”.3 Si tratta di un processo che negli ultimi anni è già andato molto avanti: basti pensare alla legge liberticida “Patriot Act” negli USA, al tentativo di Blair di introdurre tempi estremamente lunghi di carcerazione preventiva (respinto - ma solo in parte - dal Parlamento inglese), al raddoppio del fermo di polizia da noi, e più in generale alla ridefinizione pericolosamente estensiva del concetto stesso di “terrorismo” da parte dell’Unione Europea. Lo stesso Joseph Ratzinger, poche settimane prima di ascendere al soglio pontificio, ha dovuto (pacatamente) constatare come, per rispondere alla minaccia del terrorismo, “all’interno degli Stati di diritto, si sia dovuti ricorrere a sistemi di sicurezza simili a quelli che prima esistevano soltanto nelle dittature”.4 Insomma, si può dire che lo slogan adoperato dalla democrazia cristiana austriaca per la campagna elettorale del novembre 2002, “la sicurezza al primo posto” (“Der Sicherheit Vorrang geben”), non è più soltanto un proponimento, ma una solida realtà. Non si tratta di una buona notizia.

2. L’ipertrofia della “sicurezza”

L’ossessione attuale per la “sicurezza” si esprime al suo meglio negli USA, dove nel 2002 sono stati lanciati ben 5 piani strategici sull’argomento: la “Strategia di sicurezza nazionale per combattere il terrorismo”, la “Strategia per la sicurezza della Patria”, la “Strategia Nazionale per la Sicurezza del ciberspazio”, la “Strategia di Sicurezza Nazionale per combattere le armi di distruzione di massa”, e quella “per la protezione fisica delle infrastrutture critiche”.5 Ma attenzione: se l’uso parossistico del concetto di sicurezza è successivo all’11 settembre, il suo uso corrente precede quella data. Possiamo infatti farlo risalire ai primi anni Novanta.6 La circostanza è apparentemente curiosa: in effetti, con la fine dell’Unione Sovietica tramonta l’ipotesi di un conflitto nucleare tra le grandi potenze; in questo senso “si può affermare” - lo ammettono gli stessi fautori della centralità del concetto di sicurezza - che “la comunità internazionale sia complessivamente più sicura”.7 Per quale motivo quindi, proprio in questi anni si comincia a parlare non più soltanto di “difesa”, ma di “sicurezza”? Risposta in gergo: perché “il primo termine è escludente, il secondo è coinvolgente”.8 Cioè a dire, in parole povere: perché il concetto di “sicurezza” è più ampio di quello di “difesa”. Consente di includere la “protezione degli interessi nazionali”, la risposta a “minacce” anche soltanto di carattere economico, e permette così di giustificare interventi militari che sono a tutti gli effetti offensivi, e che comunque non hanno nulla a che fare con la “difesa della Patria” (e che quindi - in Italia, ma anche in Germania - sono incostituzionali). Le implicazioni dell’uso sempre più invasivo (e abusivo) del concetto di “sicurezza” sono massimamente evidenti nel caso degli Stati Uniti. Così, già nella “Strategia di sicurezza nazionale” del 1991 si legge che “un approvvigionamento energetico sicuro, abbondante, diversificato e pulito è essenziale per la nostra prosperità economica nazionale e per la nostra sicurezza in generale”.9 E nel più recente “Rapporto quadriennale della difesa” (2001) le politiche della sicurezza vengono addirittura identificate con la difesa del “modo di vita” americano. Ma in questo documento viene fatto un ulteriore passo: in precedenza - e la cosa si giustifica anche da un punto di vista strettamente logico - la sicurezza era identificata con la risposta ad una “minaccia”; ora gli strateghi del Pentagono dichiarano testualmente l’obiettivo di “spostare la base dei progetti di difesa dal modello ‘basato sulla minaccia’ che ha dominato il pensiero nel passato a un modello ‘basato sulle capacità’ per il futuro”.10 Questo significa che gli USA potranno colpire non solo chi li colpisce, non soltanto chi minaccia di colpirli, ma anche chi abbia semplicemente la capacità militare di farlo. Siamo alla teoria degli “attacchi preventivi”, che saranno esplicitamente previsti nella “Strategia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti” (2002), e messi in pratica l’anno successivo con l’aggressione all’Irak. Per finire, nel documento appena citato, c’è un’ulteriore affermazione di grande peso: ossia che “gli Stati Uniti opereranno... per promuovere la sicurezza globale”.11 In questo modo cade anche l’ultima foglia di fico: d’ora in avanti gli USA si arrogheranno il diritto di intervenire militarmente anche in casi in cui la loro “sicurezza” nazionale non sia posta direttamente a rischio. Come si vede, la traiettoria del concetto di “sicurezza” ci porta davvero molto lontano. Ma non è finita. Perché dopo l’11 settembre cade anche la distinzione tra “sicurezza esterna” e “sicurezza interna”. Con le parole del sociologo tedesco Ulrich Beck: “le distinzioni tra guerra e pace, esercito e polizia, guerra e crimine, sicurezza interna e sicurezza esterna - tutte distinzioni sulle quali si regge la nostra concezione del mondo - sono state travolte”.12 A differenza di quanto ritiene Beck, non si tratta di un processo fatale e necessario: anzi, ad esso bisogna opporsi con la massima determinazione. Ma è comunque un processo che è già innegabilmente in corso.13 Esso fa della “sicurezza” un vero e proprio grimaldello per l’attacco ai diritti, ed anche allo Stato di diritto in quanto tale. Un attacco egregiamente espresso da queste parole del ministro Giovanardi: “è utopistico continuare a pensare che si possa essere tutti uguali davanti alla legge come prevede la Costituzione scritta nel ’48, allora non c’erano l’immigrazione e il terrorismo”.14

