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TENDENZE DELLA COMPETIZIONE GLOBALE

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Rémy Herrera
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Prof. al CNRS, France. Rapporto per la Commissione dei Diritti dell’Uomo dell’O.N.U., Ginevra e inviato dall’Autore a PROTEO per la pubblicazione in italiano, gennaio 2004

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Verso un rinnovamento della solidarietà dei popoli del Sud?

Rémy Herrera

Intervista a SAMIR AMIN

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Domanda di Rémy Herrera: Cinquanta anni fa, nel 1955, i principali capi di Stati dei paesi asiatici e dell’Africa, riconquistata la loro indipendenza politica, si riunivano per la prima volta a Bandung. Quale era il loro progetto comune? Risposta di Samir Amin: L’esperienza dei nuovi governi che rappresentavano era ancora molto breve, e la battaglia per il completamento del compito storico dell’indipendenza non era finita. La prima guerra del Vietnam si era appena conclusa che già la seconda si profilava all’orizzonte; la guerra di Corea si concludeva con uno status quo; la guerra dell’Algeria era all’apice; la liberazione dell’AFRICA subsahariana non era ancora prevista; il dramma palestinese era ancora agli esordi. I leader asiatici ed africani riuniti a Bandung erano lungi dall’essere uguali gli uni agli altri. Le correnti politiche ed ideologiche che rappresentavano, le loro visioni del futuro della società da costruire o ricostruire e delle sue relazioni con l’Occidente, erano altrettanti punti della differenza. Tuttavia, un progetto comune li avvicinava e dava un senso alla loro riunione. Nel loro programma il minimo comune denominatore era il completamento della liberazione politica dell’Asia e dell’Africa. Inoltre, capivano tutti che la riconquistata indipendenza politica era soltanto il mezzo, essendo il fine la conquista della liberazione economica, sociale e culturale. Qui, due visioni dividevano gli ospiti di Bandung: c’era l’opinione maggioritaria di quelli che pensavano lo “sviluppo” possibile “nell’interdipendenza” in seno all’economia mondiale, e quella dei leader comunisti che pensavano che uscire dal gruppo capitalista avrebbe condotto a ricostruire - con, alle spalle, l’URSS - un gruppo socialista mondiale. I leader del Terzo Mondo capitalista che non prevedevano “di uscire dal sistema”, “di distaccarsi”, non condividevano, neppure tra di loro, la stessa visione strategica e tattica dello “sviluppo”. Ma, a livelli diversi, pensavano che la costruzione di un’economia e di una società sviluppata indipendente - fosse pure nell’interdipendenza globale - implicasse un certo grado di “conflitto” con l’Occidente dominante. L’ala radicale riteneva di dover mettere un termine al controllo dell’economia nazionale da parte del capitale dei monopoli stranieri. Inoltre, preoccupati di preservare l’indipendenza riconquistata, rifiutavano di entrare nel gioco militare planetario e fare da base all’accerchiamento dei paesi socialisti che l’egemonismo statunitense tentava di imporre. Tuttavia, pensavano anche che rifiutare l’inserimento nel gruppo militare atlantico non implicasse la necessità di mettersi sotto la protezione dell’avversario di quest’ultimo, l’URSS. Di qui il “neutralismo”, il “non-allineamento”, nome del gruppo dei paesi e dell’organizzazione che stava nascendo dallo spirito di Bandung. Domanda: Come si è evoluto questo “non-allineamento” nel corso del tempo? Risposta: Di vertice in vertice, nel corso dei decenni 1960 e 1970, il “non-allineamento” ormai istituzionalizzato in “Movimento dei Non-Allineati”, che riuniva la quasi totalità dei paesi dell’Asia e dell’Africa, è progressivamente slittato dalla posizione di fronte di solidarietà politica, incentrato sul sostegno alle lotte di liberazione e sul rifiuto dei patti militari, a quella di “sindacato di rivendicazioni economiche nei confronti del Nord”. In questa cornice, i Non-Allineati si sono alleati con i paesi dell’America Latina, che - ad eccezione di Cuba - mai avrebbero potuto ipotizzare di opporsi all’egemonia degli Stati Uniti. Il gruppo dei 77 (ovvero tutto il Terzo Mondo) rispecchiava questa nuova, ampia alleanza del Sud. La lotta per un “Nuovo Ordinamento economico internazionale”, avviata nel 1975, dopo la guerra dell’ottobre 1973, nonché la revisione dei prezzi del petrolio, coronarono quest’evoluzione, per segnarne la fine.

Domanda: Quale fu la reazione delle forze dominanti del capitalismo mondiale? Risposta: Né sul piano politico, né su quello della battaglia economica, l’Occidente non aveva accettato spontaneamente lo spirito di Bandung ed il non-allineamento. Il vero odio che le potenze occidentali riserveranno ai dirigenti radicali del Terzo Mondo degli anni ‘60 (Nasser, Soekarno, Nkrumah, Modibo Keita), quasi tutti rovesciati nella stessa epoca, negli anni dal 1965 al 1968, periodo nel quale si colloca l’aggressione israeliana del giugno 1967 contro l’Egitto, la Siria e la Giordania, dimostra che la visione politica del non-allineamento non era accettata dalle potenze dell’alleanza atlantica. È dunque un gruppo non-allineato, indebolito politicamente che si trovava ad affrontare la crisi economica globale a partire dal 1970-1971. in questo contesto, il conflitto tra le forze dominanti del capitalismo mondiale e quelle che hanno animato il progetto di “sviluppo” di Bandung è stato più o meno radicale a seconda che lo statalismo messo in opera fosse considerato come se dovesse soppiantare il capitalismo o sostenerlo. L’ala radicale del movimento aderiva alla prima tesi, e, pertanto, entrava in conflitto con gli interessi immediati del capitalismo dominante, in particolare con le nazionalizzazioni e l’esclusione della proprietà straniera. L’ala moderata, invece, accettava di conciliare gli interessi in conflitto, offrendo con ciò possibilità più ampie all’accordo. Sul piano internazionale, questa distinzione sposava facilmente i termini del conflitto Est-Ovest tra il sovietismo ed il capitalismo occidentale.

Domanda: Come definire “l’ideologia dello sviluppo” nata da Bandung? Risposta: Ciò che si può chiamare oggi “l’ideologia dello sviluppo” - ora entrata in una crisi che gli sarà forse inevitabile - ha conosciuto il suo “momento d’oro” precisamente tra 1955 e 1975. L’economia politica del non-allineamento, benché spesso implicita e sfocata, può essere definita dagli elementi seguenti: 1) la volontà di sviluppare le forze produttive, di differenziare le produzioni, in particolare di industrializzare; 2) la volontà di assicurare allo Stato nazionale la direzione ed il controllo del processo; 3) l’idea che i modelli “tecnici” costituiscono dei dati “neutrali” che si possono soltanto riprodurre, fosse pure controllandoli; 4) la consapevolezza che il processo non implica in primo luogo l’iniziativa popolare, ma soltanto il sostegno popolare alle azioni dello Stato; 5) l’ipotesi che il processo non contraddica, fondamentalmente, la partecipazione agli scambi nell’ambito del sistema capitalistico mondiale, anche se comporta momentanei conflitti con quest’ultimo. Le circostanze dell’espansione capitalistica degli anni 1955-1970, fino ad un certo punto, hanno facilitato i successi di questo progetto.

Domanda: Quale bilancio si può trarre da quest’ideologia dello sviluppo? Risposta: Al termine dei quattro decenni dello sviluppo del dopo-guerra, il bilancio dei risultati è così fortemente contrastato che si è tentati a rinunciare all’espressione comune di “Terzo Mondo” per designare l’insieme dei paesi che sono stati oggetto delle politiche di sviluppo di questi decenni. Si oppone oggi, non senza ragione, un Terzo Mondo recentemente industrializzato, parzialmente competitivo - i paesi cosiddetti “emergenti” - al Quarto Mondo reso marginale - i paesi “esclusi”. L’obiettivo delle politiche di sviluppo applicate in Asia, Africa ed America L atina è stato rigorosamente identico nella sua essenza, nonostante le differenze del discorso ideologico che le ha accompagnate. Si è trattato, ovunque, di un progetto nazionalistico che si è assegnato l’obiettivo di accelerare la modernizzazione e l’arricchimento della società mediante la sua industrializzazione. Si comprende senza difficoltà questo denominatore comune se si ricorda semplicemente che nel 1945, praticamente tutti i paesi dell’Asia - eccetto il Giappone - , dell’Africa - compreso il Sudafrica - e - benché con alcune sfumature - dell’America Latina erano ancora privi di qualsiasi industria degna di questo nome - eccetto qualche estrazione mineraria qui o là - , in gran parte rurali per la composizione della loro popolazione, retti da regimi arcaici - le oligarchie latifondiste d’America, le monarchie sotto protettorato dell’Oriente islamico, la Cina, ecc. - o coloniali - l’Africa, l’India, il Sud-Est asiatico. Oltre la loro grande diversità, tutti i movimenti di liberazione nazionale si assegnavano gli stessi obiettivi d’indipendenza politica, di modernizzazione dello Stato, d’industrializzazione dell’economia.

