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La società del rischio.

BIAGIO BORRETTI

Carovita, precarietà ed espansione della povertà

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1. Carovita? È pura percezione! Anzi no: è reale!

Negli ultimi anni si è fatto tanto parlare della “questione” carovita e dei tassi di inflazione reale costantemente e abbondantemente lontani da quelli previsti annualmente dal Governo e da alcuni istituti di ricerca. Il tutto è stato in vario modo, direttamente o indirettamente, almeno nella “pubblicistica di massa”, collegato all’avvento dell’euro. L’effetto del cash changeover avrebbe, più o meno da solo, anche grazie alla inconcludenza ed all’inattività di Parlamento e Governo, comportato un aumento generalizzato dei prezzi al consumo tale da provocare squilibri enormi nelle economie familiari di gran parte degli italiani. Il dibattito più acceso si è sviluppato tra due istituti di ricerca italiani: uno è l’Istat (pubblico) e l’altro è l’Eurispes (privato); l’uno sostiene che l’inflazione si sia aggirata a livelli che non superano quasi mai, e comunque di poco, il 3% e l’altro ha calcolato, invece, ben altri tassi di inflazione (spesso anche a doppia cifra). Un primo punto fermo che si deve ricavare è che, essendo le statistiche null’altro che medie numeriche (ponderazione e sistemi di avvicinamento alla realtà inclusi), servono ben poco a conoscere la vera situazione della “stratificazione” dei consumi (ed, induttivamente, dei redditi) delle varie, differenziate anche al loro interno, classi sociali. A maggior ragione quando, delle raccolte di dati più ampie e capillari (v. Istat), sono forniti soltanto i risultati aggregati, privandoci dell’ accesso ai dati disaggregati e quindi ad una conoscenza più vicina a quella che è la realtà concreta e non media del calcolo matematico1. Al di là delle metodologie più o meno appropriate di fare statistica è cruciale notare che, si voglia dar retta all’Istat o all’Eurispes (al quale vanno aggiunte le varie associazioni dei consumatori che, in linea di massima, confermano i dati di quest’ultimo, o di alcuni Centri Studi legati all’associazionismo e sindacalismo di base, come ad esempio il CESTES-PROTEO che ha indicato un tasso di inflazione medio annuo di almeno il 15%), il fenomeno del carovita non può non essere inserito in un contesto più ampio e completo che tenga conto di altri fenomeni e tendenze del modo/moto di produzione capitalistico e della sua concreta manifestazione nel nostro Paese. Il problema dell’inflazione va letto in un’ottica che sia consapevole dello specifico contesto storico-sociale nel quale si sviluppa tale fenomeno che non è isolato ma si combina con una pluralità di altri fenomeni. Soprattutto, il carovita non è neutrale: nel senso che non produce gli stessi effetti in capo ad ogni soggetto (asetticamente considerato), ma va considerato per quelle specifiche differenti conseguenze che genera secondo che i soggetti “incisi” da esso appartengano ad una classe sociale o ad un’altra. Il carovita non è neutrale dal punto di vista di classe. L’inflazione può colpire alcuni beni (anelastici e di prima necessità) e non altri (di lusso) o viceversa o entrambi: ma in tal caso può ben produrre effetti differenti: maggiormente incidenti sulle fasce della popolazione meno abbiente e media (date le qualità differenti dei beni stessi). Alcuni studi hanno calcolato che l’inflazione degli ultimi anni, in termini di crescita nominale dei prezzi, ha interessato maggiormente i beni di consumo delle classi sociali più ricche, rispetto agli altri beni. L’analisi però non può fermarsi qui: altrimenti non ci si spiegherebbe perché, pur aumentando i prezzi dei beni di lusso, aumentano anche i consumi degli stessi beni! Forse una spiegazione può trovarsi nel fenomeno sempre più visibile della tendenza alla polarizzazione di classe, laddove i profitti di ristrette percentuali di popolazione aumentano costantemente a discapito delle quote di ricchezza nazionale destinate a stipendi e salari. L’inflazione, che pur si fa sentire sui beni di lusso, viene “ammortizzata”, quindi, dall’aumento della “fetta” di ricchezza, generalmente prodotta, concentrata nelle mani dei pochi soggetti che consumano quei beni. L’inflazione vieni “neutralizzata” dall’incremento dei profitti. Ancora una volta il carovita non è neutrale. Non lo è soprattutto se si dà uno sguardo alle condizioni reddituali di gran parte della popolazione italiana. L’inflazione degli ultimi periodi non ha fatto altro che accentuare alcune tendenze in atto e portarle alla ribalta della cronaca quotidiana. Sin da quando, nel luglio 1993, è stato firmato l’Accordo che ha fondato le “nuove” (in verità già un po’ superate dalle politiche del centro-destra) relazioni industriali italiane, e si è avviato un percorso di concertazione, governi succedutisi, associazioni padronali e sindacati hanno sostenuto una “politica di contenimento salariale” che ha comportano, in pratica, il blocco (o l’aumento irrisorio e spazzato via dall’inflazione) delle retribuzioni contrattuali. Nel “decennio lungo” che parte nel 1993 e arriva ad oggi, le retribuzioni, soprattutto di operai ed impiegati, sono rimaste “al palo”, con una conseguente riduzione del potere d’acquisto di queste classi sociali, ed il tutto avveniva (avviene) in concomitanza con un aumento considerevole della produttività e dei profitti. Leonello Tronti (2005) scrive che “le famiglie di operai e impiegati non solo hanno avuto il loro potere d’acquisto bloccato per più di un decennio ma, se hanno cercato di seguire l’evoluzione dei modelli di consumo medi, hanno dovuto sopportare spese che il loro reddito di lavoro non era in grado di coprire. Se questo non è un processo di impoverimento in termini assoluti, certamente lo è in termini relativi e culturali”. Un indice di tale difficoltà può essere dato dal fatto che più del 47% delle famiglie italiane consuma l’intero proprio reddito: vi è l’impossibilità del risparmio. E, come afferma Saraceno (2004), non si tratta di “famiglie spendaccione che vivono al di sopra delle proprie possibilità, ma famiglie il cui bilancio è risicato rispetto ai bisogni”. Il livello di precarietà reddituale è tale che oggi sempre più famiglie ricorrono al credito al consumo (Eurispes, 2005: 89) come “forma di integrazione reddituale” soprattutto per l’acquisto di beni indispensabili (auto, elettrodomestici, arredamento o servizi per la casa). Certo è che, se questa è stata la “tendenza” degli ultimi anni, il “grande balzo” in avanti del carovita è coinciso con l’introduzione dell’euro. In questa sede vorremmo sviluppare un avvio di riflessione che superi la ristrettezza dell’ottica dell’effetto changeover. Da Tremonti alla casalinga siciliana fino alla Lega, spessissimo si sente dire che “è tutta colpa dell’euro!”