3. Un concetto rachitico

Come si è visto, le conseguenze dell’ossessione della “sicurezza” non sono di poco conto. Il concetto di “sicurezza” che abbiamo visto in azione non è soltanto invadente e prepotente (in quanto si prende molti degli spazi sinora assegnati alle nostre libertà), ma addirittura insaziabile (dalla sicurezza nazionale si passa a quella globale). Lo si direbbe un concetto “ipertrofico”. È vero il contrario: il concetto oggi dominante di sicurezza è in verità un concetto rachitico. Fuori di metafora: è un concetto estremamente unilaterale. Precisamente per questo motivo, ormai da svariati decenni, il Worldwatch Institute (un centro di ricerca indipendente autore di un rapporto annuale sulle problematiche ambientali e dello sviluppo) tenta di affermare un concetto diverso e più ricco di sicurezza rispetto a quello prevalente, che è di natura essenzialmente poliziesca e militare. Già nel 1978 Lester Brown, il fondatore di questo centro, affermava che presto “i governi saranno costretti a ridefinire il concetto tradizionale di sicurezza nazionale”.15 L’ampliamento del concetto di sicurezza è stato successivamente fatto proprio e sviluppato dal Development Programme dell’ONU, che nel rapporto sullo sviluppo umano pubblicato nel 1994 ha definito sette distinte categorie di sicurezza umana: sicurezza economica, sicurezza alimentare, sicurezza sanitaria, sicurezza ambientale, sicurezza personale, sicurezza della comunità e sicurezza politica.16 Il rapporto del Worldwatch Institute 2005, dedicato alla Sicurezza globale, opera in concreto una ridefinizione del concetto di sicurezza attraverso l’approfondimento delle principali tra queste categorie. Vale la pena di fermarsi su alcuni degli elementi forniti dal rapporto. L’insicurezza economica e sociale nel mondo, ed in particolare nei paesi in via di sviluppo, negli ultimi anni è cresciuta. Nel 2003, in una rilevazione sostenuta dalla Banca Mondiale, che ha coinvolto oltre 200.000 persone povere in 23 paesi in via di sviluppo, la larga maggioranza degli intervistati ha risposto di stare peggio di prima e di patire una maggiore insicurezza economica rispetto al passato. Da un rapporto del 2004 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro risulta che tre quarti della forza lavoro mondiale vivono in condizioni di insicurezza economica. La disoccupazione giovanile è giunta a livelli mai riscontrati in precedenza, in particolare in Medio Oriente e Nord Africa (26%) e nell’Africa subsahariana (21%). Nel mondo ci sono 550 milioni di lavoratori poveri che non riescono a riscattare le loro famiglie dalla povertà.17 L’insicurezza alimentare si aggrava. Il 22 novembre scorso la FAO ha presentato il suo rapporto sull’insicurezza alimentare, da cui emerge tra l’altro che ogni anno muoiono di fame 6 milioni di bambini. Nel mondo alla metà degli anni Novanta nei paesi in via