Domanda: Ma tutti questi paesi hanno realmente tentato questo tipo di strategia di sviluppo? Risposta: Non sarebbe corretto dire che non tutti lo hanno tentato, appena sono stati in grado di farlo. Certamente, le alternative sono state praticamente tante quanti i paesi, e rimane legittimo, pertanto, tentare di classificarli in modelli che li raggruppino. Ma si rischia allora di essere vittime di criteri scelti in funzione, se non necessariamente di preferenze ideologiche, almeno dell’idea che ci si fa, o piuttosto che ci si faceva all’epoca, dell’andamento delle esperienze in questione, delle possibilità e dei vincoli esterni ed interni. Al contrario, mettendo l’accento sul denominatore comune che li riunì, invito a prendere qualche distanza da queste classificazioni e a guardare la storia a partire da oggi, a rileggere dunque ciò che è stata alla luce di ciò a cui ha condotto.

Domanda: L’industrializzazione era l’obiettivo prioritario di queste politiche di sviluppo? Risposta: Industrializzare implicava soprattutto costruire un mercato interno e proteggerlo dalle devastazioni della concorrenza che ne impediva la formazione. Le formule potevano variare secondo le circostanze - la dimensione del mercato interno, le disponibilità in risorse...- o anche secondo tesi più o meno teoriche, o ideologiche, che davano priorità alla produzione veloce di industrie leggere di consumo, o alla produzione di beni che avrebbero permesso in seguito di accelerare la prima, come proponeva la tesi delle “industrie che industrializzano” la quale razionalizzava le tesi sovietiche. L’obiettivo finale era identico. La tecnologia necessaria all’industrializzazione non poteva che essere importata, ma per farlo non era necessario accettare la proprietà degli impianti da costruire con il capitale straniero. Ciò dipendeva dal potere di negoziazione di cui si disponeva. Del capitale finanziario doveva dunque essere, a sua volta, sia invitato ad venire investito nel paese, sia preso in prestito. Di nuovo, la formula proprietà straniera privata-finanziamento pubblico assicurato grazie al risparmio nazionale, all’aiuto esterno in regali e crediti... poteva essere regolata sulla stima che si faceva dei mezzi e dei costi. Il fabbisogno di importazioni che questi piani d’accelerazione della crescita mediante l’industrializzazione implicavano inevitabilmente poteva essere soddisfatto, inizialmente, soltanto dalle esportazioni tradizionali conosciute, che si trattasse di prodotti agricoli o minerari. Era possibile. Nel contesto di una fase di crescita generale, come era il dopo-guerra, la domanda di quasi tutti i prodotti possibili era in continuo aumento, che si trattsse d’energia, di materie prime minerali o di specifici prodotti agricoli. I termini dello scambio fluttuavano, ma non annullavano sistematicamente, con il loro deterioramento, gli effetti della crescita dei volumi esportati. La modernizzazione, benché imperniata sull’industrializzazione, non si limitava a questa. L’urbanizzazione, i lavori d’infrastruttura, di trasporti e di comunicazioni, l’istruzione ed i servizi sociali si prefiggevano certamente, in parte, di servire l’industrializzazione in mezzi ed in mano d’opera adeguatamente qualificata. Ma questi obiettivi erano anche perseguiti per i loro propri fini, per costruire uno Stato nazionale e modernizzare i comportamenti, come si legge nel discorso del nazionalismo, all’epoca di natura quasi trans-etnica.

Domanda: L’intervento dello Stato era dunque considerato come assolutamente decisiva per lo sviluppo? Risposta: Naturalmente. All’epoca, non aveva seguito l’opposizione che si fa oggi così spesso tra “l’intervento dello Stato” - sempre negativo, perché essenzialmente in conflitto con ciò che si pretende sia la spontaneità del mercato - e “l’interesse privato” - associato alle tendenze spontanee del mercato -. Quest’opposizione non era nemmeno notata. Al contrario, il buon senso condiviso da tutti i poteri in carica vedeva nell’intervento dello Stato un elemento essenziale della costruzione del mercato e della modernizzazione. La sinistra radicale, nella sua lettura ideologica aspirante al socialismo, associava certamente l’espansione di questo statalismo all’espoprio graduale della proprietà privata. Ma la destra nazionalista, che non si prefiggeva quest’obiettivo, non era meno interventista e statalista: la costruzione degli interessi privati che proponeva esigeva, ed a giusto titolo, un statalismo vigoroso. E le futilità di cui si nutrono i discorsi oggi dominanti non avrebbero avuto alcuna eco all’epoca.

Domanda: Lo sviluppo perciò era sempre concepito in opposizione al capitalismo? Risposta: La tentazione è grande, oggi, di leggere questa storia come quella di una tappa dell’espansione del capitalismo mondiale, che avrebbe realizzato, più o meno bene, alcune funzioni attribuite all’iniziale accumulo nazionale, creando nello stesso tempo anche le condizioni della tappa seguente, nella quale si rientrerebbe oggi; tappa segnata dall’apertura al mercato mondiale ed alla concorrenza sul campo. Non proporrò di cedere a questa tentazione. Le forze dominanti nel capitalismo mondiale “non hanno spontaneamente creato il o i “modelli” dello sviluppo”. Questo “sviluppo” si è imposto ad esse. È stato il prodotto del movimento di liberazione nazionale del Terzo Mondo dell’epoca. La lettura che propongo mette dunque l’accento sulla contraddizione tra le tendenze spontanee ed immediate del sistema capitalistico, che sono sempre guidate dal solo calcolo finanziario a breve termine che caratterizza questa modalità di gestione sociale, e le visioni a più lungo termine, che animano le forze politiche ascendenti, in conflitto con le prime. Certamente, questo conflitto non è sempre radicale; il capitalismo vi si adatta, non è all’origine del suo movimento.

Domanda: Quale ruolo hanno giocato le borghesie nazionali in questi movimenti? Tutti i movimenti di liberazione nazionale sono stati ispirati dalle borghesie? Risposta: No. Tutti i movimenti di liberazione nazionale hanno condiviso questa visione modernista, ma anche capitalista e borghese. Ciò non implica in alcun modo che siano stati ispirati, ancora meno diretti, da una borghesia, nel senso pieno del termine. Questa non esisteva, o quasi, al momento delle indipendenze e, 30 anni più tardi, ancora non esiste che allo stato embrionale, nell’ipotesi più favorevole. Ma l’ideologia della modernizzazione, invece, esisteva veramente e costituiva la forza dominante che dava un senso alla sommossa dei popoli contro la colonizzazione. Quest’ideologia era portatrice di un progetto, che propongo di qualificare con il nome - curioso, a prima vista - di “capitalismo senza capitalisti”. “Capitalismo”, per la concezione che l’ideologia si faceva della modernizzazione, chiamata a riprodurre i rapporti di produzione e i rapporti sociali essenziali e propri del capitalismo: il rapporto salariale, la gestione dell’impresa, l’urbanizzazione, l’educazione gerarchizzata, il concetto di cittadinanza nazionale... Senza dubbio altri valori, caratteristici del capitalismo evoluto, come quello di democrazia politica, facevano crudelmente difetto, ciò che si giustificava con le esigenze dello sviluppo iniziale preliminare. Tutti i paesi della regione, radicali e moderati, optavano per la stessa formula del partito unico, delle elezioni-farsa, del leader-fondatore della patria, ecc... “Senza capitalisti”, nella misura in cui, in mancanza di una borghesia di imprenditori, lo Stato - ed i suoi tecnocrati - era chiamato a sostituirvisi; ma anche, a volte, nella misura in cui l’emergenza della borghesia era vista come sospetta, a causa della precdenza che questa avrebbe dato ai propri immediati interessi su quelli più a lungo termine in costruzione. Il sospetto diventava, nell’ala radicale del movimento di liberazione nazionale, sinonimo d’esclusione. Quest’ala radicale concepiva allora naturalmente che il suo progetto era quello della “costruzione del socialismo”. Ritrovava allora il discorso del sovietismo. Avendo fatto dell’obiettivo “di recuperare” il mondo occidentale sviluppato l’essenza delle sue preoccupazioni, questo progetto era riuscito, con la sua specifica dinamica, a costruire un “capitalismo senza capitalisti”.

