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Perché in America Latina è più forte la contraddizione capitale-lavoro

Carlo Batà

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Tre albe incompiute. Tre paesi dell’America Latina che, di fronte a un importante bivio della propria storia, dopo secoli di oppressione e decenni divisi tra dittature, democraduras e liberismo sfrenato, non hanno saputo (o voluto o potuto?) imboccare la strada della giustizia sociale, per lasciare in modo definitivo dietro di sé rabbia e sofferenza. Lula schiacciato dal peso di un ruolo che non sa (o non vuole o non può?) interpretare, Kirchner limitato dalla sua stessa essenza di borghese illuminato, Gutiérrez (il caso più doloroso perché aveva illuso molti) che, toltosi la maschera, ha rivelato il suo vero volto di servile lacchè. In Lotte e regimi in America Latina (a cura e postfazione di M. Casadio e L. Vasapollo, Jaca Book 2005) Petras, Antunes e Veltmeyer ci raccontano il soffocamento delle esigenze (e della speranza) delle forze sociali che avevano contribuito a esiti elettorali sorprendenti: un sindacalista, che si presentava per l’ennesima volta dopo essere stato sconfitto negli anni precedenti più che altro dall’ostracismo dei poteri forti attraverso la televisione brasiliana; un peronista che si è visto eletto rocambolescamente con il 22% dei voti, perché Carlos Menem (un altro peronista) si vergognava o temeva una batosta colossale; un colonnello (“stranamente” appoggiato dagli indios) paragonato con troppa fretta a Hugo Chávez. D’altronde è più forte la voce del FMI, che quando batte cassa ed esige l’attuazione di determinate politiche silenzia ogni altra richiesta: da Davos, infatti, o da New York è difficile ascoltare quali siano le richieste della gente: chi vive nelle baracche, chi blocca le strade, chi vuole soltanto continuare a interagire in pace e armonia con la propria terra e le proprie tradizioni, già troppo a lungo violentate e vilipese, da spagnoli ignoranti nel XVI secolo o da anglosassoni supponenti cinquecento anni dopo. E ancora oggi, nei consessi internazionali in cui un pugno di uomini si arroga il diritto di decidere per tutta l’umanità, fra abbracci e sorrisi meschini, i governanti dell’America Latina (con l’eccezione magnifica di Cuba e Repubblica Bolivariana di Venezuela) ascoltano consigli e proposte, ribattendo con ingenuità colpevole soltanto con la richiesta di essere “buoni”, comprensivi verso una parte del mondo che ha bisogno dell’aiuto del generoso Occidente o delle magnanime élite latinoamericane. Come se fosse possibile con lo “snellimento dello Stato” diminuire la distanza tra chi si preoccupa delle fluttuazioni delle proprie azioni in borsa e chi, a poche centinaia di metri, deve stare attento a non prendere un proiettile nella schiena, nell’abbandono più totale nel quale viene lasciato, insieme a una famiglia da mantenere. Non ci si può limitare a denunciare le disfunzioni di un sistema che, sostengono, è correggibile: Cuba e la Repubblica Bolivariana di Venezuela lo dimostrano, sorrette da due popoli decisi a difendere questa scelta coraggiosa, nonostante Washington o Miami, la putrida tana dei controrivoluzionari della peggior specie. E, una volta preso questo dannato potere (in barba a chi sostiene che è possibile “cambiare il mondo senza prendere il potere”...), bisogna sapere resistere e difendersi con ogni mezzo, perché la minaccia di attacchi terroristici (Cuba è un esemplare caso studio) o invasioni militari è sempre incombente e non lascia spazio a distrazioni. Sarebbe bello poter decidere le sorti dell’umanità nei Social Forum: quello che serve, però, è un forte e radicato seguito popolare e un programma politico deciso e incisivo. Ecco perché hanno molto più effetto le proteste dei piqueteros o della popolazione indigena in Bolivia, per esempio, o le conquiste sociali del popolo venezuelano. Petras, riportando quanto successo in Argentina dopo il dicembre 2001 (destituzione di De la Rua, scontri di piazza, 