di sviluppo soffrivano la fame 180 milioni di persone: oggi sono 800 milioni; nel complesso le persone che al mondo soffrono la fame o hanno gravi deficit nutrizionali sono 2 miliardi, poco meno di un terzo della popolazione complessiva del pianeta. E nei prossimi 50 anni l’aumento delle temperature nelle zone tropicali potrebbe ridurre i raccolti di cereali del 30%. In molte regioni del mondo la disponibilità di risorse naturali vitali sta calando rapidamente, ed è tutt’altro che remota la possibilità di prossime guerre per il possesso di queste risorse (ed in particolare dell’acqua dolce). Del resto, in qualche misura questo è già una realtà: da oltre tre decenni Israele impone ai Palestinesi della Cisgiordania pesanti restrizioni sulle trivellazioni di nuovi pozzi agricoli, mentre i pozzi scavati dai coloni provocano l’abbassamento delle falde acquifere ben al di sotto della portata dei pozzi palestinesi; con il risultato che dal 1967 la quota dei terreni che i contadini palestinesi sono in grado di irrigare è scesa dal 27% al 5%.18 Per quanto riguarda l’importanza dell’insicurezza sanitaria, basterà dire che nel 2002 la guerra ha causato lo 0,3% dei decessi mondiali, mentre le malattie infettive hanno rappresentato il 26%. Secondo l’Organizzazione Mondiale per la Sanità, si potrebbero salvare 8 milioni di persone all’anno se entro il 2015 la spesa sanitaria dei 60 paesi più poveri del mondo potesse essere aumentata dagli attuali 13 dollari a 38 dollari pro capite (tanto per avere un’idea, nel 2001 la spesa media annua per la salute negli Stati Uniti è stata di 4.887 dollari pro capite). Questo richiederebbe un contributo complessivo, da parte dei paesi ricchi, di 38 miliardi di dollari, ossia meno di un decimo del bilancio annuale USA per la “difesa”, e una frazione di quello che gli Stati Uniti hanno già speso per la guerra in Irak.19 Infine, per quanto riguarda l’insicurezza ambientale, la gravità della situazione è ormai così evidente da essere diventata quasi senso comune. Ma anche in questo caso può essere utile ricordare qualche dato di fatto. A partire dall’aumento dei “disastri innaturali”, ossia dei disastri naturali peggiorati e amplificati da fenomeni causati dall’uomo quali la deforestazione: nel 2003 questi eventi hanno colpito 250 milioni di persone, 3 volte di più che nel 1990. Nel febbraio del 2004 il ministro per l’ambiente del Canada, David Anderson, ha affermato testualmente: “il riscaldamento globale espone il mondo a una minaccia a lungo termine ben più pericolosa del terrorismo, poiché potrebbe obbligare centinaia di milioni di individui a lasciare le proprie case, innescando una catastrofe economica”. Del resto, già oggi il cambiamento climatico miete incomparabilmente più vittime del terrorismo: si è infatti calcolato che ogni anno muoiano 160.000 persone a causa degli effetti del cambiamento climatico.20

