Rubrica
Riflessioni su post-fordismo e nuove dinamiche di classe

Copyright - Gli articoli si possono diffondere liberamente citandone la fonte e inserendo un link all'articolo

Autore/i

Argomenti correlati

Nella stessa rubrica

Riflessioni su post-fordismo e nuove dinamiche di classe


Home
Autori
Rubriche
Parole chiave

 

 

 

Riflessioni su post-fordismo e nuove dinamiche di classe

Formato per la stampa
Stampa

È senso comune diffuso il superamento del fordismo e l’entrata in una nuova fase cosiddetta post. Essa però non appare dai contorni così definiti come di frequente viene presentata. Troppo spesso attraverso l’individuazione di linee di tendenza emergenti si costruiscono modelli interpretativi eccessivamente rigidi e univoci. Alcuni fenomeni, correttamente rilevati, diventano architravi di un impianto generale a cui tutto viene fatto corrispondere in maniera troppo deterministica. La riflessione sul post-fordismo non rappresenta un banale esercizio accademico, una ginnastica semantica, ma prefigura interpretazioni e giudizi, seppur differenti, sulla fase che stiamo vivendo. In tal senso a volte i distinguo e le precisazioni non possono essere ridotti a pedante sociologia, poiché dietro interpretazioni molto in voga si nascondono, spesso neppure troppo velatamente, approcci accondiscendenti con l’esistente oppure fascinosi progetti di trasformazione poco ancorati alla realtà. I cambiamenti di questi ultimi decenni hanno dato vita ad un nuovo volto per il mondo intero, dai processi di innovazione tecnologica che hanno innervato tutte le principali trasformazioni socio-economiche e culturali fino al profondo mutare dei rapporti politici e militari del pianeta. Lo sviluppo tecnologico ha consentito l’avvio di un processo di ristrutturazione capitalistica che ha permesso il superamento della crisi interna al sistema stesso e contemporaneamente ha creato un vero e proprio stacco dai livelli di sviluppo del concorrente sovietico e statalista. Attraverso tale processo di innovazione non solo si fronteggiano problemi di carattere strettamente endogeno al sistema, ma si sconfigge la soggettività del lavoro. La resa del lavoro e delle sue organizzazioni permette l’apertura di una nuova fase storica, di un nuovo paradigma. A partire dagli anni Settanta le imprese, con la collaborazione attiva dei governi, impongono una maggiore penetrazione della logica del capitale nella ricerca del profitto, ottengono un incremento della produttività del lavoro, raggiungono una dimensione tendenzialmente globale della produzione, tutto ciò a scapito della protezione sociale e della regolamentazione dell’interesse pubblico1. Nel volgere di un trentennio si sovvertono le caratteristiche preminenti del fordismo. Questo stravolgimento dei meccanismi sociali ed economici induce molti a considerare non solo tramontata una forma del produrre, quella massificata, ma addirittura l’intero modello produttivo. In altri termini è breve il passo dal concepire una fase postfordista al concepirne una postindustriale. Naturalmente il numero degli analisti che ricorre alla categoria del postfordismo non coincide con quello di chi ipotizza il superamento di una società industriale, ma indubbiamente una certa ideologia del postfordismo (quello senza trattino) rappresenta un passaggio inevitabile per liquidare la disposizione complessiva delle società industriali. Da questa considerazione è opportuno partire per provare a mettere a fuoco il processo di transizione avviato con la rivoluzione tecnologica e dell’informazione, in quanto i suoi effetti sembrano aver modificato tanto gli assetti socio-economici e politici, quanto il modo in cui essi sono percepiti. Quest’ultimo a volte prende campo oltre il ragionevole, quasi si venisse intrappolati in una visione totalizzante. Nella trasmissione “Ballarò” del 22 febbraio 2005 il sociologo Domenico De Masi affermava con tranquillità che nella nostra società “postindustriale” ormai “l’80 per cento” dei lavoratori sono lavoratori della conoscenza2. Con questo presupposto, volendo un po’ semplificare, si rende implicito l’affermarsi di una società che ha superato, o sta superando, la produzione industriale, una società in cui gli operatori sono impegnati prevalentemente nella sfera immateriale, ambito nel quale prevalentemente rimangono contraddizioni e bisogni insoddisfatti. È proprio da questa semplificazione, che tante conseguenze può comportare sul piano pratico e teorico, che vorrei prendere le mosse per ragionare di post-fordismo e di mondo del lavoro, in quanto ritengo che la comprensione del lavoro si dia attraverso la sua contestualizzazione nella dimensione produttiva, perché senza ricerca e comprensione dei luoghi del produrre non è pensabile una rappresentazione del lavoro contemporaneo.