Domanda: Quali erano le grandi tendenze in seno ai movimenti di liberazione nazionale? Risposta: I movimenti di liberazione nazionale si dividevano tra alcune tendenze alla radicalizzazione, detta “socialista”, e alcune tendenze alla moderazione. L’opposizione si fondava su un insieme complesso di cause, dove alcune sostenevano le classi sociali sulle quali si appoggiava il movimento - contadini, mondo urbano popolare, classi medie, classi favorite... -, e altre, le tradizioni della loro formazione politica ed organizzativa - partiti comunisti metropolitani, sindacati, Chiese...

Domanda: Se si considera il criterio del movimento di liberazione nazionale, cioè la “costruzione nazionale”, quali ne sono stati i risultati? Risposta: I risultati restano nell’insieme discutibili. La ragione è che mentre lo sviluppo del capitalismo, in precedenza, sosteneva l’integrazione nazionale, al contrario la mondializzazione in atto nelle periferie del sistema, disintegra le società. Ma l’ideologia del movimento nazionale ignorava questa contraddizione, essendo stata rinchiusa nel concetto borghese del “recupero di un ritardo storico” e concependo il recupero con la partecipazione alla divisione internazionale del lavoro - e non negandolo, attraverso lo scollegamento. Senza dubbio, secondo i caratteri specifici delle società pre-coloniali, pre-capitaliste, quest’effetto di disintegrazione è stato più o meno drammatico. In Africa, in cui la suddivisione coloniale artificiale non ha rispettato la storia anteriore dei suoi popoli, la disintegrazione prodotta dalla periferizzazione capitalistica ha permesso “all’etnia” di sopravvivere, nonostante gli sforzi della classe dirigente nata dalla liberazione nazionale, di superarne le manifestazioni. Quando la crisi si è verificata, annichilendo brutalmente la crescita del surplus che aveva permesso il finanziamento delle politiche trans-etniche del nuovo Stato, la classe dirigente stessa è esplosa in frazioni che avendo perso ogni legittimità fondata sulle realizzazioni dello “sviluppo”, hanno tentato di crearsi delle nuove basi, associate spesso ad un ripiegamento etnicistico.

Domanda: E se consideriamo il o i criteri del “socialismo”, quale bilancio possiamo trarne? Risposta: Se si prendono in considerazione i criteri del “socialismo”, i risultati sono ancor più contrastanti. Ben inteso, qui occorre spiegare quello che l’ideologia populista radicale intendeva per “socialismo”. Si trattava di una visione progressista, che metteva l’accento sulla massima mobilità sociale, la riduzione delle diseguaglianze dei redditi, una sorta di piena occupazione in zona urbana, in un certo qual modo un “Welfare State versione povera”. Da questo punto di vista, le realizzazioni di un paese come la Tanzania, ad esempio, offrono un contrasto sorprendente con quelle dello Zaire, della Costa d’Avorio o del Kenia, dove si sono accusate continuamente da 40 anni le diseguaglianze più estreme, tanto nei momenti di crescita economica forte che, successivamente, nel ristagno.

Domanda: E qual è la lettura secondo il criterio conforme alla logica dell’espansione capitalista, quello della capacità di essere competitivo sui mercati mondiali? Risposta: Da questo punto di vista, i risultati sono estremamente contrastanti ed oppongono brutalmente il gruppo dei principali paesi dell’Asia e dell’America Latina, divenuti esportatori industriali competitivi, a quello dell’insieme dei paesi africani, che restano confinati nell’esportazione di prodotti primari. I primi costituiscono il nuovo Terzo Mondo - la periferia di domani nella mia analisi -; i secondi, quelli che qualifichiamo ormai come “il Quarto Mondo” - che viene chiamato ad essere emarginato nella nuova tappa della mondializzazione capitalista. Il ventaglio dei progressi che sono stati compiuti nel quadro dei nazionalismi populisti di Bandung e del loro equivalente dell’America Latina è dunque allargato all’estremo. È impossibile parlare di questo aspetto principale senza prendere in considerazione, paese per paese, come tutti i fattori interni ed esterni hanno operato concretamente, sia per accelerare le realizzazioni, sia per rallentarle.

Domanda: Si può dire che oggi esiste sempre una solidarietà tra le popolazioni del Sud? Risposta: In questo momento sembra non esistere più, la solidarietà tra paesi del Sud, che si era espressa con forza da Bandung (1955) a Cancun (1981), tanto sul piano politico - con il non-allineamento - che sul piano economico - con le posizioni comuni adottate dai 77 nelle istanze dell’ONU, in particolare l’UNCTAD. L’integrazione dei paesi del Sud, messa in atto dal trio delle istituzioni internazionali che ne hanno l’incarico - OMC, la Banca mondiale ed il FMI - è senza dubbio responsabile in gran parte dell’indebolimento dei 77, della Tricontinentale - che non esiste più - e del Movimento dei Non-Allineati - che tuttavia dà segni di una possibile rinascita. All’origine di questa evoluzione vi è l’accentuarsi delle disuguaglianze dello sviluppo all’interno del Gruppo dei 77 con, da una parte l’emergere di paesi seriamente in via d’industrializzazione che hanno optato per operare sul mercato mondiale in concorrenza con i paesi della triade - Stati Uniti, Europa, Giappone - e nello stesso tempo con quelli del Sud che si collocano nello stesso gruppo; e dall’altra parte con i paesi alla deriva ormai qualificati Quarto Mondo.

Domanda: Dunque paesi del Sud non avrebbero più gli stessi interessi da difendere collettivamente? Risposta: È certamente vero per chi non guarda che il breve termine o le condizioni immediate che determinano i “vantaggi” che gli uni o gli altri possono trarre - o credono di poter trarre - della mondializzazione liberale. Non è vero nel lungo termine, non avendo il capitalismo reale grandi cose da offrire, né alle classi popolari del Sud, neanche alle nazioni di cui non permette il “recupero”, cioè la loro affermazione come partner uguali, in posizione analoga a quelli dei centri - la triade - nella forma del sistema mondiale. Ma è ancora una volta attraverso l’angolo visuale della politica che si avvia la presa di coscienza dell’esigenza di una solidarietà tra i paesi del Sud. L’arroganza degli Stati Uniti e l’attuazione del loro progetto di “controllo militare del pianeta” mediante la fabbricazione senza fine di guerre progettate e decise unilateralmente da Washington, sono all’origine della presa di posizione forte del recente vertice dei Non-Allineati, a Kuala Lumpur, nel febbraio 2003.

Domanda: Il vertice di Kuala Lumpur è stato una sorpresa per molti, ma si può interpretare come una vera rinascita di un fronte del Sud? Risposta: L’ultimo vertice dei Non-Allineati, a Kuala Lumpur, ha forse sorpreso alcune amminastrazioni addormentate, convinte che, nella nuova mondializzazione liberale, il Sud non contasse più. I paesi del Sud, sottoposti ai devastanti piani di aggiustamento strutturale, strozzati dai debiti, governati da borghesie compradores, non sembrano essere più in grado di chiamare in causa l’ordinamento capitalistico internazionale, come avevano tentato di fare tra il 1955 e il 1981. Sorpresa generale: i Non-Allineati condannano la strategia imperialista di Washington, il suo obiettivo smisurato e criminale di controllo militare del pianeta, la sua espansione attraverso la condotta di guerre “made in USA”. I paesi del Sud prendono coscienza che la gestione neo-liberale mondializzata non ha nulla da offrire loro e che, per questa ragione, è chiamata a ricorrere alla violenza militare per imporsi, facendo proprio così il gioco del progetto statunitense. Il Movimento diventa, come era stato suggerito, quello del non-allineamento sulla mondializzazione liberale ed l’egemonia degli Stati Uniti. Il crollo del “socialismo” sovietico, l’evoluzione nella quale la Cina si è impegnata, la deriva dei regimi populisti del Terzo Mondo, aveva fatto accettare la falsa idea secondo la quale non ci sarebbe “nessuna alternativa”; iscriversi nel quadro delle esigenze del neo-liberalismo mondializzato, stare al gioco e tentare di trarne qualche profitto, se possibile; nessuna alternativa. L’esperienza doveva smentire, da lì a qualche anno, le speranze ingenue messe in questa logica che si credeva “realistica”.