4. I paradossi della “sicurezza”

È sufficiente riflettere sulle cifre che abbiamo visto per riportare tutte le chiacchiere su “sicurezza”, “guerra al terrore”, “attacco al modo di vità dell’Occidente” alla loro giusta dimensione: quella cioè di strumenti dell’industria della paura, che ha bisogno di amplificare a dismisura fenomeni di modesta importanza - o addirittura di costruirli a tavolino - per poter vendere la “sicurezza”. Purtroppo, va detto che si tratta di un meccanismo che spesso produce i risultati desiderati. Basti pensare alla vera e propria psicosi collettiva che si impadronì degli USA in occasione delle “lettere all’antrace”: una reazione assolutamente spropositata per una vicenda che provocò in tutto appena 5 morti - una reazione che però concorse a convincere l’opinione pubblica della necessità della guerra contro l’Afghanistan. Ma c’è di più. Se si accetta il concetto ricco di sicurezza proposto più sopra, è inevitabile trarre una conseguenza: “dal punto di vista della sicurezza complessiva, la guerra al terrore rischia di marginalizzare la guerra contro la povertà, contro le malattie epidemiche e il degrado ambientale, privando di risorse la lotta ai problemi che sono alla radice dell’insicurezza”.21 In una parola: l’ossessione della “sicurezza” diminuisce la sicurezza. Questo però non è il solo paradosso che ci si presenta in tema di sicurezza. Un altro, eclatante, riguarda il petrolio. Abbiamo visto sopra come esso sia considerato una componente essenziale del concetto di “sicurezza” degli Stati Uniti dall’establishment di quel paese. Più legittimo sarebbe considerare il petrolio come una grave minaccia alla sicurezza globale, nella sua triplice natura di: minaccia alla sicurezza dell’economia globale, in particolare in quanto il divario tra la domanda e l’offerta di questo bene rende il mondo soggetto a gravi crisi economiche; minaccia alla sicurezza civile dei paesi che lo possiedono, da parte dei paesi occidentali, a cominciare dagli USA (si tratta della cosiddetta “maledizione delle risorse naturali” -che non ha in verità nulla di diabolico, nascendo dalle politiche coloniali e neo-coloniali); infine, minaccia alla sicurezza ambientale, a cominciare dalla stabilità climatica (il petrolio è responsabile di più di due quinti delle emissioni totali di anidride carbonica, il principale dei gas che producono l’effetto serra).22 Ovviamente, però, tutto questo non conta, al cospetto dei profitti che devono essere assicurati alle grandi corporation del settore petrolifero, a cominciare dalla Exxon Mobil (lo scorso anno i profitti realizzati da questa società sono stati superiori a quelli mai realizzati da una singola impresa). Questa banale osservazione ci aiuta anche a capire i limiti del pur pregevole lavoro del Worldwatch Institute: il problema non è tanto quello di far intendere la dannosità globale delle attuali politiche della “sicurezza”, ponendone in luce l’“irrazionalità”, la scarsa convenienza sul lungo periodo ecc. In altri termini: non è sufficiente restituire al concetto di sicurezza l’ampiezza del suo vero significato. Non basta chiedersi: “quale sicurezza?”. Bisogna aggiungere un’altra domanda: “sicurezza per chi?”. Ossia: quali sono gli interessi a cui giova l’attuale politica della sicurezza? E contemporaneamente: a quali insicurezze questa politica dà una risposta, sia pure in maniera elusiva e distorta?