38 morti tra i dimostranti), si chiede “la visione di Kirchner di un capitalismo normale [...] è praticabile?” Un plauso va sicuramente al nuovo esecutivo argentino per quanto fatto per cercare di dare giustizia ai familiari dei 30.000 desaparecidos. Però, per quanto concerne le tematiche sociali e in materia di lavoro, il giudizio è abbellito dal facile paragone con gli altri paesi dell’America Latina, governati per esempio da Fox, Lagos o Toledo. L’ex governatore della provincia di Santa Cruz si è attirato infatti la simpatia di molti intellettuali e progressisti, anche qui in Europa: tutto ciò è lecito e motivato? Petras non ha dubbi: “La visione di Kirchner di una faccia decente per un capitalismo normale sembra essere una maschera di argilla che, mentre scivola via, rivela il sorriso compiaciuto del vecchio capitalismo ruba e scappa del passato fin troppo recente”. E così sono assecondate le richieste della classe media, pochi mesi fa nelle strade a protestare, di usare la mano dura contro le cortas de ruta, i blocchi stradali, e di imporre l’ordine della legge; si combattono le fabbriche in cui vige realmente un’autogestione da parte dei lavoratori; si mettono a tacere le proteste dei piqueteros e degli esclusi di sempre; non si adottano politiche di urgenza contro il disastro in cui versa la sanità pubblica o la disoccupazione; non si chiede la nazionalizzazione dell’industria petrolifera in mano alle multinazionali straniere (ennesima anomalia a livello internazionale). Petras, esperto conoscitore della storia del continente, individua con amarezza l’unica nota positiva: “Ancora una volta il movimento di massa imparerà che nessuno dei problemi strutturali di base sarà risolto da un’alleanza con la borghesia nazionale, anche se in una versione accattivante alla Kirchner”. Anche Antunes contesta a Lula il non aver invertito rotta, il non aver combattuto alla radice i disastri del neoliberismo e della divisione internazionale del lavoro. Dopo i vent’anni di dittatura, la fine degli anni Ottanta (mentre si sviluppava il novo sindacalismo che vide l’emergere di Lula e del PT) registrò, come altrove, l’attuazione delle politiche di FMI e BM. Collor de Mello, Itamar Franco e Cardoso ne furono i fedeli esecutori: la flessibilizzazione, la deregolamentazione e le privatizzazioni hanno invaso il paese. Con l’elezione di Lula ci si attendeva qualcosa di diverso e invece oggi a lottare per l’assegnazione di un fazzoletto di terra da coltivare è rimasto il Movimento dos Trabalhadores Sem-Terra. Antunes è lapidario: “I risultati sono i peggiori possibili”. Infatti, la disoccupazione è aumentata a dismisura, i salari sempre più miseri peggiorano la condizione di vita dei lavoratori, la previdenza sociale è passata nelle mani dei privati, per quanto concerne gli OGM Lula ha ceduto alle pressioni delle multinazionali come la Monsanto, la riforma agraria tarda a realizzarsi, l’egemonia del capitale finanziario e speculativo sembra intoccabile. In Ecuador, ci racconta Veltmeyer, gli ultimi anni hanno visto l’emergere di una profonda speranza, poi diventata disillusione di fronte alle politiche neoliberiste che hanno continuato a imperversare. Nonostante l’opposizione della base sociale. Nel 2003, l’elezione di Lucio Gutiérrez sembrava essere la risposta agli anni di liberismo e l’esito delle lotte ventennali del CONAIE e di quelle secolari delle popolazioni indigene. Dopo il decennio nefasto che aveva visto al potere loschi personaggi come Bucaram e Muhuad, sembrava che finalmente si potessero accantonare l’arroganza del FMI (che aveva portato alla suicida adozione della dollarizzazione) e le politiche paternaliste del governo nei confronti delle popolazioni indigene. Invece, a Gutiérrez sono bastati quattro giorni per firmare un accordo con il FMI, in palese contraddizione con quanto pattuito con le forze sociali che avevano reso possibile la sua elezione: opposizione all’ALCA, fine delle privatizzazioni, accantonamento del neoliberismo. D’altronde cosa ci si