. Dietro questa, apparentemente innocente, affermazione, si nasconde un potente “procedimento” di occultamento della realtà. L’euro diviene oggetto di un processo di reificazione per il quale “un rapporto, una relazione tra persone riceve il carattere della cosalità... che occulta nella sua legalità autonoma, rigorosa, apparentemente conclusa e razionale, ogni traccia della propria essenza fondamentale: il rapporto tra uomini” (Lukács (1991: 108)). Il denaro non è una “cosa”, un semplice dischetto di metallo o un foglio di carta. Il denaro è merce che ha una particolare qualità: quella di essere l’equivalente generale: cioè l’unica merce che può comprare (è scambiabile con) qualsiasi altra merce. In quanto tale esso è misura di valore (quantità di lavoro umano astratto) e quindi non esprime altro che un rapporto sociale. E i rapporti sociali, in una società capitalistica, sono rapporti intercorrenti tra individui appartenenti a classi sociali. Dietro la superficiale “cosalità” del denaro, si nascondono rapporti tra uomini. Se una determinata quantità di denaro rappresenta una certa quantità di valore, il suo possesso comporta il possesso di una certa quantità di valore (socialmente prodotto). Quindi l’appropriazione (privata) di denaro non significa altro che l’appropriazione di valore a discapito di altri soggetti. L’aumento dei prezzi nella sfera della distribuzione (come è avvenuto soprattutto dal 2002) non è dovuto all’euro tout court, ma alla capacità (rapporti di forza) di determinate (fasce di) classi sociali di imporre i “propri” prezzi, riuscendo ad appropriarsi di maggiori quote di plusvalore a discapito delle altre classi. Come giustamente ha detto qualcuno... i prezzi non sono fissati dall’euro, ma dalle imprese. È in quest’ottica di lotta di classe (silenziosa) che va letto il fenomeno dell’inflazione da profitti degli ultimi anni (v. Carapella, Pecoraro (2004)). In questo articolo si lasceranno a parte tutta una serie questioni aperte negli ultimi periodi (se l’Istat abbia o meno il “ruolo istituzionale di tenere bassa l’inflazione” poiché ai tassi da esso determinati sono collegati gli aumenti contrattuali di stipendi e salari; i problemi del paniere Istat e le ponderazioni opinabili dei beni; la proposta di creare dei panieri differenziati in base alle classi sociali di riferimento, ecc.), tuttavia svilupperemo alcune brevi riflessioni. In un contesto in cui forme di lavoro precario avanzano incessantemente, in cui il fenomeno dei working poor interessa ormai il 15-20% dei lavoratori italiani (v. Baldini (2004b: 291)), dove i redditi contrattuali di operai e impiegati hanno perso, nel solo periodo 2001-2004, rispettivamente il 20,4 ed il 23,9% del potere d’acquisto (Eurispes (2005: 95)), l’effetto euro se interessa tutta la popolazione italiana, incide però grandemente sulle classi medie e basse: infatti queste ultime sono maggiormente soggette, rispetto alle altre, all’acquisto di beni rigidi (anelastici) che sono insostituibili perché di prima necessità. E sono proprio questi beni ad aver subito, negli ultimi anni, tassi di “inflazione galoppante”2. Da sole le seguenti quattro categorie di spesa (che potremmo definire “rigide”) spiegano il 70% dell’aumento complessivo dei prezzi: a) gli alimentari (esclusa frutta e verdura) contribuiscono al 20% dell’inflazione totale; b) frutta e verdura per il 15%; c) i trasporti (è compresa l’assicurazione per le auto) per il 16%; d) altri beni e servizi3 per il 18%. L’Eurispes stima che nel solo 2002 c’è stato un aumento del 29% per le spese alimentari, del 15% dei premi assicurativi; i prodotti ortofrutticoli, ad es., sono aumentati del 51%; il pane, la pasta e il riso sono cresciuti in media del 20%; rincari addirittura del 48% per l’acqua minerale (tant’è che l’Associazione AcquaItalia ha riscontrato un incremento sensibile dell’utilizzo di acqua del rubinetto in sostituzione di quella imbottigliata); inoltre, si può dimenticare l’aumento vertiginoso del prezzo del petrolio (per un affresco più dettagliato e per un’elaborazione interessante di un paniere di beni alternativo, più corrispondente alla realtà di una famiglia media italiana v. Carapella, Pecoraro (2004))? Il carovita, al di là della percezione, ha cominciato anche a cambiare alcune abitudini (ad es. è sempre più in ascesa il fenomeno del “pranzo fai da te”, comprato al market e consumato al parco o in ufficio, in luogo della pausa pranzo presso ristoranti e tavole calde). L’inflazione non è che uno4 dei “mali” che contribuisce ad aggravare la situazione economica di molte famiglie italiane. Ed inoltre, se coincide con forme di occupazione precaria, dà vita ad una miscela esplosiva di instabilità che può sfociare in forme di povertà oscillante. Un po’ tutta la stampa, dal Corriere della Sera a La Repubblica, ha dedicato articoli ed inchieste anche interessanti ai nuovi fenomeni di impoverimento5 e precarizzazione di intere ed ampie fasce di popolazione. Qualcuno ha parlato di “crisi” dei ceti medi (che dovrebbe essere letta come tendenza, su scala planetaria, alla crescente polarizzazione di classe) e altri di “proletarizzazione”. Gli ultimi anni sono stati, pertanto, caratterizzati da un conflitto aspro del capitale contro il lavoro, riuscendo il primo ad assicurarsi una posizione di notevole vantaggio sul secondo, sia sul piano del comando capitalistico sia, di conseguenza, su quello della distribuzione della ricchezza. E tutto ciò è avvenuto sotto la nuova “idea vincente” della flessibilità come panacea di tutti i mali.