Domanda: Quali sarebbero le linee direttive di una grande alleanza sulla base della quale potrebbe essere ricostruita la solidarietà dei popoli e degli Stati del Sud? Risposta: Dalle posizioni prese da alcuni S tati del Sud e dalle idee che vanno nella stessa direzione, si possono vedere le linee direttive della rinascita possibile di un “fronte del Sud”. Queste posizioni riguardano tanto l’ambito politico che quello della gestione economica della mondializzazione. Sul piano politico, avviene attraverso la condanna del nuovo principio della politica degli Stati Uniti - “la guerra preventiva” - e l’esigenza di evacuazione di tutte le basi militari straniere in Asia, Africa e America Latina. La scelta da parte di Washington della sua zona di interventi militari, riguarda il Medio Oriente arabo - Iraq e Palestina (per quest’ultima, attraverso il sostegno incondizionato ad Israele) -, i Balcani - Jugoslavia, nuove installazioni degli Stati Uniti in Ungheria, Romania e Bulgaria -, l’Asia Centrale ed il Caucaso - Afganistan, Asia centrale e Caucaso ex-sovietici. Gli obiettivi perseguiti da Washington comportano vari aspetti: 1) la mano allungata sulle regioni petrolifere più importanti del globo e, con ciò, l’esercizio di pressioni che mirano a sottomettere l’Europa ed il Giappone allo stato di subalterni; 2) l’installazione di basi militari statunitensi permanenti nel cuore del Vecchio Mondo - l’Asia Centrale, ad uguale distanza da Parigi, Johannesburg, Mosca, Pechino, Singapore - e, così, la preparazione di altre “guerre preventive” da venire, che mirano in primo luogo ai grandi paesi suscettibili di imporsi come partner con i quali “occorre negoziare”: la Cina in primo luogo, ma anche la Russia e l’India. La realizzazione di quest’obiettivo implica la messa in atto, nei paesi della regione interessata, di regimi-fantoccio imposti dalle forze armate degli Stati Uniti. Da Pechino a Delhi e Mosca, si capisce sempre più che le guerre “made in USA” costituiscono in definitiva una minaccia diretta più contro la Cina, la Russia e l’India, che contro le loro vittime immediate, come l’ Iraq.

Domanda: Ritornare alla posizione che fu quella di Bandung - nessuna base militare statunitense in Asia ed in Africa -, è ormai all’ordine del giorno? Risposta: Completamente. Anche se, nelle attuali circostanze, i Non-Allineati hanno accettato il silenzio sulla questione dei protettorati statunitensi nel Golfo. I Non-Allineati qui hanno preso posizioni vicine a quelle che la Francia e la Germania hanno difeso al Consiglio di sicurezza, che contribuiscono così ad accentuare l’isolamento diplomatico e morale dell’aggressore. A sua volta il vertice franco-africano ha consolidato l’alleanza possibile che prende forma tra l’Europa ed il Sud. Poiché questo vertice, con la presenza degli Stati anglofoni del continente, non era quello dello “Francafrica”.

Domanda: E sul piano economico, quali sarebbero le linee direttive di un’alternativa? Risposta: Nell’ambito della gestione economica del sistema mondiale, si vedono prendere forma anche le linee direttive di un’alternativa che il Sud potrebbe difendere collettivamente, perché qui convergano gli interessi di tutti i paesi che lo costituiscono. Torna l’idea che i trasferimenti internazionali di capitali debbano essere controllati. In realtà l’apertura dei conti capitali, imposti dal FMI come un nuovo dogma del “liberalismo”, persegue un solo obiettivo: facilitare il trasferimento massiccio di capitali verso gli Stati Uniti per coprire il crescente deficit statunitense - il quale produce allo stesso tempo limiti nell’economia degli Stati Uniti e nella strategia di controllo militare del pianeta. Non c’è alcun interesse per i paesi del Sud a facilitare in tal modo l’emorragia dei loro capitali, ed eventualmente le devastazioni causate dalle incursioni speculative. D’un tratto, va rimessa in discussione la sottomissione a tutti i rischi del “cambio flessibile”, logicamente dedotta dalle esigenze di apertura dei conti capitali. Al loro posto, l’istituzione di sistemi di organizzazioni regionali che assicurino una stabilità relativa dei cambi meriterebbe di essere oggetto di ricerche e di dibattiti sistematici in seno ai Non-Allineati e ai 77. Del resto, nella crisi finanziaria asiatica del 1997, la Malesia prese l’iniziativa di ristabilire il controllo dei cambi, ed vinse la battaglia. Il FMI stesso è stato costretto a riconoscerlo.

Domanda: Ritorna anche l’idea di una regolazione degli investimenti stranieri? Risposta: Senza dubbio i paesi del Terzo Mondo non prevedono, come accadde in passato per alcuni di loro, di chiudere le loro porte ad ogni investimento estero. Al contrario, sono sollecitati gli investimenti diretti. Ma le modalità dell’accoglienza sono nuovamente oggetto di riflessioni critiche, alle quali alcuni ambienti governativi del Terzo Mondo non sono insensibili. In stretta relazione con questa regolamentazione, è ormai contestata la concezione dei diritti di proprietà intellettuale ed industriale che l’OMC vuole imporre. Si è compreso che questa concezione, lungi da favorire una concorrenza “trasparente” sui mercati aperti, mirava, al contrario, a rafforzare i monopoli delle transnazionali.

Domanda: In modo più particolare cosa ne è del settore agricolo, così importante per i paesi del Sud? Risposta: Su questo punto, molti fra i paesi del Sud si rendono nuovamente conto che non possono fare a meno di una politica nazionale di sviluppo agricolo, che tenga conto della necessità di proteggere la classe contadina dalle conseguenze devastatrici della loro disintegrazione accelerata per l’effetto della “nuova concorrenza” che l’OMC vuole promuovere in questo settore e di preservare allo stesso tempo la sicurezza alimentare nazionale. Infatti, l’apertura dei mercati di prodotti agricoli, che permette agli Stati Uniti, all’Europa ed ad alcuni rari paesi del Sud - alcuni del Sud America - di esportare le loro eccedenze nel Terzo Mondo, minaccia gli obiettivi di sicurezza alimentare nazionale senza contropartita, in quanto le produzioni dei contadini del Terzo Mondo incontrano difficoltà insormontabili sui mercati del Nord. Ma questa strategia liberale, che disintegra la classe contadina ed accentua l’emigrazione dalle campagne verso le bidonvilles urbane, provoca la ricomparsa di lotte contadine nel Sud, che preoccupa ormai il potere capitalista. La questione agricola è spesso discussa, in particolar modo nell’arena dell’OMC, nell’esclusiva prospettiva delle sovvenzioni concesse dall’Europa e dagli Stati Uniti, non soltanto alle produzioni dei loro agricoltori, ma anche alle loro esportazioni agricole. Questa focalizzazione sulla questione del commercio mondiale dei prodotti agricoli elimina di colpo le preoccupazioni principali che ho appena indicato. Essa comporta d’altra parte curiose ambiguità, poiché invita i paesi del Sud a difendere posizioni ancora più liberali di quelle adottate dai governi del Nord, col plauso della Banca Mondiale - ma quando mai la Banca Mondiale ha difeso gli interessi del Sud contro il Nord? Nulla impedisce di disconnettere le sovvenzioni accordate agli agricoltori dai loro governi - dopo tutto, se difendiamo il principio della ridistribuzione del reddito da noi, i paesi del Sud hanno anch’essi questo diritto! - da quelle destinate a sostenere il dumping delle esportazioni agricole del Nord. Domanda: Il debito, altro fattore fondamentale. Il debito non è economicamente insopportabile? Risposta: Il debito non è avvertito soltanto come economicamente insopportabile. La sua legittimità inizia ad essere messa in discussione. Prende forma una rivendicazione che si prefigge l’obiettivo di un unilaterale ripudio dei debiti odiosi ed illegittimi, come quello di avviare un diritto internazionale del debito - degno di questo nome -, che non esiste sempre. Una revisione generalizzata dei debiti permetterebbe infatti di fare apparire una percentuale significativa di debiti illegittimi, odiosi, ed a volte anche abietti. Ora, i soli interessi pagati a loro titolo hanno raggiunto volumi tali che l’esigenza - giuridicamente fondata - del loro rimborso annullerebbe in realtà il debito in corso, e farebbe apparire tutta quest’operazione come una forma veramente primitiva di saccheggio. Per arrivare a ciò, l’idea che i debiti esteri debbano essere controllati da una legislazione normale e civilizzata, sul modello dei debiti interni, deve essere oggetto di una campagna che si inserisca nella prospettiva di far progredire il diritto internazionale e di rafforzarne la legittimità. Com’è noto, è precisamente perché il diritto è muto in questo settore che la questione è regolata soltanto da rapporti selvaggi di forza. Questi rapporti permettono di far passare per legittimi debiti internazionali che, se fossero interni - il creditore e il debitore appartengono alla stessa nazione e dipendono dalla sua giustizia -, condurrebbero debitore e creditore dinanzi ai tribunali per “associazione a delinquere”.