poteva aspettare da chi prima di essere eletto si era recato negli Stati Uniti, dichiarando di essere “il (loro) migliore amico in America Latina”? Veltmeyer, appena prima che Gutiérrez fosse costretto a fuggire all’estero dalla rabbia della gente, sintetizza il fallimento dell’operato governativo: “Gutiérrez ha ridotto il paese in una condizione peggiore di quella precedente”. Invece di prodigarsi per rimborsare il debito estero del proprio paese, avrebbe fatto meglio a “pagare l’enorme debito sociale accumulato in due decenni di politiche neoliberiste”... Esiste un legame tra quello che sta accadendo in America Latina e quello che è successo in Italia negli ultimi decenni? Casadio e Vasapollo ci conducono, brevemente ma con chiarezza, all’interno della storia del nostro paese degli ultimi sessant’anni: ricostruzione postbellica, sviluppo economico accelerato, disparità tra Nord e Sud, e di pari passo repressione del movimento operaio e licenziamenti. E ancora, durante le alterne fasi di crisi economica, le lotte operaie, l’autunno caldo, gli anni di piombo, la strategia della tensione, la (non) risposta del sindacato alle istanze promosse da lavoratori e studenti... Le analogie sono notevoli: le migrazioni dalle campagne verso le città industriali oppure verso l’estero e il fordismo nelle fabbriche sono solo i fenomeni più evidenti. Con la variante, deleteria per i lavoratori latinoamericani, che oggi le economie di quei paesi non hanno in poppa il vento del boom economico, bensì sono strozzate dalle politiche di delocalizzazione produttiva imposte da Stati Uniti, Europa e Giappone. L’applicazione selvaggia delle politiche neoliberiste (e, di conseguenza, lavoro precario, insicurezza sociale, perdita del potere d’acquisto dei salari, costo della vita alle stelle e pauperizzazione crescente) non ha però risparmiato nessuno, in Europa sotto la falce degli accordi di Maastricht, in America sotto l’azione di Reagan e delle dittature sanguinarie latinoamericane. Gli interessi dei lavoratori sono stati sacrificati, spesso in nome della democrazia e della libertà, sull’altare delle esigenze dei poteri finanziari e dei banchieri. Sia quando a governare si trovava la destra, sia quando si trovava, con l’acquiescenza dei maggiori sindacati, il centrosinistra (in Italia, dal 1992 al 2001, con l’eccezione dei mesi centrali del 1994). Ecco perché urgono come non mai l’esigenza di reagire con decisione, una ripresa del conflitto tra capitale e lavoro per il superamento della società capitalista e la presa di coscienza dell’inutilità di opporsi soltanto agli eccessi del liberismo, propugnando un inesistente “capitalismo buono” alla Kirchner, Lula o Gutiérrez oppure alla Ciampi, Amato, Prodi o D’Alema. Resistenza, che fa leva sulla contraddittorietà della globalizzazione neoliberista: i lavoratori, la cui condizione è sempre più precaria a causa delle politiche economiche adottate, si ritrovano paradossalmente più uniti a livello internazionale. Questa, ribadiscono Casadio e Vasapollo, è la “unica alternativa per affrontare la barbarie del dominio del capitale che oggi opprime il mondo e desocializza l’umanità che lavora”. Facendo attenzione a “quei settori progressisti [...] che dietro le parole della solidarietà e dell’aiuto ai più deboli che deve essere fornito dai paesi ricchi, nascondono un’ideologia che può essere a ben ragione definita eurocentrica, in quanto riconoscono un ruolo del tutto positivo alla nascente unione in contrapposizione agli USA, ma anche come modello democratico da esportare nei paesi cosiddetti arretrati. [...] I lavoratori di tutto il mondo non hanno bisogno di anime belle che predicano l’aiuto ai poveri e diseredati, ma di organizzazione unitaria che individui con chiarezza gli interessi comuni e i nemici comuni dei lavoratori e di tutta l’umanità”. Viene in mente il livore con cui i DS attaccano Cuba oppure anima bella Veltroni che invita a Roma Blair per trovare una soluzione ai problemi dell’Africa...

Note

* Scrittore, giornalista.