2. Flexibilität macht frei

La flessibilità ci rende(rebbe) liberi, quanto meno dal lavoro salariato, fordista, taylorista, monotono, a vita. La flessibilità, come concetto separato dalla vita materiale della società, non significa nulla, o meglio, può significare tutto ed il contrario di tutto. Essa, come fenomeno sociale, non nasce dal nulla, ma è frutto di un ben preciso processo storico-sociale. La flessibilità come principio organizzativo delle imprese, come qualità necessaria della vecchia e soprattutto nuova forza-lavoro, origina da ben precisi rapporti di forza che si sono andati strutturando negli ultimi decenni su scala globale. Siamo stati per anni abituati a concepire modelli organizzativi e industriali “rigidi” che generavano una classe lavoratrice “rigida”. Sembrava un fatto acquisito per sempre... era invece solo un modo di organizzare l’impresa e la società capitalistiche. La “rivoluzione” della flessibilità ci sembra oggi una novità senza precedenti, un “grande balzo” in avanti verso la strutturazione di una nuova classe lavoratrice post-fordista, post-industriale, post-capitalista e via fantasticando proseguendo. In verità l’età della “rigidità”, o, come direbbe Sennett (2003: 21), l’età del capitalismo e della politica del “lungo termine” (della progettualità a lunga scadenza), è durata ben poco, solo alcuni decenni attorno alla metà del XX sec. (periodo ford-taylor-keynesista). Il processo storico-sociale che si sviluppa negli ultimi decenni si fonda sulla ritrovata capacità del capitale di imporsi sulla forza-lavoro (su scala globale) riuscendo a far valere, sistematicamente (anche se non linearmente) il proprio punto di vista (la propria Weltanschauung) e i propri interessi. L’attuale regime flessibile di accumulazione di capitale, di gestione della forza-lavoro, dei salari ecc... può essere visto, in parte, come un ritorno al passato, o meglio ad una forma più adatta al nuovo “stadio” capitalistico, in una fase in cui esso riesce a liberarsi di tutta una serie di vincoli economici, sociali, legislativi, contrattuali, che precedentemente gli erano stati imposti dalla lotta di classe condotta dalla forza-lavoro su scala mondiale. Il regime di flessibilità potremmo definirlo come il più appropriato alla natura stessa del capitale, che non sopporta vincoli di alcun tipo. Su tali tematica punto di riferimento possono essere considerate le inchieste del CESTES, vedi Martufi, Vasapollo (2000) e Vasapollo e altri (2001 e 2003). La flessibilità gestita dal capitale genera precarietà. Il precario stato esistenziale dell’uomo flessibile odierno non è solo quello di chi non ha accesso al mondo del lavoro, bensì è esteso ad una pluralità di soggetti che sono integrati nel mondo del lavoro6, ma vivono una condizione di rischio continuo: sul filo labile della inclusione/esclusione dal mondo del lavoro che comporta l’accesso/non accesso alla ricchezza (relativa e assoluta) necessaria per sopravvivere e riprodursi: “Il rischio d’impresa si socializza all’intera società, abbandona l’impresa e s’installa sui processi della vita quotidiana” (Tiddi, (2002: 34)). Il rischio oggi scaturisce dalla mancanza di forme di protezione che il “capitalismo regolato”, grazie ai compromessi storici tra classi capitaliste e lavoratrici, aveva garantito negli scorsi decenni (lo scambio nella sostanza può essere così sintetizzato: sicurezza-stabilità in cambio di deflazione e controllo del conflitto di classe a mezzo di sindacati burocratizzati). Una condizione “immanente” di rischio che incide sulla sfera economica, ma crea instabilità e debolezza anche sul piano psicologico, con conseguenze “corrosive” del carattere/personalità degli individui (Sennett, (2003)). Il problema della flessibilità si pone oggi come problema del predominio tendenzialmente assoluto del capitale sul lavoro vivo. Non rileva la flessibilità “neutrale”, astrattamente considerata. Quella con cui ogni giorno milioni di lavoratori/trici devono fare i conti è la flessibilità imposta dal capitale7. La flessibilità è uno strumento di scomposizione della classe lavoratrice e di individualizzazione della stessa8. L’individualizzazione è uno strumento con cui si realizza anche la gerarchizzazione tra varie forme di flessibilità e di lavori. È tramite processi di disgregazione della classe lavoratrice prima, e di individualizzazione poi, dei/nei piccoli gruppi ricomposti a livello micro-aziendale, che il capitale si assicura il predominio, non solo gestionale, ma anche “ideologico” sulla forza-lavoro (il processo di sviluppo della coscienza di classe viene “interrotto” sul nascere tramite la scomposizione materiale e la creazione di “mercati interni” che realizzano tra i/le lavoratori/trici forti dosi di concorrenza, al ribasso). La flessibilità non è quindi solo un principio gestionale o la disponibilità della forza-lavoro a “flettersi agli interessi capitalistici”, ma è un vero dispositivo di controllo, normalizzante (Curcio, (2002), (2003)). Se l’essere flessibile è, in molti casi, la qualità unica richiesta dal datore di lavoro, ne deriva che, anche contro le proprie convinzioni, condizioni, esigenze ecc... il lavoratore sottoposto a tale regime non può sottrarvisi, pena il licenziamento. Così un immigrato, intervistato da Curcio (2003: 69), confessa: “[I]o per sopravvivere ho dovuto piegarmi così in basso che per il momento lavorare mi basta”. Una simile condizione è comunque riscontrabile in tanti (troppi) lavoratori precari, atipici, ma anche “regolari”. Il dominio flessibile si basa su un dispositivo efficacissimo: scambio simbolico tra disponibilità e inclusione (nel mondo del lavoro) (Curcio, 2003: 9). Un ruolo fondante tale scambio è quello giocato dalla paura, o meglio: dalle paure9. La paura di non essere più ‘apprezzato’ dal capitale, di non servire più induce a sopportare qualsiasi tipo di imposizione10. La paura stessa funge da dispositivo normalizzante: “tutto ciò che mi viene chiesto è da farsi, per il semplice fatto che mi viene comandato”. Il comando capitalistico deve essere osservato in quanto tale, a prescindere dalla sua “bontà” o condivisibilità: l’alternativa è la fuoriuscita dal mondo del lavoro. Stando a quanto sostenuto da un illustre pensatore della “scuola austriaca”, il licenziamento non è un problema: “Il lavoratore non dipende dalla buona grazia di un datore. Se un datore lo licenzia, ne trova un altro” (von Mises, (2000: 47)). In verità la sopravvivenza di un individuo, e la sua riproduzione come forza-lavoro, dipendono da un “datore di lavoro” che acquista quella forza-lavoro. Se il problema del licenziamento spesso non sussiste per una ristrettissima percentuale di lavoratori superqualificati (che riescono a contrattare a pari livello con la controparte datoriale e magari ad imporre le proprie condizioni), per la stragrande maggioranza della forza-lavoro un licenziamento è drammaticamente lacerante. In un’ottica più seria e “reale” di quella degli “austriaci&co” si può osservare facilmente come il