Domanda: Tenuto conto delle nuove prospettive internazionali che sono state appena analizzate, sarebbe possibile un nuovo Bandung oggi? Risposta: Il sistema mondiale odierno è troppo diverso nelle sue strutture fondamentali da quello successivo del secondo dopoguerra perché un “remake” di Bandung possa essere previsto. I Non-Allineati erano collocati in un mondo militarmente bipolare, che proibiva con ciò, l’intervento brutale dei paesi imperialisti nei loro affari. D’altra parte, questo bipolarismo univa i partner dei centri capitalistici - Stati Uniti, Europa dell’Ovest e Giappone - in un unico gruppo. Il conflitto politico ed economico per la liberazione e lo sviluppo opponeva dunque l’Asia e l’Africa ad un gruppo imperialista unificato. In queste condizioni, i concetti di “sviluppo autocentrato” e “disconnessione”, e “distacco” e le strategie che ispiravano, rispondevano a questa sfida. Il mondo d’oggi è militarmente unipolare. Simultaneamente, delle fratture sembrano prendere forma tra gli Stati Uniti ed alcuni paesi europei riguardo alla gestione politica di un sistema mondializzato ormai allineato nell’insieme sui principi del liberalismo, almeno in linea di massima. La questione sarebbe di sapere se queste fratture siano soltanto congiunturali e di portata limitata, o se annunciano cambiamenti duraturi. Le ipotesi sulle quali sono fondate le proposte di strategia concepite in questo spirito devono essere chiarite, in modo da facilitare la discussione della loro eventuale validità.

Domanda: Lei sostiene che l’imperialismo sia diventato ormai un imperialismo collettivo, quello della triade? Risposta: Sì. Nel corso delle fasi precedenti dell’espansione della mondializzazione capitalista, i centri si coniugavano sempre al plurale. Questi ultimi intrattenevano tra loro relazioni di concorrenza violenta permanente, a tal punto che il conflitto degli imperialismi occupava un posto centrale sulla scena della storia. Il ritorno al liberalismo mondializzato, a partire dal 1980, obbliga a ripensare la questione della struttura del centro contemporaneo del sistema. Poiché, almeno sul piano della gestione della mondializzazione economica liberale, gli Stati della triade centrale costituiscono un blocco apparentemente solido. L’inevitabile domanda alla quale bisogna rispondere è quindi quella di sapere se le evoluzioni in questione traducano un cambiamento qualitativo duraturo - il centro non coniugandosi più al plurale, ma che diventa definitivamente “collettivo” -, o se sono soltanto congiunturali. Si potrebbe attribuire quest’evoluzione alle trasformazioni delle condizioni della concorrenza. Ancora alcuni decenni fa, le grandi aziende ingaggiavano le loro battaglie concorrenziali essenzialmente sui mercati nazionali, che si trattasse di quelli degli Stati Uniti, il più grande mercato nazionale del mondo, o anche su quelli degli Stati europei, nonostante la loro dimensione modesta, che li svantaggiava rispetto agli Stati Uniti. I vincitori dei “match” nazionali potevano collocarsi in buona posizione sul mercato mondiale. Oggi, la dimensione del mercato necessaria per prevalere, nelle prime serie di match, va dai 500 ai 600 milioni di “consumatori potenziali”. La battaglia dunque deve essere ingaggiata di primo acchito sul mercato mondiale, e vinta su questo terreno. E sono coloro che vincono su questo mercato che riescono allora e per di più, ad imporsi sui loro rispettivi terreni nazionali. La mondializzazione approfondita diventa la cornice principale dell’attività delle grandi aziende. In altre parole, nella coppia nazionale/mondiale, i termini della causalità sono invertiti: precedentemente, la potenza nazionale comandava la presenza mondiale; oggi, è l’inverso. Pertanto, le ditte transnazionali, indipendentemente dalla loro nazionalità, hanno interessi comuni nella gestione del mercato mondiale. Questi interessi si sovrappongono ai conflitti permanenti e mercantili, che definiscono tutte le forme della concorrenza proprie del capitalismo, qualunque esse siano.

Domanda: In questo sistema di imperialismo collettivo, gli Stati Uniti dispongono realmente di vantaggi economici decisivi? Risposta: No. L’opinione corrente è che la potenza militare degli Stati Uniti non costituisca che la punta dell’iceberg, estendendo la superiorità di questo paese in tutti i settori, particolarmente in quelli economici, e perfino politici e culturali. La sottomissione all’egemonia che pretende di avere sarebbe dunque inevitabile. Effettivamente, il sistema produttivo degli Stati Uniti è lungi dall’essere “il più efficiente del mondo”. Al contrario, quasi nessuno dei suoi segmenti sarebbe certo di vincere sui suoi concorrenti in un mercato veramente aperto, come lo immaginano gli economisti liberali. Lo testimonia il deficit commerciale degli Stati Uniti, che peggiora di anno in anno, che è passato da 100 miliardi di dollari nel 1989 a 450 miliardi di dollari nel 2000. Inoltre, questo deficit riguarda praticamente tutti i segmenti del sistema produttivo. Anche l’eccedenza di cui beneficiavano gli Stati Uniti nell’ambito dei beni di alta tecnologia, che era di 35 miliardi nel 1990, ha lasciato ormai il posto ad un deficit. La concorrenza tra Ariane ed i razzi della Nasa, o tra Airbus e Boeing, testimonia la vulnerabilità del vantaggio statunitense. Di fronte all’Europa e al Giappone per le produzioni di alta tecnologia, di fronte alla Cina, alla Corea e agli altri paesi industrializzati dell’Asia e dell’America Latina per i prodotti manifatturieri comuni, di fronte all’Europa ed al Sud dell’America Latina per l’agricoltura, gli Stati Uniti non prevarrebbero probabilmente senza il ricorso a mezzi “extra-economici”, che violano i principi del liberalismo imposti ai concorrenti! In realtà, gli Stati Uniti beneficiano di vantaggi comparativi soltanto nel settore degli armamenti, precisamente perché quest’ultimo sfugge in gran parte alle regole del mercato e beneficia del sostegno dello Stato. Certamente questo vantaggio comporta alcune ripercussioni nel settore civile - Internet costituisce l’esempio più conosciuto -, ma è anche all’origine di serie distorsioni, che costituiscono degli handicap per molti settori produttivi.

Domanda: Questo significa che l’economia statunitense “vive da parassita” a scapito dei suoi partner nel sistema mondiale? Risposta: Assolutamente. Gli Stati Uniti dipendono per il 10% del loro consumo industriale da beni di cui l’importazione non è bilanciata da esportazioni di prodotti nazionali. Il mondo produce, gli Stati Uniti - il cui risparmio nazionale è praticamente nullo - consumano. Il “vantaggio” degli Stati Uniti è quello di un predatore il cui il deficit è coperto dal contributo degli altri, concesso o forzoso. I mezzi messi in opera da Washington per compensare le proprie mancanze sono di varia natura: reiterate violazioni unilaterali dei principi del liberalismo; esportazioni di armi; ricerca di sovraprofitti petroliferi, che presuppongono lo sfruttamento sistematico ed organizzato dei produttori, motivo reale delle guerre dell’Asia Centrale e dell’Iraq. Resta il fatto che l’essenziale del deficit statunitense è coperto dai contributi in capitali provenienti dall’Europa e dal Giappone, dal Sud - paesi petroliferi ricchi e classi compradores di tutti i paesi del Terzo Mondo, inclusi i più poveri-, ai quali si aggiunge il prelievo esercitato a titolo di servizio del debito imposto alla quasi totalità dei paesi della periferia del sistema mondiale. La solidarietà dei segmenti dominanti del capitale transnazionalizzato di tutti i partner della triade è reale, e si esprime con la loro adesione al neo-liberalismo globalizzato. Gli Stati Uniti sono visti in questa prospettiva come i difensori - soldati se necessario - di questi “interessi comuni”. Il fatto è che Washington non intende “condividere equamente” i profitti della sua leadership. Gli Stati Uniti si occupano al contrario di asservire i loro alleati e, in questo spirito, sono pronti a concedere ai loro alleati subalterni della triade soltanto delle concessioni secondarie.