1. Società postindustriali nella globalizzazione? Nell’individuare un passaggio da un modello di sviluppo basato prevalentemente sull’industria ad uno incentrato sull’economia immateriale bisogna avanzare alcune precisazioni. Innanzitutto non si possono negare i profondi cambiamenti che stanno attraversando gli attuali profili produttivi. La società dell’”informazionalismo”, come sostiene Manuel Castells, si può definire dal punto di vista tecno-economico capitalista, prova ne è che il principale motore generativo è stato proprio il processo di ristrutturazione avviato tra gli anni Settanta e Ottanta in Occidente, e ha come peculiarità non la centralità della conoscenza e dell’informazione, bensì l’applicazione di conoscenza e informazione a dispositivi che generano altra conoscenza e informazione. Le nuove tecniche di conoscenza e informazione, dunque, non sono più strumenti di applicazione, ma processi da sviluppare. La produzione e l’utilizzo coincidono spesso nel medesimo attore3. Inoltre, grazie allo sviluppo e all’applicazione delle tecnologie è andata affermandosi una separatezza tra produzione e distribuzione prima d’ora inimmaginabile, tale da obbligare a fare i conti con nuove forme dell’assetto produttivo spesso ripartito su scala mondiale. Il processo di globalizzazione, che appare dirimente nella gran parte delle analisi sulle trasformazioni in corso, quando si ragiona di lavoro viene evocato spesso in maniera rituale, senza assurgere a schema interpretativo complessivo, bensì come postulato utilizzato a geometria variabile in funzione di ciò che si intende trattare. La globalizzazione, quindi, appare come categoria intermittente che vale se si tratta di comprendere i processi di internazionalizzazione del capitale, dei flussi di conoscenza, dei modelli culturali sovranazionali emergenti, ma non quando si riflette sulle trasformazioni avvenute nella dimensione produttiva. Tuttavia la globalizzazione è un processo tanto complesso che attraversa tutte le forme del vivere umano, tra cui il produrre e il lavoro. Per queste ultime l’analisi non può restare monca, non può limitarsi a sottolineare i processi di delocalizzazione e la concorrenza internazionale sul costo del lavoro. Altrimenti si evidenziano solo alcuni aspetti, facendo un’operazione, per altro, affatto neutra sul piano politico. I processi di globalizzazione, nonostante abbiano dimostrato di subire vincoli e battute d’arresto, impongono un approccio completo al sistema produttivo, che va oltre la registrazione della fluidità dei luoghi del produrre. La globalizzazione economica costituisce la risultante di uno sviluppo tecnologico che consente la formazione di un sistema per molti aspetti integrale, in cui sono in formazione sempre nuovi equilibri fondati sulla ridislocazione delle risorse tecniche e umane. Non vale sempre, per esempio, lo schema secondo cui esiste una segmentazione delle produzioni immateriali/materiali in una scala diretta dai paesi sviluppati verso quelli emergenti. Due esempi recenti. Il mercato della telefonia mobile è un settore in espansione che ben richiama lo sviluppo tecnologico di quest’epoca. Bene, la Cina nel 2004 è diventata il primo produttore mondiale di telefonini attraendo investimenti sia stranieri che nazionali. L’anno scorso sono stati prodotti 240 milioni di cellulari, 140 dei quali sono stati esportati e il 50 per cento di tali quote di mercato è detenuto direttamente da produttori cinesi4. Nel settore dell’editoria la Cina possiede cifre da capogiro: il 60 per cento dei suoi abitanti dichiara di leggere almeno un libro all’anno contro il 41 per cento degli italiani, nel 2002 sono stati pubblicati 170.962 titoli (di cui 100.000 circa le novità), cioè l’11 per cento in più rispetto all’anno precedente, mentre il numero di copie stampate per anno nel 2002 (ultimo anno con dati disponibili) è stato di 6 miliardi e 750 milioni con un aumento del 6.5 per cento5. Questi dati descrivono un paese con un’economia che non esaurisce il proprio potere concorrenziale su comparti a bassa tecnologia e che al contempo possiede una capacità intellettuale di massa tendenzialmente da società informazionale. Allo stesso tempo non è ancora tramontata la sfera produttiva materiale nelle economie sviluppate. La produzione industriale nei paesi Ocse è aumentata nel 2003 dell’1 per cento e, fatto salvo il biennio 2001-2002, dal 1996 in poi ha visto tassi di crescita superiori al 2 per cento annuo6. Risulta evidente che la produzione industriale