comando attuale del capitale sul lavoro si fondi (per tutta una serie di settori lavorativi) su una “qualità” particolare della forza-lavoro: quella di essere priva di qualità specifiche (a parte la flessibilità; e ciò comporta un’alta ricattabilità). Grazie alla introduzione di nuove tecnologie, la taylorizzazione di gran parte dei “servizi”11 (v. l’esempio emblematico dei call center) e delle grandi reti di distribuzione commerciale o alimentare, e la toyotizzazione di settori interi dell’industria hanno comportato due tendenze12 (non necessariamente intersecantisi) alla dequalificazione-banalizzazione di molte mansioni lavorative: a) una in senso smithiano (mansioni monotone, routinarie13, sempre più specializzate ma sempre più semplici, perdita di professionalità specifiche); b) l’altra in senso più propriamente marxiano: superfluità della forza-lavoro, in conseguenza di una forte automatizzazione del processo lavorativo, per tutta una serie di mansioni ora svolte dalle macchine (prevalenza del lavoro morto sul lavoro vivo). Un eccesso della forza-lavoro non valorizzabile dal capitale da un lato, e la richiesta di forza-lavoro non qualificata dall’altro, genera un’elevatissima concorrenza tra gli outsider che ha conseguenze disastrose anche sugli insider. In merito può risultare ancora molto feconda la categoria marxiana dell’esercito industriale di riserva. Il capitale “sfrutta” una quota di individui espulsi dal (o mai entrati nel) mondo del lavoro che costituisce un eccesso di offerta di lavoro14. Tale eccesso di offerta comporta non solo un abbassamento del prezzo (e quindi del salario) della forza-lavoro come qualsiasi merce, ma funge anche da strumento di controllo della forza-lavoro occupata che, pur di mantenere il posto di lavoro (gli esclusi scalpitano per sostituirla), subisce supinamente il comando del capitale (uno degli effetti collaterali è la riduzione della conflittualità dei/lle lavoratori/trici e delle stesse iscrizioni ai sindacati). Magdoff F. e H. (2004) individuano vari strumenti utilizzati dal capitale per accrescere l’esercito industriale di riserva: il più potente è certamente quello dell’incremento della produttività (che comporta il licenziamento di lavoratori che vanno ad ingrossare le file dell’esercito) ottenuta o con l’implementazione di nuove macchine o con l’introduzione di tecniche manageriali “razionalizzatici” (“fare di più con meno”). Tali licenziamenti sono una vera e propria risorsa dell’esercito industriale di riserva perché “per un dato livello di output sono necessari meno lavoratori e meno qualificati” (p. 24). Ma un altro strumento è quello dello smantellamento dello Stato sociale che, negando tutta una serie di garanzie e ammortizzatori, costringe la forza-lavoro ad accettare qualsiasi tipo di lavoro, a qualsiasi condizione, pur di sopravvivere. La flessibilità si innesta pertanto sul seguente presupposto: una forza-lavoro che non ha potere contrattuale (perché non ha specifiche qualità da vendere al capitale, se non la propria disponibilità assoluta a farsi sfruttare). È questo insieme di tendenze che genera l’estrema precarietà di larghe fasce lavorative: “La precarietà è subita come ricatto che impone di sottomettersi alla concorrenza con altri precari cercando di occupare per più tempo gli spazi di lavoro. Questo principio di autocontrollo è divenuto comune, se pure con modalità e condizioni differenziate, a tutto il lavoro vivo precarizzato, come condiviso è il senso di instabilità e di provvisorietà della condizione esistenziale” (Tiddi (2002: 87-88)). Ma il capitalismo ha bisogno di legittimità (almeno formale). In Italia modelli di flessibilità anche estrema sono stati sperimentati già da decenni, in contesti diversi e con presupposti differenti. Due esempi possono semplificare il tutto: la diffusione del “modello distrettuale del Nord-Est” si è basato sulla gestione di una manodopera ultraflessibile e spesso dequalificata inserita in contesti micro-aziendali che sono riusciti a sfruttare tutta una serie di vantaggi non solo economici ma anche normativi. L’altro esempio è quello del sommerso (che raggiunge cifre spaventose: in Italia il 28% del PIL e cioè circa 302 mld _; nel Mezzogiorno il tasso di irregolarità supera il 42%, con il caso estremo della Calabria dove più di una unità lavorativa su due appartiene al sommerso). Esso garantisce alla parte datoriale la possibilità di gestire nella maniera più dispotica la “propria” forza-lavoro. Ma oggi il processo di flessibilizzazzione e precarizzazione non interessa più soltanto alcune parti dell’economia nazionale. (Su tali argomenti si vedano le numerose ricerche pubblicate sulla rivista PROTEO, in particolare, le significative anlisi-inchieste di Martufi R. e Vasapollo L., come quelle sulle privatizzazioni, sullo Stato sociale, su precarietà e lavoro atipico, sulla povertà - vedi Proteo vari anni 1998-2004). Esso si estende invece all’intero mondo del lavoro. Tuttavia il passaggio a forme di flessibilità generalizzata non è immediato. Ha sedimentato nel corso degli ultimi decenni. Un caso emblematico di questo percorso è quello dell’evoluzione del diritto del lavoro. In tale ambito da anni si diffondono una pluralità di convinzioni (spesso acriticamente recepite) provenienti dalle teorie economiche liberiste che si riverberano sulle questioni della contrattazione collettiva, del contratto di lavoro, contro la “rigidità” di formulazioni normative eccessivamente garantiste degli interessi della classe lavoratrice. Uno dei principali attacchi (e più carico di conseguenze) è quello teso a scardinare il predominio della voluntas legis in materia di contratto di lavoro (essa sarebbe la causa di eccessive garanzie, quindi vincoli). La tesi sostenuta dalla “mainstream liberista” (così definita e criticata da D’Antona (2000: 288)) è quella per cui, nell’interpretazione e qualificazione del contratto di lavoro, deve prevalere la volontà delle parti, anziché quella legislativa. Stando alla interpretazione giurisprudenziale e dottrinale “tradizionale” invece la legge prevale su quanto, eventualmente, pattuito dalle parti in materia di qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato o autonomo (inderogabilità del diritto). La legge, in tale caso, serve a garantire il lavoratore (parte debole della contrattazione) contro eventuali forzature da parte datoriale (es.: far passare un rapporto di lavoro sostanzialmente subordinato per un rapporto formalmente autonomo). Conseguenza logica e pratica è che la sostanza del rapporto prevale su quanto formalmente stabilito ex contratto. Per i neoliberisti-neocontrattualisti tale sistema priverebbe il singolo lavoratore della sua autonomia contrattuale, imponendogli una serie di vincoli di natura legislativa. Il lavoratore quindi, come direbbe Ichino, è “minorenne”: non è libero di disporre di sé stesso, né del “tipo” contrattuale. Tali teorici partono dal presupposto che il lavoratore sia, se in possesso di sufficienti informazioni, sullo stesso