Domanda: Questi conflitti di interessi del capitale dominante sono destinati ad accentuarsi al punto di causare una rottura nell’alleanza atlantica? Risposta: Non impossibile, ma poco probabile. La mia ipotesi è che il progetto di controllo militare del pianeta sia destinato a compensare le mancanze dell’economia degli Stati Uniti. Questo progetto minaccia tutti i popoli del Terzo Mondo. Quest’ipotesi deriva logicamente da ciò che precede. La decisione strategica di Washington di trarre profitto dalla loro schiacciante superiorità militare e, in questa prospettiva, di ricorrere a “guerre preventive” decise e progettate da loro soltanto, mira a distruggere ogni speranza di una “grande nazione” - come la Cina, l’India, la Russia, il Brasile - o di una coalizione regionale nel Terzo Mondo di accedere allo statuto di partner effettivo nella forma del sistema mondiale, foss’anche capitalista.

Domanda: Ma l’opzione statunitense di una militarizzazione della mondializzazione non colpisce in pieno gli interessi dell’Europa e del Giappone? Risposta: L’obiettivo degli Stati Uniti, la lunga mano dei mezzi militari su tutte le risorse decisive del pianeta - il petrolio in particolare -, mira a porre i partner europei e giapponesi in una condizione di vassallallaggio. Le guerre statunitensi del petrolio sono guerre “anti-europee”. L’Europa - come il Giappone - può rispondere parzialmente a questa strategia con un riavvicinamento alla Russia, capace in parte di fornirle il petrolio ed qualche altra materia prima essenziale.

Domanda: È per questo che lei pensa che l’Europa debba “liberarsi dal virus liberale”? Risposta: Assolutamente, l’Europa deve e può liberarsi dal virus liberale. Tuttavia, quest’iniziativa non può venire dai segmenti del capitale dominante, ma dai popoli. I segmenti dominanti del capitale, di cui i governi europei credono tutt’oggi di dover difendere gli interessi con assoluta priorità, sono naturalmente i difensori del neo-liberalismo mondializzato e, pertanto, accettano di pagare il prezzo della loro sottomissione al leader nordamericano. I popoli di tutta l’Europa hanno una visione diversa rispetto al progetto europeo, che vorrebbero sociale, e delle loro relazioni con il resto del mondo, che vorrebbero vedere gestite dal diritto e dalla giustizia, come espresso nel momento attuale dalla condanna - a maggioranza schiacciante - della deriva degli Stati Uniti. Se questa cultura politica umanista e democratica della “vecchia Europa” prevale - ed è possibile -, allora un ravvicinamento autentica tra l’Europa, la Russia, la Cina, tutta l’Asia e tutta l’Africa costituirà il fondamento sulla base del quale potrà essere costruito un mondo pluricentrico, democratico e pacifico.

Domanda: Ciò vuol dire che la contraddizione principale tra l’Europa e gli Stati Uniti non è quella che opporrebbe, qui e là, gli interessi del capitale dominante, ma che si collocherebbe sul terreno delle “culture politiche”? Risposta: Il conflitto immediatamente futuro si colloca infatti su questo terreno, quello delle culture politiche. In Europa, un’alternativa di sinistra rimane sempre possibile. Quest’alternativa imporrebbe simultaneamente una rottura con il neo-liberalismo - e l’abbandono della vana speranza di sottomettere gli Stati Uniti alle sue esigenze, permettendo così al capitale europeo di dare battaglia sul terreno non minato della conmpetizione economica -, con l’allineamento alle strategie politiche degli Stati Uniti. L’eccedenza di capitali che l’Europa si è accontentata fino ad oggi “mettere” negli Stati Uniti potrebbe allora essere destinata ad un rilancio economico e sociale, altrimenti questo resterà impossibile. Ma, dal momento che l’Europa sceglierebbe, con questo mezzo, di dare la precedenza al suo sviluppo economico e sociale, la salute artificiale dell’economia degli Stati Uniti crollerebbe, e la classe dirigente statunitense si confronterebbe con i suoi problemi sociali. Questo è il senso che dò al mio discorso: “l’Europa sarà di sinistra o non sarà”.

Questione: Ma come arrivare a questa Europa di sinistra? Risposta: Per arrivarci, occorre che gli europei si sbarazzino dell’illusione che la carta del liberalismo dovrebbe - e potrebbe - essere giocata “onestamente” da tutti, e che in questo caso tutto andrebbe meglio. Gli Stati Uniti non possono rinunciare alla loro scelta a favore di una pratica asimmetrica del liberalismo, perché questo è il solo mezzo, hanno detto, di compensare le loro mancanze. La “prosperità” statunitense ha come prezzo il ristagno degli altri. La “questione europea” trova qui il suo posto. A tale riguardo, non si può ignorare l’importanza, di una discussione profonda di ciò che chiamo le “sabbie mobili del progetto europeo”. Le “culture politiche” europee sono varie, anche se, in una certa misura, sono in contrasto con quella degli Stati Uniti. Ci sono in Europa forze politiche, sociali ed ideologiche che sostengono, sovente con lucidità, la visione “di un’altra Europa” - sociale ed amichevole nelle sue relazioni con il Sud. Ma c’è anche la Gran Bretagna, che dal 1945 ha fatto la scelta storica di un’incondizionato schieramento con gli Stati Uniti. Ci sono le forze politiche delle classi dirigenti dell’Europa dell’Est, plasmate dalla “cultura della servitù”, inginocchiate ieri dinanzi a Hitler, quindi davanti a Stalin, oggi dinanzi a Bush. Ci sono populismi di destra - stile i nostalgici del franchismo in Spagna e del mussolinismo in Italia -, “pro-americani”. Le questioni importanti allora sono di sapere se il conflitto tra queste culture farà o no scoppiare l’Europa, se si concluderà con un allineamento con Washington o con la vittoria delle culture umaniste e democratiche avanzate.

Domanda: Per ritornare al Sud, come ricostruire un vasto fronte anti-imperialista tra i paesi del Sud? Risposta: La ricostruzione di un solido fronte del Sud implica la partecipazione dei suoi popoli. I regimi politici in carica in molti paesi del Sud non sono democratici, e questo è il minimo che si possa dire, e a volte francamente odiosi. Queste autoritarie strutture di potere favoriscono le frazioni compradores, i cui interessi sono legati all’espansione del capitalismo imperialista globale. L’alternativa - la costruzione di un fronte dei popoli del Sud - passa per la democratizzazione. Questa necessaria democratizzazione sarà lunga e difficile. Ma il suo cammino non passa certamente per l’instaurazione di regimi-fantoccio che consegnano le risorse dei loro paesi al saccheggio delle transnazionali statunitensi; regimi, di fatto, ancora più fragili, meno credibili e meno legittimi ai quali si sostituirebbero con la protezione dell’invasore statunitense. D’altra parte, l’obiettivo degli Stati Uniti non è di promuovere la democrazia nel mondo, nonostante i suoi discorsi d’ipocrisia pura in materia.

Domanda: È possibile un nuovo internationalismo dei popoli che associ europei, asiatici, africani e latino-americani? Risposta: Sì, assolutamente. Le condizioni che permetterebbero un riavvicinamento, almeno di tutti i popoli del vecchio mondo, esistono. Questo ravvicinamento si cristallizzerebbe, sul piano della diplomazia internazionale, dando consistenza all’asse Parigi-Berlino-Mosca-Pechino, rafforzato dallo sviluppo di relazioni amichevoli tra questo asse ed il fronte afro-asiatico ricostituito. Va da sé che degli avanzamenti in questa direzione ridurrebbero a nulla l’ambizione smisurata e criminale degli Stati Uniti. Questi sarebbero allora costretti ad accettare la coesistenza con nazioni decise a difendere i loro interessi personali. Nel momento attuale, quest’obiettivo deve essere considerato prioritario in modo assoluto. L’espansione del progetto statunitense determina la sfida di tutte le lotte: nessuno progresso sociale e democratico sarà duraturo finché questo progetto degli Stati Uniti non sarà distrutto.