nei paesi con economie avanzate sia in profonda trasformazione, ma, come si vede dai dati europei aggregati per settore, non sono solo le produzioni tecnologiche a mantenere livelli crescenti di sviluppo. Questi dati forniscono elementi per ritenere che la produzione industriale nei paesi occidentali sia ancora legata agli andamenti ciclici dell’economia dove, fatto salvo per i risultati negativi del 2001-02, si registrano valori mediamente crescenti seppur non paragonabili a quelli di epoche precedenti. Negli Stati Uniti, per esempio, i valori economici sono generalmente in recupero rispetto alla crisi di inizio secolo, il PIL è passato dal 3.3 per cento del 2003 al 4.4 del 2004, vi è stato un incremento di posti di lavoro pari a 2.2 milioni (conteggio che avviene con modalità differenti dalla tradizione europea, ma che indica comunque una tendenza alla ripresa occupazionale)7 e la stessa produzione industriale ha avuto un incremento del 4.1 per cento, dovuto all’attività nei servizi essenziali a cominciare da quelli elettrici8. Il caso europeo appare più contraddittorio, in quanto il valore della crescita della produzione industriale in senso stretto ancora nel 2003 era sostanzialmente nullo (+0.3 per cento), proseguendo la tendenza al rallentamento innescatasi a partire dal 2001, tuttavia anche su scala continentale i dati disaggregati per settore e per paese forniscono utili informazioni sul tema affrontato in questa sede. La stagnazione ha interessato in modo generalizzato i prodotti manifatturieri, ma con eccezioni positive, quali l’industria dei grandi mezzi di trasporto (attestatasi su valori di produzione pari al 4.6 per cento in più dell’anno precedente), e negative, come il sistema moda (-18.9 per cento). Tra le industrie che hanno mostrato segnali di tenuta, con tassi di crescita intorno al 2 per cento, vi sono quelle degli autoveicoli, dei prodotti da raffinazione e della chimica. Se si analizza invece il triennio 2001-2003 si evince che la produzione industriale dell’UE è diminuita a un tasso medio dello 0.4 per cento e che tale andamento è dovuto a una equa ripartizione tra settori appartenenti al tipo tradizionale (abbigliamento e industria manifatturiera), a quello delle attrezzature meccaniche e, infine, a quello cosiddetto delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (macchine per ufficio, apparecchi radiotelevisivi e per comunicazioni). Mentre a compensare la flessione sono stati principalmente settori tradizionali, quali la chimica, l’alimentare, l’auto e la filiera cartario-editoriale, nei quali, complessivamente considerati, si rileva un aumento pari al 198 per cento. Uno sguardo del fenomeno dal punto di vista della distribuzione geografica conferma un panorama piuttosto articolato. La flessione produttiva, sempre nel triennio 2001-2003, è da attribuire prevalentemente all’andamento decisamente negativo di Italia e Inghilterra da un lato e al marcato rallentamento di Francia e Germania dall’altro. L’attuale debolezza dell’industria italiana è connessa non soltanto ai settore ad alta tecnologia, ma anche al ridimensionamento di alcune produzioni del cosiddetto made in Italy (quali tessile e industria della pelle), mentre tengono settori quali l’alimentare, il legno e la filiera cartario-editoriale. Così a far mantenere livelli accettabili della produzione sul livello dell’UE sono paesi come Irlanda, Spagna e Belgio che hanno registrato un aumento del 60 per cento del manifatturiero9. A partire dagli anni Novanta la diminuzione della quota di produzione industriale su scala europea è stata relativamente contenuta rispetto alle dinamiche statunitensi e dei paesi emergenti. A parte processi di deindustrializzazione come quello inglese e italiano, imputabili a debolezze costitutive di fronte all’aumentata competitività su scala internazionale, in Europa si è affermato un graduale cambiamento della specializzazione produttiva con una inedita divisione del lavoro industriale e con una ridislocazione della produzione su scala continentale mediante processi di concentrazione che riducono, anche decisamente, il numero delle industrie da cui ciascun paese europeo ricava la propria produzione complessiva10. L’abolizione delle barriere, la moneta unica e la progressiva unificazione politica hanno dato vita a una ridislocazione delle risorse produttive che, almeno per ora, non può essere semplificata con lo schema della de-industrializzazione interna e della completa dematerializzazione dell’economia.