piano del datore di lavoro. Le uniche disparità ipotizzabili sono quelle informative; non rilevano, ad es., le classi sociali, né tanto meno le condizioni familiari reddituali di partenza. Se i soggetti della contrattazione privata sono paritari, allora il lavoratore non ha bisogno della protezione, del tutorato della norma (né tanto meno del sindacato), può fare da sé. Il problema sorge quando la dura realtà dimostra quotidianamente che la volontà (consenso) delle parti è determinata asimmetricamente perché le “fonti volitive” sono asimmetriche: detengono poteri diseguali; quindi quando prevale la lex voluntatis (volontà delle parti), in realtà è la volontà del datore di lavoro a prevalere (tranne casi di particolare forza contrattuale del lavoratore). Le disquisizioni dottrinali in ambito giuslavoristico possono sembrare astruse o eccessivamente astratte, ma si trasformano ben presto in “slogan politici” precisi. Teorie neoliberiste in materia di contratto di lavoro sono condivise da buona parte delle forze politiche parlamentari (di entrambi i poli). È lo stesso “vento” liberista che influenza sia le categorie teoriche di intellettuali che di politici e del centro destra e “sinistri”. Citiamo due passi estesi tratti da un libro di Berlusconi (2000) per cercare di ricostruire un unico filo che collega una pluralità di soggetti politici e non, che, pur con sensibilità diverse, sono accomunati dagli stessi principi di fondo: “[I] giovani non sono ritenuti dalla legislazione vigente, dai nostri sindacati, all’altezza di poter stipulare liberamente un contratto di lavoro. Si preferisce lasciarli disoccupati piuttosto che dare loro la possibilità comunque di un contratto di lavoro a un livello di retribuzione che essi stessi ritenessero conveniente. [...] via ai contratti di lavoro a tempo libero, ai contratti che potranno liberamente stipularsi tra imprenditori e governi [...] Libertà quindi all’inizio del rapporto, durante il rapporto e anche per una immaginabile e possibile fine del rapporto... [applausi] [sic!]” (pp. 232-3). “... la nostra proposta di nuovi contratti che possano essere aperti e chiusi in qualunque momento, da qui in avanti, per tutti i lavoratori, specie per i giovani, è un’esigenza profonda che introdurrebbe finalmente la flessibilità nei rapporti di lavoro. Bisogna introdurre anche la libertà sul prezzo della prestazione che dovrebbe essere più alto là dove c’è maggiore richiesta e meno alto nei settori e nelle aree dove c’è meno richiesta” (p. 107). Il discorso completo dovrebbe concludersi così: la prestazione lavorativa dovrebbe essere meno pagata laddove ci sia più offerta di forza-lavoro e quindi più concorrenza tra lavoratori: i sindacati dovrebbero smetterla di “fissare” i prezzi minimi e nazionali-aziendali delle prestazioni lavorative: il prezzo dovrebbe essere fissato in base alla legge della domanda e dell’offerta in un contesto di contrattazione individuale. La precarietà si estende anche al mondo del lavoro dei cosiddetti “garantiti” (nei vecchi settori della PA, ad es., tramite le privatizzazioni; nelle vecchie fabbriche “fordiste” informate ai nuovi principi organizzativi: outsourcing e subappalti) grazie all’introduzione di tutta una serie di norme “destrutturanti” il vecchio panorama del diritto del lavoro. Oggi il datore di lavoro ha a disposizione decine di forme contrattuali con le quali instaurare un rapporto lavorativo. Il settore del lavoro “atipico” si estende a macchia d’olio e spesso quelle che sono fatte passare per nuove forme di autonomia lavorativa sono in verità soltanto dei modi diversi di organizzare la forza-lavoro, sostanzialmente subordinata, sotto il comando capitalistico15. La precarizzazione e la flessibilizzazione della forza-lavoro comportano un ulteriore effetto: la forza-lavoro assunta è pressata dagli outsider: per mantenere il proprio “privilegio” deve sottostare al comando capitalistico sempre più dispotico. Ciò sfocia in almeno due fenomeni: intensificazione e densificazione16 della giornata lavorativa17. Riduzione dei pori che tendono a zero e pressione crescente sulla forza-lavoro occupata (dai comparti industriali a quelli dei “servizi”, della grande distribuzione, ecc...). La situazione è quella in cui, con l’implementazione di nuove tecnologie e l’impiego di minor forza-lavoro, aumenta la produttività (pur non aumentando proporzionalmente i salari) e le ore lavorative. È quello che Basso (1998: 14-5) definisce il “paradosso della produttività del lavoro”18. Così scrive De Angelis (1994: 22): “[A]ttraverso la gerarchizzazione della flessibilità come gerarchizzazione salariale e delle condizioni lavorative, il capitale è in grado di imporre più lavoro”. La precarietà (con i suoi lavori sottopagati, saltuari, incerti, a tempo determinato, parziali) comporta anche la riduzione complessiva del salario sociale reale19. La scienza economica borghese ci ha abituati a concepire il “salario individuale” come la “giusta retribuzione del lavoro prestato”. Tuttavia il salario non è determinato singolarmente, esso serve alla riproduzione dell’intera classe lavoratrice. Ma ancora, il salario non è solo quello corrisposto a fine mese e “non si esaurisc[e] nell’acquisto diretto delle merci di sussistenza, ma [è] invece composto anche dall’insieme di prestazioni collettive che derivano dalla ricchezza sociale generale” (Pala (1995: 47)). Esso è composto sia di merci che di valori d’uso. Suoi componenti sono anche: i) le quote differite (non solo nell’anno, tredicesima e ferie, ma soprattutto... liquidazione, pensione), da [confrontare] con versamenti e trattenute gravanti sul... “costo del lavoro”, a carico in ultima analisi dei lavoratori medesimi; ii) la quota erogata in servizi, gratuiti, con tariffe pubbliche o a prezzi politici (istruzione, sanità, assistenza, trasporti, energia, comunicazione...), finanziata in tutto o in parte dallo stato attraverso la fiscalità generale, e dunque da commisurare con gli oneri che tale fiscalità fa ricadere sui redditi da lavoro; iii) la quota che... deriva indirettamente da normative regolatrici dei prezzi di merci che costituiscono i principali mezzi di sussistenza (dal pane alla casa...); iv) la quota... apparentemente invisibile, rappresentata dal valore della forza-lavoro equivalente all’impiego di tempo di lavoro non retribuito, che ciascun lavoratore e coloro che vivono con lui, e col suo reddito, sono costretti a erogare per poter effettivamente utilizzare i mezzi di sussistenza (lavoro domestico, attività burocratiche, tempo perso per sbrigare pratiche amministrativa, ecc.). (ivi, pp. 47-48) Il lavoro precario quindi non riduce e destabilizza soltanto il salario immediatamente percepibile, e l’intero salario reale sociale (di classe), ma va ad intaccare tutta una serie di componenti di quella quota del salario reale che si percepisce individualmente, a causa dell’instabilità del rapporto di lavoro e della minore “partecipazione” del lavoratore alla creazione della ricchezza generale.