Domanda: Le questioni relative alla diversità culturale non dovrebbero essere discusse nella cornice di queste nuove prospettive internazionali? Risposta: La diversità culturale è un fatto, ma un fatto complesso ed ambiguo. Le diversità ereditate dal passato, per legittime che possano essere, non sono necessariamente sinonimo della diversità nella costruzione del futuro che occorre, non soltanto ammettere, ma ricercare. Convocare le sole diversità ereditate dal passato - islam politico, hindutva, confucianismo, negritudine, etnicismo sciovinista... - costituisce spesso un esercizio demagogico dei poteri autocrati e compradores, che allo stesso tempo, permette loro di eliminare la sfida che rappresenta l’universalizzazione della civilizzazione e di sottoporsi in realtà al diktat del capitale transnazionale dominante. D’altra parte, l’esclusiva insistenza su queste eredità divide il Terzo Mondo, opponendo islam politico ed hindutva in Asia, musulmani, cristiani e praticanti di altre religioni in Africa... La rifondazione di un fronte politico collegato del Sud è il mezzo per superare queste divisioni sostenute dall’imperialismo statunitense. Quello che sono e possono essere i “valori universali” sulla base dei quali si può costruire l’avvenire, come il modo di far avanzare concetti autenticamente universali, arricchiti dal contributo di tutti, ecco altrettante discussioni che non potranno essere ignorate - ma si bisogna respingere un’interpretazione occidental-centrica e restrittiva di tali valori, che legittima lo sviluppo disuguale, prodotto immanente dell’espansione capitalistica mondializzata di ieri e di oggi.

Domanda: Il Sud, come può liberarsi dalle illusioni liberali ed impegnarsi in rinnovate forme di sviluppo autocentrato? Risposta: Senza dubbio, per ora, alcuni governi del Sud sembrano ancora battersi per un neo-liberalismo “vero”, i cui i partner del Nord, come quelli del Sud, accetterebbero “stare al gioco”. I paesi del Sud potranno soltanto constatare che questa speranza è completamente illusoria. Occorrerà loro ritornare all’idea inevitabile che qualsiasi sviluppo è necessariamente centrato su sé stesso. Svilupparsi, è anzitutto definire obiettivi nazionali che permettano la modernizzazione dei sistemi produttivi e, allo stesso tempo, la creazione di condizioni interne che la mettano al servizio del progresso sociale, successivamente, è sottomettere alle esigenze di questa logica, le modalità delle relazioni della nazione con i centri capitalistici. Questa definizione del “distacco” - la mia, che non è “autarchia” - pone il concetto agli antipodi del principio opposto - quello liberalista - di “adeguamento strutturale” alle esigenze della mondializzazione, che viene inevitabilmente sottomessa agli imperativi esclusivi dell’espansione del capitale transnazionale dominante, che approfondiscono le diseguaglianze su scala mondiale. Domanda: Ciò significa che, per i paesi del Sud, la scelta di uno sviluppo autocentrato rimane inevitabile? Risposta: Lo sviluppo autocentrato - in inglese: self-reliant - ha costituito, storicamente, il carattere specifico del processo d’accumulazione del capitale nei centri capitalistici ed ha determinato le modalità dello sviluppo economico che ne sono risultate; cioè è comandato soprattutto dalla dinamica delle relazioni sociali interne, rafforzata dalle relazioni esterne messe al suo servizio. Nelle periferie, invece, il processo di accumulazione del capitale è derivato soprattutto dall’evoluzione dei centri, sulla quale è si innestato, dipendendone. Lo sviluppo autocentrato suppone dunque ciò che si può chiamare la gestione delle cinque condizioni essenziali dell’accumulazione: 1) la gestione locale della riproduzione della forza lavoro, cosa che suppone, in una prima fase, che la politica dello Stato garantisca uno sviluppo agricolo capace di liberare eccedenze alimentari in quantità sufficienti e a prezzi compatibili con le esigenze della redditività del capitale, e, in una seconda fase, che una massiccia produzione di beni salariali possa seguire simultaneamente l’espansione del capitale e quella della massa salariale; 2) la gestione della centralizzazione del surplus, cosa che suppone, non soltanto l’esistenza formale di istituzioni finanziarie nazionali, ma anche la loro autonomia relativa rispetto ai flussi del capitale transnazionale, che garantisce la capacità nazionale di orientarne l’investimento; 3) la gestione locale del mercato, in realtà ampiamente riservato alla produzione nazionale, anche in assenza di forti protezioni tariffarie o altra natura, e la capacità complementare di essere competitivo sul mercato mondiale, almeno in modo selettivo; 4) la gestione locale delle risorse naturali, che suppone, oltre alla loro proprietà formale, la capacità dello Stato nazionale di sfruttarle o conservarle in riserva - i paesi petroliferi, non hanno questa gestione poiché non sono liberi, in realtà, “di chiudere il rubinetto”, anche preferendo tenere questo petrolio nel loro scantinato invece di possedere beni finanziari dei quali potrebbero venire espropriati in qualsiasi momento -; ed infine 5) la gestione locale delle tecnologie, nel senso che, inventate localmente o importate, queste possano essere riprodotte rapidamente senza che si sia costretti di importarne gli input essenziali - attrezzature, “know-how”, ecc..

Domanda: Il dibattito sullo sviluppo autocentrato oltrepassa dunque quello che oppone strategie di sostituzione di importazioni a strategie orientate verso l’esportazione? Risposta: Completamente. Il concetto di sviluppo autocentrato, al quale si potrebbe opporre il concetto antinomico di sviluppo “dipendente”, prodotto dall’adeguamento unilaterale alle tendenze dominanti che reggono l’estensione del capitalismo su scala mondiale, non è riducibile all’antinomia strategie di sostituzione di importazioni/strategie orientate verso l’esportazione. Quest’ultimi due concetti provengono dall’economia “volgare”, la quale ignora che le strategie economiche sono sempre messe in atto da blocchi sociali egemonici, attraverso i quali si esprimono gli interessi che dominano la società del momento. D’altra parte, anche nel quadro dell’economia “volgare”, tutte le strategie messe in atto nel mondo reale combinano la sostituzione di importazioni e l’orientamento esportatore, in proporzioni variabili secondo le congiunture del momento. La dinamica del modello dello sviluppo autocentrato è fondata su un’articolazione principale: un’articolazione che mette in stretta relazione d’interdipendenza la crescita della produzione di beni di produzione e quella della produzione di beni di consumo di massa. Le economie autocentrate non sono chiuse su loro stesse; al contrario, sono aggressivamente aperte nel senso che plasmano, con il loro potenziale d’esportazione, il sistema mondiale nella sua globalità. A quest’articolazione corrisponde un rapporto sociale i cui i termini principali sono costituiti dai due blocchi fondamentali del sistema: la borghesia nazionale ed il mondo del lavoro. La dinamica del capitalismo periferico - l’antinomia del capitalismo centrale per definizione autocentrato - si basa invece su un’altra articolazione principale, che mette in relazione la capacità d’esportazione, da un lato, e da l’altro, il consumo di una minoranza - importato o prodotto localmente con sostituzione di importazioni -. Questo modello definisce la natura compradora - in opposizione a quella nazionale - delle borghesie della periferia.

