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Precarietà come forma generale del rapporto di lavoro.

MICHELE FRANCO

Aspetti del nuovo sfruttamento e della solitudine identitaria nel Meridione d’Italia

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1. La lettura di “L’uomo precario”

Il recente libro di Luciano Vasapollo e di Joaquin Arriola “L’uomo precario nel disordine globale” edito dalla Jaca Book ha l’indubbio merito di mantenere vivo il necessario dibattito su un aspetto particolare che, spesso, viene oscurato e rimosso nelle discussioni ufficiali sui variegati aspetti del lavoro e della gestione del suo mercato. Ci riferiamo allo sforzo che gli autori delineano nell’individuazione del legame tra le nuove e diversificate forme - un’autentica giungla - delle tipologie lavorative e l’attuale congiuntura del corso della mondializzazione capitalistica, caratterizzato dalla accresciuta competizione globale sul piano internazionale. È oramai evidente, anche nella letteratura di parte borghese che pure in maniera mistificante si cimenta su tali materie, che il conflitto tra i diversi poli economici ha bisogno, per il pieno funzionamento a scala totale, dell’utilizzo di un modello di accumulazione flessibile centrato sullo sfruttamento generalizzato del lavoro e sulla compresenza di continui cicli di ristrutturazione, delocalizzazioni e riconversione. In questa dimensione si sta consolidando e diversificando una logica economico-produttiva, sempre più incardinata nei modelli d’impresa e nell’organizzazione dei profili del lavoro la quale si rivela la più adatta alla valorizzazione del capitale. Una rinnovata geografia produttiva, profondamente cambiata se confrontata ai precedenti modelli a cui eravamo abituati nel corso dei decenni scorsi, contro la quale occorrerà mettere in campo azioni di lotta necessariamente diverse dalle pur fondamentali esperienze sociali di grande rilevanza, sviluppate nel recente passato, e non più riproponibili con le stesse caratteristiche e metodologie di esemplificazione.