3. Bisogni. Ripartiamo (dal basso) dal concreto Risulta a questo punto chiara la strettissima connessione tra quanto scritto nel primo capitolo su carovita e nuove povertà, e su flessibilità e precarietà; e tale connessione trova un suo terreno risolutivo nella lotta contro disoccupazione e precarietà, contro il carovita e per il Reddito per tutti/e. Le condizioni di vita materiale di fasce estese della popolazione sono sottoposte a duri attacchi da parte padronale. La precarietà diffusa di una serie enorme di nuovi e vecchi lavori sicuramente agevola e rafforza un certo tipo di comando capitalistico che sempre più deve confrontarsi con la concorrenza internazionale, ma può anche rischiare di minarne la legittimità. Col tempo, le condizioni di sfruttamento che la forza-lavoro vive quotidianamente sulla propria pelle portano a galla una pluralità di contraddizioni (economiche, sociali, personali...) che possono sfociare nella protesta radicale e immediatamente diretta (senza se e senza ma) contro il comando capitalistico. Gli episodi di lotta (anche aspra) degli ultimi anni (paradigmatici sono i casi di Scanzano, Rapolla, Melfi, i ferrotranvieri) hanno riportato alla ribalta una “vecchia questione” che ha preoccupato non poco le organizzazioni politiche e sindacali “ufficiali”: l’autoorganizzazione, la protesta di massa che parte dal basso “e fa tutto da sola”. Nella sinistra no-global, post-global, altermondista si è discusso molto sulla necessità di partire “dal basso”. Ma di concreto spesso si partoriscono soltanto forme di blando riformismo e compatibilismo politici. Esperimenti di “contropoteri” organizzati autonomamente rispetto alle centrali del potere costituito, sono diffusi in tutto il mondo. La prospettiva di una sinistra radicale di classe dovrebbe essere quella di rapportarsi con tutti questi movimenti che sorgono spontaneamente (per una diretta ed immediata rivendicazione di diritti, partendo dai bisogni concreti delle masse) senza alcuna velleità (distruttiva) egemonizzante. La sinistra radicale di classe deve essere lo “strumento” di stimolo e appoggio politico a forme di organizzazione autonoma che devono essere sostenute proprio in quanto spontanee, originate da bisogni immediati e concreti. La contraddizione immediata che esplode a livello di massa spesso è anche “politicamente immatura” e immediatistica, ma ciò non può giustificare alcuna scorciatoia verso la “partitizzazione” delle masse e delle loro forze spontanee. Bisogna promuovere la libera attività del proletariato senza alcuna idea di sostituirsi ad esso. Promuovere con la propria azione il processo reale di sviluppo della coscienza del proletariato, che, se matura, è solo nella lotta reale, nella pratica conflittuale20. Una coscienza che è tutta da “venire”. Le stratificazioni interne alla classe lavoratrice sono come non mai diffuse ed efficaci. Non c’è di fronte a noi un soggetto omogeneo (se mai ci sia stato); la pluralità di soggetti più o meno isolati deve essere ri-pensata in un’ottica di ricomposizione soggettiva di classe che sappia leggere gli elementi di comunanza oggettiva tra i vari soggetti. Ciò che il capitale disgrega la coscienza deve ricomporre. Ripartire dal basso, certo, ma direttamente dai bisogni concreti21 (sui quali pensare e tentare composizioni sociali di individui altrimenti frammentati) e sostenendo la formazione di organizzazioni di massa “in modo da favorire la diretta partecipazione di ampi settori di lavoratori e disoccupati, dei cittadini e delle loro famiglie” (v. ad es. la proposta delle RdB e di altri sindacati di base e associazioni di costituire i “comitati della quarta settimana”, partendo dalla sempre più difficile condizione di milioni di famiglie italiane che stentano ad arrivare a fine mese con gli stipendi che percepiscono). È pensabile oggi un potere costituente nuove forme di socializzazione alternative alle logiche capitalistiche? È pensabile un potere costituente che sia cosciente della propria immediata alterità e contrapposizione radicale al potere costituito? Le contraddizioni creano l’humus di “possibilità” oggettive che sta alle soggettività radicali renderle processi di liberazione attuali.