Domanda: Ma una lettura critica dei tentativi storici di sviluppi autocentrati, popolari o socialisti, non si impone ugualmente? Risposta: Da tre quarti di secolo, la questione dello sviluppo autocentrato e della “disconnessione” o “distacco” è posta praticamente da tutte le grandi rivoluzioni popolari contro il capitalismo realmente esistente: nelle rivoluzioni socialiste russe e cinesi, come nei movimenti di liberazione dei popoli del Terzo Mondo. Ciò essendo, le risposte storiche che sono state date a quest’interrogativo, in stretto rapporto con quelle che sono state date a tutti gli altri aspetti della problematica dello sviluppo delle forze produttive, della liberazione nazionale, del progresso sociale, della democratizzazione della società... devono essere oggetto di una lettura critica permanente, che trae lezioni dai loro successi e dai loro fallimenti. Allo stesso tempo, e poiché il capitalismo si trasforma, evolve e si adatta in modo permanente alle sfide che le rivolte dei popoli rappresentano, le condizioni ed i termini nei quali si pongono queste questioni sono oggetto di un’evoluzione permanente. Sviluppo autocentrato e “disconnessione” non saprebbero mai ridursi a formule pronte, valide per tutte le situazioni e tutti i momenti dell’evoluzione storica. Questi concetti devono essere riconsiderati in funzione delle lezioni della storia e dell’evoluzione della mondializzazione capitalista. La lunga onda di liberazione nazionale che ha spazzato il Terzo Mondo nel secondo dopoguerra si è conclusa con la costituzione di nuovi poteri di Stato stabiliti principalmente sulle borghesie nazionali che hanno controllato, a gradi diversi, i movimenti di liberazione nazionale. Queste borghesie hanno prodotto dei progetti di “sviluppo” - una vera “ideologia dello sviluppo”, come si è detto -; progetti concepiti come strategie di modernizzazione miranti ad assicurare “l’indipendenza nell’interdipendenza mondiale”. Queste strategie non prevedevano dunque interruzioni nel vero senso del termine, ma soltanto un adattamento attivo al sistema mondiale, una scelta che, con altre, esprime bene la natura borghese nazionale dei progetti in questione. La storia doveva dimostrare il carattere utopistico del progetto, che, dopo essersi espanso con successo, apparentemente, tra il 1955 ed il 1975, si è sgonfiato, conducendo alla recompradorizzazione delle economie e delle società della periferia, per mezzo di politiche dette di “apertura”, di privatizzazione e d’adeguamento strutturale unilaterale ai vincoli della mondializzazione capitalistica. Invece, le esperienze cosiddette del “socialismo realmente esistente”, in URSS ed in Cina, si erano effettivamente disconnesse, nel senso che diamo a questo termine, e, in questo spirito, avevano costruito un sistema di criteri di scelta economica indipendente da quello imposto dalla logica dell’espansione capitalistica mondiale. Questa scelta, come altre che la accompagnavano, traduce l’origine autenticamente socialista delle intenzioni delle forze politiche e sociali all’origine delle rivoluzioni in questione. Tuttavia, messi a confronto con le scelte tra l’obiettivo “di recuperare a ogni costo” attraverso uno sviluppo delle forze produttive che regge l’adozione di sistemi d’organizzazione sul modello di quelli messi in campo nei centri capitalistici, e quello “di costruire un’altra società” - Socialista -, le società sovietica e cinese hanno gradualmente dato la precedenza al primo termine dell’alternativa, al punto da svuotare il secondo di ogni contenuto reale.

Questione: C’è stata la formazione di una nuova borghesia? Risposta: In effetti, quest’evoluzione, prodotto della dinamica sociale, era accompagnata dalla formazione progressiva di una nuova borghesia. La storia ha dimostrato il carattere utopistico di questo progetto che si pretendeva “socialista”; in realtà, di costruzione di un “capitalismo (di Stato) senza capitalisti” - la nuova borghesia che aspira ad uno statuto “normale”, analogo a quello che ha nel mondo capitalista. Allo stesso tempo, e molto logicamente, la nuova borghesia ha messo fine alla “disconnessione”, al “distacco”. Il problema del ritardo storico dei paesi in questione non ne è tuttavia regolato; tutto al contrario, il ristabilirsi di un capitalismo normale integrato al sistema mondiale conduce direttamente alla “riperiferizzazione” delle società in questione. L’erosione ed il fallimento dei progetti di sviluppo dei paesi del Terzo Mondo e del sovietismo - il cosiddetto “socialismo reale” -, unito all’approfondimento della mondializzazione capitalistica nei centri dominanti dell’Occidente, hanno aperto la strada al discorso unilaterale dominante, che propone l’iscrizione nella mondializzazione capitalistica come una scelta “senza alternativa”. Qui si tratta di un’utopia reazionaria, poiché la sottomissione agli imperativi dell’espansione del mercato mondiale non permette di oltrepassare la mondializzazione - polarizzante. Lo sviluppo e la “disconnessione” restano dunque la risposta inevitabile alla sfida della nuova tappa di mondializzazione capitalista.

Questione: Le caratteristiche della nuova tappa d’espansione capitalista che prende forma non aboliscono dunque le esigenze di opzioni autocentrate e disconnesse. Ma l’adesione della grande maggioranza delle classi dirigenti del mondo al progetto di globalizzazione neo-liberale non è l’indicatore che non ci sono più “capitali nazionali”, e quindi borghesie nazionali, e che la dimensione dominante del capitale, più dinamica, è già transnazionale, o “globalizzata”? Risposta: Questa tesi, presentata in una letteratura abbondante sull’argomento, è al centro di controversie. In ogni modo, anche se così fosse, il capitale transnazionale in questione resterebbe appannaggio della triade, che esclude dal suo club chiuso i paesi dell’Est e del Sud. Qui, non avremmo a che fare che con delle borghesie compradores, vale a dire con delle catene di trasmissione del dominio del capitale sopranazionale della triade. È esattamente quello che succede attualmente; e quest’immagine si impone ovviamente in molti paesi, se non tutti. Ma ancora una volta, è questo l’indicatore di una trasformazione duratura? In questo caso, il “mondo nuovo” sarebbe soltanto una tappa nuova di un’antica espansione imperialista, cioè polarizzante ad un grado ancora più violento di quanto non lo fosse nelle tappe precedenti. Questo sarà accettabile ed accettato, non solo dalle classi dominate che sarebbero vittime di un massiccio, aggravato impoverimento, ma anche dalle frazioni delle classi dirigenti o di forze sociali e politiche che aspirano a diventarlo? Siamo entrati in una fase nuova della mondializzazione capitalistica e, pertanto, la polarizzazione si manifesta in forme ed attraverso meccanismi nuovi. La polarizzazione si è manifestata a lungo, nel contrasto paesi industrializzati - paesi non industrializzati. L’industrializzazione delle periferie, benché molto disuguale, trasferisce il conflitto a nuovi piani: il controllo della tecnologia, delle finanze, delle risorse naturali del pianeta, delle comunicazioni, degli armamenti. Rinunciare alla costruzione di un’economia autocentrata, per sostituirvi la creazione prioritaria di segmenti altamente efficaci, capaci al primo colpo di essere competitivi sul mercato mondiale - come propone la nuova espressione della vecchia teoria della modernizzazione -, fare questa scelta, sarebbe perpetuare il contrasto tra questi segmenti modernizzati, che catturano tutte le risorse locali, e delle riserve inassorbibili mantenute nella povertà.

Domanda: Quali sarebbero allora le condizioni di uno sviluppo degno di questo nome? Risposta: Uno sviluppo degno di questo nome esige una trasformazione profonda e diffusa che permetta, alla rivoluzione agricola di trovare la sua strada, ad una rete densa di piccole industrie e di città secondarie di svolgere funzioni insostituibili nel sostegno del progresso generale della società. Certamente, le scelte concrete di tappe che si iscrivono in questa prospettiva generale dipendono dall’esito delle lotte sociali, ed implicano il successo di alleanze nazionali, popolari e democratiche, capaci di uscire dalla carreggiata della “compradorizzazione”. Nell’attuazione concreta delle politiche di tappa, alcuni concetti di efficacia sociale devono essere gradualmente sviluppati, sostituendosi al concetto capitalista di “competitività”. Simultaneamente, la prospettiva a lungo termine dell’universalismo planetario non può essere persa di vista. Prepararla esige una certa apertura esterna - l’importazione rigorosamente scelta di tecnologie -, che deve essere controllata per quanto possibile per metterla al servizio del progresso generale e non fargli da ostacolo. L’evoluzione globale impone qui la costruzione di grandi insiemi regionali, particolarmente negli spazi periferici, ma anche altrove, come in Europa, e la messa in atto preferenziale e prioritaria, in questi contesti, dei mezzi per preparare la modernizzazione su scala mondiale e trasformare la natura, liberandola gradualmente dai criteri del capitalismo. Questa costruzione esige a sua volta che si superino i limiti ristretti degli accordi strettamente economici per iniziare la costruzione di grandi Comunità politiche, basi di un mondo pluricentrico. Naturalmente, le formulazioni dello sviluppo autocentrato e della “disconnessione” su questa scala implicano l’articolazione negoziata delle relazioni tra le grandi regioni considerate, tanto sul piano degli scambi e della determinazione dei loro termini, del controllo e dell’utilizzazione delle risorse, che in quello delle finanze e della sicurezza politica e militare. Questo imporrebbe dunque una ricostruzione del sistema politico internazionale, che si libera dall’egemonia, per impegnarsi nella via del pluricentrismo.

Note

* Direttore del Forum del Terzo Mondo (Dakar) e del Forum Mondiale delle Alternative.

** Ricercatore del CNRS e prof. all’Università di Parigi 1 Panthéon-Sorbonne.