2. Nuovo macchinismo, diffusa precarizzazione....lo sfruttamento e l’alienazione sono sempre lo stesso!! Se osserviamo il quadro mondiale del lavoro1, astraendolo per un attimo da ogni altro fattore storico, politico e militare, possiamo registrare, che nel mercato internazionale, è vincente da oltre un secolo e mezzo la combinazione ottimale tra il massimo possibile di durata ed il massimo possibile di intensità produttiva della prestazione lavorativa2. Questo fattore è vieppiù esaltato dalla potente accelerazione della mondializzazione in atto, che sospinge più in alto il volume globale della produzione mondiale accentuando la concorrenza tra le nazioni, le imprese ed i lavoratori. Una perversa spirale in cui si frantumano diritti politici e sindacali, si estende il supersfruttamento in ogni piega della società, ritorna anche nelle metropoli (particolarmente con i migranti) il lavoro coatto, servile e schiavistico e si intruppano i lavoratori in una parossistica ed innaturale contrapposizione al ribasso tra loro!! Un esempio derivante da questo inasprimento dell’azione del capitalismo, fondata sulla spremitura di una quantità accresciuta di pluslavoro da una massa decrescente, in rapporto al capitale accumulato di forza/lavoro è dato da un importante aspetto del funzionamento di uno dei moderni templi del capitalismo: la Borsa di Wall Street. Ogni volta che una azienda annuncia un cosiddetto piano di risanamento, con i correlati licenziamenti di massa, i titoli di queste aziende schizzano in alto per la gioia di speculatori e sciacalli della finanziarizzazione. È nei settori più nuovi, quelli nei quali l’innovazione tecnologica è più rapida, che questo processo ha maggiore forza dinamica. In tali comparti - infatti - le imprese sono particolarmente restie a ridurre gli orari e fanno il possibile per allungarli in modo da compensare la contrazione del numero degli addetti ed ammortizzare i cospicui investimenti di capitale3. Ed è in questi “punti d’avanguardia” della produzione del capitale (quella materiale ed anche quella che alcuni ricercatori definiscono immateriale) che si realizzano e sperimentano nuove tipologie di contratti, sofisticate metodologie di controllo e tutte quelle attività che occorrono per spremere ed espropriare, a tutto campo, il pluslavoro. Ma questo nuovo capitalismo, inizia ad avere conseguenze sempre più dirette ed immediate sulla vita delle persone. Flessibilità, mobilità, rischio sono fattori che travolgono l’identità dei lavoratori e la loro unità materiale e politica. Il capitalismo della mondializzazione, quello flessibile, ma nel contempo capace di accentrare e centralizzare, in tempi rapidissimi, grandi risorse finanziarie e funzioni di comando e controllo, con la sua pratica di spostare all’improvviso i lavoratori dipendenti da un incarico ad un altro, da un territorio ad un altro, ha cancellato i percorsi lineari di vita e di relazioni sociali4. Nell’inglese del Trecento la parola job (lavoro) indicava un “blocco” o un “pezzo”, qualcosa che poteva essere spostato da una parte o dall’altra. Oggi la flessibilità, la precarietà, la nuova organizzazione post/fordista stanno riportando in auge questo significato arcaico della parola job, in quanto durante la propria vita le persone sono chiamate a svolgere “blocchi” o “pezzi” di lavoro (o di mansioni) in maniera totalmente separata e non comunicante con l’interezza del processo lavorativo. Siamo in presenza, di un potente fattore di de-personalizzazione sistematica del lavoro che si va affermando come caratteristica speculare di questo scorcio della mondializzazione!! Siamo, allora, fregati per sempre? Dobbiamo rinunciare all’idea di un nuovo incontro cooperante ed antagonista tra i diversi segmenti dello sfruttamento? Credo di no!! Pur tra oggettive difficoltà non aggirabili con attitudini d’intervento marcatamente volontaristiche, spesso in forme spurie ed originali che non combaciano con i radicati preconcetti che ancora albergano nella testa di molti compagni ed attivisti del movimento, iniziano ad emergere segnali interessanti e spunti programmatici per una controtendenza di parte proletaria. Il movimento globale emerso a Seattle alla fine del secolo scorso e riconfermatosi nelle grandi mobilitazioni contro le reiterate aggressioni imperialistiche si è opposto, con efficacia, al potere delle grandi corporation. In questa direzione il movimento internazionale ha ottenuto successi importanti sapendo rompere il consenso verso la privatizzazione delle risorse fondamentali ed il loro uso. Si è riaperta - quindi - una prospettiva sociale, ancora tutta da arricchire ed enucleare, che non accetta supinamente le fine della storia e le sue brutali conseguenze sull’intera specie umana. L’uomo, l’intera vita è certamente diventata più precaria in un complesso di disordine generale. Sono cresciute enormemente le sofferenze, le polarizzanti disuguaglianze, la disumanizzazione e l’imbarbarimento dei rapporti sociali. Ma accanto a ciò, particolarmente se volgiamo lo sguardo fuori dal ridotto italico, sono aumentate le lotte, le ribellioni, le varie resistenze ed i processi di autodeterminazione ed autorganizzazione. L’aspirazione ad un altro mondo possibile non è andata in soffitta ma vive e si alimenta, in modalità differenti e diversificate, in ogni punto del pianeta anche se stenta a dotarsi di una strategia generale di alternativa di sistema. Naturalmente occorrerà comprendere che un processo di rimessa in movimento dell’antagonismo, sul piano globale, non avverrà automaticamente, subito, in forme lineari e con una modellistica teorico-poltica precostituita5. Ai militanti di classe, al sindacalismo di base, agli attivisti dei movimenti di lotta, al proletariato universale il compito di ricercare ed articolare una strategia ed una tattica adeguata ai nuovi scenari, che sappia salvaguardare le ragioni sociali e l’indipendenza degli obiettivi della trasformazione sociale.