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Note

* Ricercatore, Osservatorio Meridionale di CESTES-PROTEO.

1 In merito Baldini (2004a) scrive che “l’indice di fonte Istat si riferisce [...] all’incremento del costo di un paniere di beni e servizi che, volendo sintetizzare i comportamenti di spesa di tutti gli italiani, finisce per non corrispondere a quanto comprato da alcuna famiglia in particolare”.

2 L’Intesa dei consumatori stima che dal 2002 (anno di introduzione dell’euro) 50mrd _ ca sono “migrati” dalle tasche degli italiani (verso chi?) per il carovita.

3 L’incremento dei prezzi dei servizi pubblici e privati, erogati a livello regionale, locale e non solo, incide considerevolmente sui bilanci familiari. Gli aumenti più sensibili si sono avuti per le voci: assistenza agli anziani e disabili; affitto; sanità; trasporti; istruzione; assicurazioni; telefono (per un più dettagliato elenco ed una differenziazione tra le diverse incidenze che l’inflazione dei prezzi dei servizi ha avuto in rapporto ai vari quintili di popolazione italiana v. Atella, Rossi (2004)). La distruzione progressiva del Welfare State e dei vari ammortizzatori sociali si inserisce nel (ed anzi precede il) processo di destabilizzazione economica ed esistenziale di ampie fasce di popolazione (v. capitolo). Lo smantellamento dello Stato sociale non riduce le necessità di ricorrere a tutta una serie di servizi “rigidi” che, rincarando, svuotano ulteriormente le tasche degli “utenti”.

4 Carapella, Pecoraro, (2004: 8-9) elencano una serie di cause che hanno comportato la riduzione del potere d’acquisto di pensioni e stipendi. Le riportiamo qui di seguito: a) prestazioni sociali diminuite; b) assenza di ammortizzatori sociali; c) taglio dei trasferimenti agli enti locali con conseguente riduzione dei livelli dei servizi ai cittadini bisognosi; d) riduzione dei posti negli asili comunali, dei servizi di assistenza ai disabili; e) aumento considerevole delle imposte e tasse locali; f) riordino del sistema farmaceutico con l’inclusione nella fascia a pagamento di una serie di medicinali prima a totale carico del SSN; g) difficoltà economiche di tante aziende, grandi e piccole, con conseguenti licenziamenti e riduzione del personale; h) assunzioni di giovani e meno giovani con contratti precari e importi salariali modestissimi.

5 L’Eurispes, col suo “scandaloso” Rapporto Italia 2003, ha calcolato che in Italia vi siano 4,7 mln di famiglie a rischio povertà o indigenti (l’equivalente di circa il 22% dell’intera popolazione italiana e cioè oltre 14 mln di individui). La tesi della “povertà fluttuante” sostenuta dall’Eurispes avvalora l’idea (v. quanto sarà scritto nel prossimo numero) di una relazione tra generale precarizzazione del mondo del lavoro e impossibilità di costruire una stabilità economica personale e familiare che consenta di “fissare” la propria condizione sociale “al di là” della povertà. La povertà oscillante, che interessa anche i c.d. “colletti bianchi”, è “una precaria condizione socio-economica culturale e assistenziale [...] variabile, temporanea, talvolta occasionale [...] che riguarda individui o nuclei familiari che si trovano all’interno di una magmatica area di esclusione-inclusione sociale e che rapidamente possono fluttuare [...] all’interno di fasce di reddito e di condizione sociale contigue” (G. M. Fara, introduzione a Eurispes (2005: 11)).

6 Il fenomeno dei c.d working poor è oramai diffuso in tutti i paesi a capitalismo maturo. La precarietà salariale (che produce effetti su tutte le altre sfere personali) si espande anche dentro il mondo del lavoro. È generalmente considerato working poor chi percepisce un salario inferiore ai 2/3 del salario mediano.

7 È chiaro che un manager di alto livello vive la flessibilità in modo diverso da un lavapiatti in un fast-food, ma ciò non toglie che essa, più o meno contrattata o subita che sia, è comunque frutto della volontà capitalistica.

8 Il baricentro dei rapporti di lavoro e sociali è spostato dai soggetti collettivi sull’individuo. Leonardi (2001) parla di “singolarizzazione del proprio destino”.

9 “Paura di perdere il salario e, di conseguenza, il livello dei consumi. Paura di perdere il lavoro. Paura del fallimento. Paura dei rapporti solidali. Paura della disconferma. Paura d’invecchiare, di varcare i “limiti di età” e cioè le soglie che si spalancano sull’esclusione oggettiva. Paura di non arrivare all’età pensionabile. Paura di essere sopraffatti” (Curcio, 2003: 55).

10 Il comando capitalistico a volte si risolve in imposizioni all’apparenza incomprensibili e “stupide”. Ma la funzione di tali disposizioni è proprio quella di “abituare” il lavoratore a subire senza proteste qualsiasi cosa venga chiesta/imposta. Riportiamo un esempio significativo tratto da Chaincrew (2001: 81): “Rientrando [è un operaio specializzato di 3° livello della Esselunga a parlare, N.d.A.] da una malattia senza il certificato medico, mi hanno rimandato a casa con una lettera di biasimo e un giorno di sospensione trattenuto dallo stipendio”. È un chiaro comportamento disciplinante: se si infrange anche la pur minima, insignificante regola aziendale (il certificato avrebbe potuto essere prodotto anche nei giorni successivi!) si è puniti: bisogna essere pienamente coscienti che tutto ciò che l’azienda impone, deve essere rispettato ed eseguito. La funzione è quella di modificare, modellare, il pensiero e l’agire del lavoratore al mondo normativo e disciplinare aziendale. Il sistema disciplinare-disciplinante comporta l’interiorizzazione del principio dell’ubbidienza. È lo stesso lavoratore che si disciplina, si costringe a rispettare le regole: è per il suo bene (sopravvivenza sul luogo di lavoro, sopravvivenza nella società). Proprio quando le regole sono apparentemente stupide, criticabili, esse mostrano tutta la forza del potere: esse vanno rispettate per il semplice fatto di essere imposte.

11 Un piccolo es.: il tempo di consegna a domicilio della pizza (da Pizza Hut) è calcolato al computer: il cronometro di Taylor invade le pizzerie!

12 Sulle differenti interpretazioni del fenomeno della dequalificazione delle mansioni lavorative, l’una di Smith e l’altra di Marx, v. Moraes Neto (2003: 39-63).

13 “[A]lmeno due terzi [dei lavori moderni] sono “ripetitivi”... Alla stessa maniera, l’impiego del computer sul posto di lavoro...implica quasi sempre mansioni abbastanza ripetitive come l’immissione di dati” (Sennett, (2003: 44)). Sempre Sennett (2003: 73) a tal proposito parla della conflittualità tra i due poli della “flessibilità” e della “difficoltà” (delle mansioni lavorative). Alla base della mansione flessibile (fatta eccezione per i casi di particolare qualificazione) c’è la semplificazione estrema della stessa.