5. Realtà della precarietà e voglia di “sicurezza” L’ossessione della sicurezza non è appannaggio dei soli Stati Uniti dell’èra Bush. Qualche mese fa, in un accurato articolo pubblicato sul Sole 24 Ore, Marco Niada ha descritto come nella Gran Bretagna di Blair imperi la “psicosi dell’insicurezza”, in particolare - ma non solo - nei confronti di bande di teppisti minorenni.23 L’esplosione delle banlieue parigine, frutto degli arbitrii razzistici della polizia francese (ossia dell’insicurezza di chi li subisce...) non meno che dell’assoluta assenza di prospettive (cioè insicurezza esistenziale) di decine di migliaia di giovani, ha fatto crescere la popolarità del ministro dell’interno francese Sarkozy, propugnatore del coprifuoco (!) e della linea dura per stroncare il fenomeno. Dalle nostre parti, un ex sindacalista fattosi borgomastro dichiara che i lavavetri sono un problema di ordine pubblico e lancia, dalla prima pagina di Repubblica, l’ennesima invocazione alla sinistra: “Sicurezza, la sinistra si svegli”. Cosa sta succedendo? Antonio Casu, autore del già citato libro Democrazia e sicurezza, la vede così: “la percezione diffusa di insicurezza costituisce un’esperienza non solo collettiva ma anche individuale, determinata dal mutamento repentino e costante del contesto culturale e socio-economico, che in passato forniva alla persona punti di riferimento più stabili, inducendo un rassicurante senso di appartenenza ad un popolo, ad una classe, ad una cultura”.24 Sarà. Forse però il problema è più concreto. Forse l’insicurezza non è solo una “percezione”, ma una realtà esistenziale. Ed in verità è facile dimostrare che molte sicurezze sono realmente andate in frantumi negli ultimi anni. Sia sotto il profilo della sicurezza del posto di lavoro, che sotto quello delle prestazioni sociali garantite dallo Stato (sanità, servizi pubblici, pensioni). “L’esaurimento del Welfare State, che garantiva uno stardard minimo di sicurezza per quanto concerneva la salute, la casa, l’istruzione, le necessità primarie, influisce non solo sugli emarginati e le persone a livello di povertà assoluta, ma anche e in gran parte su coloro che fino a pochi anni fa si consideravano lavoratori sicuri e garantiti”. Così si legge in un recente volume di Joaquin Arriola e Luciano Vasapollo dal titolo significativo: L’uomo precario.25 In questo testo vengono analizzate nel dettaglio le conseguenze concrete della cosiddetta “flessibilità”. A cominciare dall’atomizzazione e dall’isolamento dei lavoratori - con conseguente indebolimento della loro forza contrattuale - ottenuti attraverso la moltiplicazione delle fattispecie contrattuali e l’enorme aumento dei contratti di lavoro “atipici”. “Moltiplicazione” non è una metafora: non sono meno di 23 le modalità contrattuali vigenti in Spagna; e in Italia già nel 2000 l’Istat individuava qualcosa come 31 tipi di lavoro atipico.26 A ben vedere, l’insicurezza concerne tutti gli aspetti dell’attività lavorativa, la cui realtà fenomenica si allontana progressivamente dalla sua realtà sostanziale. Si pensi alla finzione del “lavoro autonomo” (il mitico “popolo delle partite IVA”), che altro non è se non lavoro subordinato sotto mentite spoglie (e con meno costi a carico del datore di lavoro, a cominciare dai contributi previdenziali). Ma anche ai contratti di “lavoro interinale”: in questi casi “un lavoratore è formalmente sotto contratto di un datore di lavoro che ha il compito di affittare i propri dipendenti. Non si ha più, in senso stretto, un luogo di lavoro, e il periodo di lavoro si biforca tra il tempo di attesa e quello dell’effettiva prestazione”. In tal modo, la stessa controparte del lavoratore diventa mutevole e sfuggente.27 La precarietà del lavoro investe quasi tutti i settori produttivi, e cresce progressivamente. Se in Italia nel 1975 circa l’85% della popolazione attiva aveva un lavoro stabile, negli anni Novanta tale percentuale è scesa al 60%, e si calcola che nel 2010 “solo il 25% della popolazione attiva avrà un impiego stabile e protetto da uno statuto legale e contrattuale, con pieni diritti e un salario pieno”. La precarietà del rapporto di lavoro si traduce già oggi in insicurezza economica per milioni di lavoratori. Tornano i “working poors”: ossia quei lavoratori per i quali il lavoro che svolgono non è sufficiente per uscire da una condizione di povertà. Secondo una ricerca dell’IRES-CGIL pubblicata nel 2004, in Italia attualmente 3 milioni di lavoratori guadagnano tra i 600 e gli 800 euro al mese; vi sono altri 3 milioni di lavoratori il cui salario non supera i 1.000 euro mensili.28 La tanto mitizzata “flessibilità del lavoro” assume insomma tutt’altro aspetto se la osserviamo dal punto di vista dei lavoratori interessati: in questo caso vediamo infatti “insicurezza economica, mancanza totale di prospettive, difficoltà di conciliazione dei tempi, precarietà in qualsiasi fase dell’esistenza”. A fronte di tutto questo, le rilevazioni di Eurobarometro mostrano che le istituzioni più apprezzate dai cittadini europei sono l’esercito e la polizia. La conclusione di Arriola e Vasapollo, pienamente condivisibile, è che “le istituzioni della sicurezza in qualche modo sembrano sostituire l’insicurezza personale e collettiva che si sente”.29 In altri termini: il feticcio della sicurezza diviene una via di fuga dalla realtà della precarietà. La scorciatoia delle false certezze securitarie è una strada sempre aperta per sopperire alla vera insicurezza del vivere.