3. Lo sguardo incazzato del Meridione d’Italia: nuove sfide e nuovi compiti per la necessaria riunificazione del mondo del lavoro e dei lavori Sono passati tanti anni da quelli che l’allora “governo amico” di Prodi (sostenuto dal Patto di Desistenza con il PRC) presentò come un insieme di norme e provvedimenti che avrebbero mutato radicalmente le condizioni socio/economiche del Sud. Anche allora dal governo nazionale e dai loro sodali locali, dalle organizzazioni sindacali totalmente impegnate nella promozione della “concertazione” e dalle associazioni del padronato che osservavano interessate e compiaciute arrivarono messaggi rassicuranti che promettevano e prospettavano una “...rinascita del Sud d’Italia con l’obiettivo di farne la Florida del Mediterraneo....” A tale scopo, nell’ambito legislativo del famigerato Pacchetto Treu, furono ideati i Contratti d’Area ed i Patti Territoriali con il palese tentativo di istituzionalizzare, in alcune zone territoriali da estendere sempre più, strappi alle normative nazionali. Contratti collettivi di lavoro, leggi di finanziamento pubblico al capitale privato, tutele ambientali e di sicurezza del lavoro furono aggirate e deregolamentate ulteriormente per offrire, alla Confindustria, alle multinazionali interessate ai redditizi investimenti al Sud, alla pletora della piccola e media imprenditoria (spesso “volto legale” della criminalità organizzata in affari con il ceto politico locale) le migliori condizioni possibili ai danni del mondo del lavoro. Insomma il “governo amico” esercitò una azione di governo completamente subalterna ai voleri del padronato, ai dettami del mercato ed agli imperativi di risanamento finanziario e di riduzione del costo del lavoro provenienti dai poteri forti che si apprestavano a realizzare la moneta unica (l’Euro) strumento imprescindibile del nascente polo imperialista europeo. A distanza di tempo possiamo affermare che il Sud non somiglia alla Florida ma...alla Corea del Sud!! La disoccupazione è aumentata assumendo, in alcune zone, caratteristiche strutturali, la precarietà si è generalizzata ed, a seguito all’introduzione dell’Euro mentre salari, stipendi e pensioni rimanevano fermi, il carovita è diventata una diffusa emergenza sociale anche tra ceti finora al “riparo” dalla crisi i quali stanno conoscendo fenomeni di nuova povertà ed emaginazione. Oggi mentre ci avviciniamo al - probabile - cambio di governo, con la sconfitta elettorale del governo del Cavaliere, si pone con forza, in un contesto socio/economico dove le condizioni generali di vita e di lavoro dei ceti subalterni risultano (dalle analisi presentate degli stessi indicatori statistici ufficiali) ancora più aggravate, il problema di come difendere adeguatamente il lavoro, come estendere i diritti che ancora residuano, come aggregare le diverse tipologie con cui si rappresenta lo sfruttamento e l’alienazione attraverso una nuova pratica di conflitto, di lotta organizzata e di socializzazione delle esperienze dei movimenti. A questo proposito ripercorriamo - sinteticamente - un comparto del lavoro di crescente importanza (il settore delle Telecomunicazioni ed il suo indotto) in cui, nell’area napoletana come altrove, sono riscontrabili tutte quelle fenomenologie e patologie antisociali descritte efficacemente nel libro di Arriola e Vasapollo e che trovano nei nuovi termini con cui si esplicita la contraddizione meridionale del capitalismo tricolore un elemento di aggravamento. Un segmento del nuovo sfruttamento su cui dovremmo meglio investire, dal punto di vista politico ed organizzativo, per aggredire lo zoccolo duro della precarietà. Quando si parla di telecomunicazioni in Campania si parla, essenzialmente, di call center e vengono subito in mente i due grandi call center del Comprensorio Olivetti di Pozzuoli (Wind e Vodafone), quello Tim del Centro direzionale di Napoli ed, ancora, il call center del ministero delle poste al Corso Lucci. In questi moderni opifici sono impegnate migliaia e migliaia di addetti 24 ore