14 Magdoff F. e H. (2004: 21-22) indicano alcune categorie di soggetti che compongono l’attuale esercito industriale di riserva statunitense (ma valide anche in altri contesti nazionali): a) disoccupati; b) lavoratori part-time che vorrebbero lavorare a tempo pieno; c) lavoratori autonomi che svolgono una pluralità di lavori saltuari o lavori occasionali in cerca di lavoro a tempo pieno; d) lavoratori che sono a rischio di perdere il lavoro (a causa di flessioni economiche negative, incremento della meccanizzazione, o di esternalizzazioni). “Sebbene non disoccupati questi lavoratori sanno di versare in una situazione precaria e si comportano di conseguenza”... quindi accettano qualsiasi imposizione provenga dalla parte datoriale; e) tutti coloro che non sono calcolati nella popolazione economicamente attiva ma che sono disponibili ad essere assunti in seguito al cambiamento di alcune circostanze (come i detenuti e i disabili).

15 Situazione che abbiamo riscontrato anche in una micro-inchiesta (“Working Poors in Naples. Ovvero della ‘cottimizzazione’ a progetto”) presentata in “Osservatorio meridionale” supplemento all’attuale numero di Proteo. A titolo introduttivo, in merito, può essere letto l’utile libro di Altieri, Carrieri (2000) che affronta la problematica dell’atipicità del lavoro e della reale o fittizia autonomia del “popolo del 10%” e le sue stratificazioni interne. D’Antona (2000: 318) ebbe a scrivere delle puntuali riflessioni in merito: “Probabilmente, le nuove insidie alla ‘dignità e sicurezza’ del lavoratore si celano oggi nell’illusoria autonomia, e nel reale isolamento solipsistico, dei tanti lavoratori ‘indipendenti’ (o, come si dice, ‘le partite Iva’) che, grazie ai nuovi modelli di organizzazione del lavoro, e alla maggiore libertà di ricorrere a forme contrattuali flessibili, l’impresa postfordista controlla meglio di prima con la sola accortezza di ‘tenere il guinzaglio lungo’. Una autonomia che... resta dura, insormontabile dipendenza personale dalle sorti e dalle convenienze economiche dell’impresa altrui, che resta arbitra di un destino individuale e di un intero progetto di vita, una dipendenza per certi versi perfino più gravosa di quella della fabbrica tradizionale, in quanto vissuta al di fuori di ogni esperienza collettiva e di ogni solidarietà”. A proposito della “percezione di sé” come lavoratori autonomi, un sondaggio Eurispes (2005: 48) fatto a lavoratori con contratti di collaborazione (occasionale, a progetto, o coordinata e continuativa) constata come “la maggior parte di essi abbia nei fatti instaurato con il proprio datore di lavoro un rapporto di tipo subordinato: i 2/3 (66,7%, [il 78,5% per i co.co.co.]) lavorano per un unico datore di lavoro; al 55,3% [71% per i co.co.co.] è richiesta una presenza quotidiana sul luogo di lavoro ed il 54,7% [73,1% per i co.co.co.] svolge, in termini di impiego richiesto, un lavoro a tempo pieno”. Sempre secondo lo stesso sondaggio i lavoratori atipici si sentono precari e poco protetti (p. 51).

16 Intensificazione: “fare più cose nel medesimo lasso di tempo”. Densificazione: “soppressione di ogni tipo di pausa nel calcolo dell’orario. In questo caso un’ora di lavoro può durare... 95 minuti- come nel basket” (le citazioni sono tratte da Gallino (2003: 59)).

17 Con la direttiva europea in materia di orario di lavoro approvata il 12 maggio 2005 gli imprenditori ottengono la “annualizzazione dell’orario di lavoro”, cosicché salta il limite massimo della settimana lavorativa dovendo, il lavoratore, nel complesso, 2304 ore di lavoro all’anno. Ne consegue la possibilità di programmare una media settimanale di lavoro pari a 48 ore, ma teoricamente si possono anche organizzare settimane di 74 ore intervallate da altre di 26 ore in base alle necessità produttive e di mercato. Non solo, è prevista anche la possibilità che il lavoratore singolo e l’imprenditore concordino liberamente (facendo a meno della contrattazione collettiva) una deroga per effettuare settimane lavorative da 65 ore! (v. Conti (2005)). D’altronde già oggi, con particolari sistemi di gestione degli straordinari, alla Golden Lady di Desenzano del Garda si lavora anche per sette (!) mesi consecutivi sette giorni su sette su tre turni settimanali senza alcun giorno di pausa: la scelta è “libera”... ma chi non accetta lo straordinario una volta rischia di perderlo per sempre. Straordinario in cambio di “flessione”: in casi simili si può parlare di “irrigidimento espansivo” dell’orario lavorativo più che di orario di lavoro flessibile!

18 “È questo il paradosso della crescita della produttività del lavoro sotto il capitalismo: più si è ridotta all’osso (ridotta, non scomparsa!) la funzione e la quantità del lavoro vivo nel processo immediato di produzione, più il tempo di lavoro si è avvicinato alla massima densità, più si è ridotta la parte di giornata lavorativa che corrisponde al salario, più l’ulteriore crescita della produttività del lavoro pone ostacoli all’incremento dei profitti da un lato, e alla riduzione dell’orario di lavoro e della massa della disoccupazione dall’altro” (Basso (1998: 340)).

19 “Il salario si concepisce come grandezza sociale innanzitutto poiché riguarda il proletariato intero come classe (compresi i disoccupati, inoccupati e sottoccupati) nell’arco di tutta la vita” (Pala (1995: 47)).

20 Ulrich Beck (2000: 21) sostiene che “i problemi della seconda modernità si risolvono col compromesso e non con la lotta”. Noi invece riteniamo che le contraddizioni generate dal modo di produzione capitalistico siano immanenti ad esso ed irrisolvibili. È possibile soltanto raggiungere degli equilibri momentanei tra gli interessi contrapposti del capitale e del lavoro. I rapporti di forza tra le classi che si scontrano definiscono costantemente gli “equilibri” più o meno precari, più o meno interinali, tra capitale e lavoro. Anche nel capitalismo contemporaneo tutto ciò che la classe lavoratrice può ottenere, può averlo solo grazie alla sua lotta diretta. Solo con la forza (e con la convenienza del momento) il capitale può cedere quote del proprio potere al lavoro.

21 Interessante in merito l’ultimo documento congressuale delle RdB/CUB.