6. Rompere il cerchio magico

Quando questa strada viene imboccata il cerchio si chiude, il sortilegio si compie: il disagio delle condizioni materiali di esistenza create da questa società viene deviato su falsi obiettivi e in tal modo adoperato per puntellarla e rafforzarla. È già accaduto: si pensi alla costruzione del Nemico da parte dei nazisti. Fu questa costruzione del Nemico (interno non meno che esterno) nelle due figure, tra loro connesse, del “Comunista” e dell’“Ebreo”, il vero capolavoro ideologico del nazismo: a quanto avveniva si dava un’interpretazione che consentiva ad un tempo di far distogliere lo sguardo dai rapporti sociali reali, e di creare un comodo capro espiatorio per tutto quanto era avvenuto in Germania negli ultimi anni (guerra e sconfitta militare, disoccupazione e fame, ecc.).30 Oggi la “Guerra al Terrore”, e più in generale l’ossessione della sicurezza, possono svolgere un ruolo simile. Anche in questo caso esiste un capro espiatorio a disposizione, in grado di assumere le fattezze del Nemico (per definizione sfuggente) che è rappresentato dal “Terrorismo”, e al tempo stesso di apparire come il responsabile dell’insicurezza economica: l’Immigrato. Questa operazione non ha ancora avuto successo, ma la situazione non è affatto rassicurante. Come opporsi a tutto questo? È senz’altro utile porre in luce - come si è tentato di fare anche in queste pagine - l’insensatezza della accezione dominante di “sicurezza”, i paradossi e le contraddizioni in cui finisce per incappare. Così come è utile far conoscere il giudizio che i Law Lords, la più alta carica giudiziaria del Regno Unito, hanno dato della legge - voluta da Blair - che prevedeva l’internamento senza processo di tutti i cittadini stranieri sospettati di essere terroristi: “la vera minaccia alla vita e alla sicurezza della nazione, nel senso di un popolo che vive nel rispetto delle sue leggi e dei suoi valori politici, non viene dal terrorismo ma da leggi come questa”.31 Tutto questo serve - ma non basta. La strada maestra - difficile quanto necessaria - è infatti un’altra: si tratta della (ri-)costruzione di un’identità collettiva che sappia riproporre, sulla base della realtà odierna del mondo del lavoro, il grande tema del “controllo dei lavoratori sul proprio lavoro e sul prodotto di tale lavoro”.32 Il riconoscersi o meno in questo obiettivo continua a rappresentare anche l’unico vero spartiacque tra la “sinistra” e la “destra”.