su 24 per 365 giorni all’anno. In questi centri, dalle grandi dimensioni, sono occupati prevalentemente “lavoratori in somministrazione”. Attorno a questi colossi crescono come piccoli funghi call center che usano esclusivamente “contratti a progetto”, lavoratori a Partita IVA, vari tirocini, contratti AIFA e, spesso, anche lavoro nero camuffato da presunta formazione professionale. Questi luoghi, situati in città, assieme a quelli disseminati per la provincia (l’Alter Ego, il Telcos, lo Stereoweb, l’IPR Marketing.....) rappresentano un vero e proprio megadistretto industriale della parola6. A questi si aggiungono centinaia di piccolissimi call center di telemarketing sparsi ovunque e i tanti, che utilizzano per lo più giovani donne, che lavorano a domicilio. La prima sfida per il sindacato di classe che davvero vuole aggredire i moderni aspetti delle politiche di precarietà è quello di rivolgersi a questi lavoratori in maniera diretta con un esplicito messaggio di organizzazione e di tutela normativa e giuridica. In questo compito, per lo più in gran parte sperimentale non potendo attingere da esperienze del passato, occorrerà evitare, in ogni modo, di assecondare, anche involontariamente, l’indotta tendenza alla ulteriore frantumazione ed incomunicabilità tra i lavoratori. Mai come ora la guerra tra poveri e la divisione tra dipendenti e precari e - nell’ambito del precariato - tra lavoratori “in somministrazione” e quelli definiti “in collaborazione” ha come diretta conseguenza un minor potere contrattuale e pone le basi per una pesante sconfitta. Parimenti dobbiamo sapere che in questi luoghi si evidenzia, al massimo, quella solitudine dei lavoratori, quella perdita del senso collettivo e di appartenenza ad un corpo sociale unitario e l’assenza di pulsioni verso la ribellione contro un’organizzazione del lavoro e dell’ intera vita sempre più pervasiva e disumana. Per cui - anche sulla base di alcune prime vertenze che iniziano a squarciare l’asissiante cappa normalizzatrice e disciplinante - dobbiamo puntare alla difesa ed alla conquista dei diritti per tutti consapevoli che questa battaglia, se vuole affermarsi e non ridursi ad una pur dignitosa testimonianza, non deve essere confinata ai soli lavoratori immediatamente vittime di queste condizioni ma deve essere veicolata verso tutti gli addetti ovunque collocati. Nelle varie categorie e nei territori, i lavoratori e l’insieme del quadro attivo del sindacato, devono comprendere, a fronte degli effetti derivanti dall’applicazione concreta della Legge 307, che non si può chiudere gli occhi su ciò che sta accadendo e su quello che si annuncia8. Nei settori in cui si privatizza, si esternalizza, si delocalizza, dove arrivano le tipologie del lavoro precario, la reazione non deve essere quella di lasciare che tutto accada senza una convinta reazione di massa organizzata. Bisogna sapere che se, in una prima fase, sarà sulle società esterne e sui lavoratori flessibili che ricadrà tutto il carico di lavoro, dopo un po’ di tempo, l’insieme dei lavoratori pagheranno le conseguenze, compreso chi, oggi, si sente sicuro con il proprio (misero) contratto a tempo indeterminato. Ritorna - quindi - la necessità di assumere, tutti insieme ed in maniera condivisa, la centralità della lotta al precariato ed al complesso delle politiche che spianano la strada a tale condizione. Da questo punto di vista il recente libro di Arriola e di Vasapollo è un buon utensile per una battaglia di lunga lena ancora tutta da delineare. Un testo fortemente ostile non solo verso i cantori della precarietà nei suoi mille aspetti ma dei presupposti da cui scaturisce. Infine - e mi sembra giusto rimarcarlo - Arriola e Vasapollo si scagliano contro tutti coloro che anche nella cosiddetta sinistra politica e sindacale, in Italia, in Europa ed in tutto il mondo, fanno propri i principi ed i dogmi delle compatibilità e della sacralità del mercato ribadendo l’urgente necessità di una trasformazione sociale non limitata agli aspetti di facciata.