Note

* Economista.

1 Vedi ad es. G. de Vergottini, Guerra e costituzione. Nuovi conflitti e sfide alla democrazia, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 245 sgg.

2 “The dirty bomber”, the Economist, 15/6/2002.

3 Intervista al Corriere della sera, 4/12/2003.

4 Conferenza del 1° aprile 2005, cit. in A. Casu, Democrazia e sicurezza, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005, p. 26 nota.

5 Vedi Da Bush a Bush. La nuova dottrina strategica USA attraverso i documenti ufficiali (1991-2003), Napoli, La Città del Sole, 2004, pp. 187, 197, 201.

6 Per quanto riguarda in particolare l’Italia, l’ingresso ufficiale della “sicurezza” nell’ordinamento risale invece al 1996: vedi A. Casu, cit., p. 89.

7 A. Casu, cit., p. 21; corsivo mio.

8 G. Cucchi, “La NATO: l’efficienza militare e le relazioni con i nuovi membri”, in Governare la sicurezza, a c. di A. Calabrò, Milano, Il Sole 24 Ore, 2002, p. 49.

9 Da Bush a Bush, cit., p. 91.

10 Da Bush a Bush, cit., pp. 151 sgg. 11 Da Bush a Bush, cit., p. 183 e p. 171; corsivo mio.

12 U. Beck, Un mondo a rischio, 2002; tr. it. Torino, Einaudi, 2004, p. 5.

13 In argomento si veda A. Burgio, “La guerra contro i diritti”, in A. Burgio, M. Dinucci, V. Giacché, Escalation. Anatomia della guerra infinita, Roma, DeriveApprodi, 2005, pp. 189 sgg.

14 L. Milella, “Sicurezza, la Lega alza il tiro”, la Repubblica, 20/7/2005.

15 G. Bologna, “Sicurezza e sostenibilità”, in Worldwatch Institute, State of the World 2005. Sicurezza globale, Milano, Edizioni Ambiente, 2005, p. 20.

16 U.N. Development Programme, Human Development Report 1994, New York, Oxford University Press, 1994.

17 Vedi Worldwatch Institute, cit., pp. 40 e 46.

18 Worldwatch Institute, cit., pp. 114-115, 78, 79.

19 Worldwatch Institute, cit., pp. 90, 91, 94.

20 Worldwatch Institute, cit., pp. 45-6, 180.

21 Worldwatch Institute, cit., p. 56-7.

22 Worldwatch Institute, cit., pp. 161, 176, 177.

23 M. Niada, “Massimo rispetto, Mr Blair”, il Sole 24 Ore, 22/5/2005.

24 A. Casu, cit., p. 14.

25 J. Arriola, L. Vasapollo, L’uomo precario nel disordine globale, Milano, Jaca Book, 2005, p. 204.

26 J. Arriola, L. Vasapollo, cit., pp. 113-114.

27 J. Arriola, L. Vasapollo, cit., pp. 116-7. Su tutto questo si veda anche M. Prospero, “Il lavoro e la condizione giuridica postmoderna”, in AA.VV., Lavoro contro capitale. Egemonia e politica nell’epoca del conflitto di classe globale, Quaderni di Contropiano per la Rete dei Comunisti, Roma, 2005, pp. 63, 77.

28 J. Arriola, L. Vasapollo, cit., pp. 147, 138, 180.

29 J. Arriola, L. Vasapollo, cit., pp. 150, 144-5; corsivi miei.

30 Sull’argomento rinvio a V. Giacché, “La verità all’inferno - la lingua della menzogna e della violenza”, la Contraddizione, n. 110, sett.-ott. 2005.

31 O. Casagrande, “Guerra al terrore ‘fuorilegge’”, il manifesto, 17/12/2004; corsivi miei.

32 J. Arriola, L. Vasapollo, cit., p. 205.