Note

* Federazione Regionale Campana RdB/CUB.

1 Oltre ai dati di tipo generali rintracciabili su qualsiasi Annuario Socio/Economico, di buon livello, dalla cui lettura è possibile evidenziare la crescente valorizzazione della forza-lavoro e delle sue diverse modalità, non tutte equivalenti, nel libro di Vasapollo e di Arriola è possibile leggere una interessante disamina comparata su due paesi intermedi dell’Unione Europea: la Spagna e l’Italia.

2 Se la precarizzazione del lavoro e della vita è una condizione sempre più presente e totalizzante ciò è frutto, tra l’altro, dello stravolgimento dell’orario di lavoro non più incardinato su una sequenza unica e standardizzata ma modulato armoniosamente sulle mutevoli esigenze della profittabilità capitalistica. Su questo tema si consiglia il volume di Pietro Basso “Tempi moderni, orari antichi - L’orario di lavoro a fine secolo” edito dalla Franco Angeli.

3 Su questi aspetti sono particolarmente ricchi di dati ed utili comparazioni il capitolo 12 (La nuova povertà ed il lavoro atipico) ed il capitolo 13 (La povertà europea: analisi di casi) del libro in oggetto di Arriola e Vasapollo in cui, seguendo la tendenza internazionale del capitalismo, gli autori dimostrano che la povertà ed il supersfruttamento non sono più una caratteristica dei paesi più marginali del modello economico di sviluppo dominante. In questo senso tutte le ricette governative ed anti-crisi, anche quelle che amano ammantarsi di una patina progressista e sociale, provocando una condizione di normalità all’atipicità del lavoro ottengono il consolidamento permanente del concetto di precarizzazione del lavoro.

4 Due interessanti, quanto paradigmatiche esperienze di flessibilità del lavoro che sconvolge la vita sono descritte nel libro di Richard Sennet “L’uomo flessibile” Feltrinelli Edizioni. Nel testo l’autore, sociologo alla London School of Economics ed alla New York University mostra alcuni illuminati e drammatici affreschi delle micro-realtà quotidiane che sono il prodotto dell’affermarsi del nuovo capitalismo.

5 Su tale problema, che arrovella il dibattito militante e la ricerca teorica per riqualificare l’agire politico di classe, rimando alle riflessioni sulla critica al pernicioso tema dell’Eurocentrismo e dell’Etnocentrismo sviluppate in un recente Convegno, organizzato da RED LINK e dalla RETE DEI COMUNISTI, a Napoli, il 26 Novembre 2005.

6 Accanto all’enorme numero di call center a Napoli, fino a qualche anno fa, assieme alla provincia di Caserta, erano concentrate molte industrie attinenti al settore delle Comunicazioni. Da qualche anno, dopo lo smantellamento e la ristrutturazione selvaggia che si è abbattuta su questo settore, è stato istituita la cosiddetta Autority la quale svolge funzioni puramente di presunta compensazione giuridica e non vede l’enorme bacino di lavoro nero su cui si fonda gran parte del suo operato.

7 Forse non tutti sanno che, fin dal 2003, la Provincia di Napoli, tramite un rampante Assessore al Lavoro del PRC, è stata tra le prime in Italia ad applicare i deliberati la Legge 30. L’inaugurazione dei Centri per l’Impiego, dei Job Center, l’abolizione del Collocamento Pubblico, i primi progetti che hanno utilizzato le nuove direttive differenzianti e discriminati hanno posto, tra l’altro, ulteriori ostacoli allo sviluppo di un generale movimento di lotta per il lavoro ed il reddito. Sul piano meramente occupazionale, poi, sono stati testati e sperimentati - con effetti disastrosi - nella metropoli partenopea come dimostrano il fallimento delle Società Miste, lo scandalo della Formazione Professionale ed il consolidarsi, di nuovo, di un articolato apparato affaristico e clientelare direttamente attinente alla pianificazione ed alla gestione di tali politiche d’intervento.

8 Al di là degli elementi propagandistici e di facciata il futuro e probabile governo dell’Unione non eliminerà interamente la Legge 30. Anzi da alcune teste d’uovo dell’enturage di Rutelli, Fassino e D’Alema giungono severi moniti affinché “la nuova compagine governativa non smarrisca il senso del necessario rigore e dell’indispensabile flessibilità della forza/lavoro....”.