2. Verso una società neoindustriale e policentrica Il tema del tramonto della produzione manifatturiera e dell’ascesa di una società postindustriale, dunque, appare tutt’altro che univoco. Il peso dei servizi, senza dimenticare quelli alla produzione, è andato aumentando rispetto all’industria in senso stretto, i sistemi tecnologici e informatici hanno trasformato il produrre, dosi massicce della sfera immateriale sono intervenute nei processi produttivi, ma non sembra ancora tramontata l’industria, cioè la produzione di beni, siano essi materiali o meno. Giuseppe Berta, attento analista del mondo industriale, sostiene che persino per il caso italiano, in cui gli elementi per un declino sono presenti in dosi massicce, “siamo davanti a una metamorfosi economica e produttiva e non a una mera perdita o scomparsa delle componenti maggiori del sistema industriale” e per suffragare questa tesi propone l’esempio del Nord-ovest dove alla crisi e al ridimensionamento della grande impresa si è sostituito un bacino tendenzialmente più omogeneo e diffuso di media impresa, il quale ha consentito nel quadriennio 2000-2003 di aumentare, seppur di poco (oltre 50.000), il numero degli addetti dell’industria. La stessa Lombardia, sottolinea Berta, che rimane il centro più vitale del sistema economico nostrano, ha un’articolazione della media impresa che non è stata superata neppure dalla profonda transizione dall’industria al terziario verificatasi a Milano.11 Il panorama produttivo, allora, si modella su forme inedite in cui la caratteristica predominante non è più data dalla centralità di un comparto, ma dalla coesistenza di modelli produttivi differenti, a volte tra loro antitetici, ma più spesso complementari. L’economia post-fordista si caratterizza per un’elevata dose di flessibilità, in cui i comparti industriali tecnologicamente avanzati convivono con produzioni più tradizionali, dove i processi di globalizzazione rendono strategico il settore dei trasporti aumentandone volume e incidenza, dove i servizi oltre ad essere dedicati alle persone diventano funzionali alla produzione industriale, recuperando dosi massicce di occupati. Il tutto contaminato da nuovi strumenti dell’informazione che mutano l’assetto degli stessi sistemi produttivi più tradizionali, aumentando verticalmente l’incidenza dei flussi linguistici e della comunicazione, trasformando l’ordine di importanza dei fattori dell’epoca fordista. Come afferma Pierre Veltz “non è la somma del lavoro degli individui che conta, ma la qualità e la pertinenza delle comunicazioni stabilite intorno al sistema produttivo”12. Cercando di superare una visione astratta che pone la centralità dell’economia della conoscenza come unica e separata dimensione del cambiamento, si deve indagare su una società in formazione che potrei definire neoindustriale, in cui informazione e conoscenza assurgono a metodo, tendono a diventare valore aggiunto, ma sempre commisurate al produrre. La nuova economia ha aperto nuovi scenari caratterizzati dalla diffusione di prodotti e servizi immateriali che hanno per base e contenuto primario la progettazione, la conoscenza, l’informazione, ma poi le nuove tecnologie sono state impiegate, in virtù della loro natura trasversale, per modificare meccanismi decisionali, schemi organizzativi, procedimenti di lavoro in relazione a strutture aziendali e a forme di gestione non più a catena, bensì a rete. Nelle stesse sue procedure di innovazione l’impresa ha assunto i nuovi strumenti per la ricerca, la progettazione, l’addestramento del personale, le strategie di mercato e la pianificazione degli investimenti, fino al punto da rendere indissociabili, indistinguibili, le nuove tecniche dal regime produttivo13. Che la produzione contemporanea si debba leggere come risultante di un composito insieme di fattori lo confermano anche le preoccupazioni di alcuni paesi europei, come Finlandia e Irlanda, che hanno legato la loro attuale ripresa economica alle nuove tecnologie dell’informazione e della conoscenza. In questi paesi, forti di una crescita attualmente senza paragoni nell’UE, si va affermando l’intento di riequilibrare le proprie aree produttive per ridurre l’eccessiva dipendenza dai settori a forte innovazione ed evitare il divario tra quelli ad alta tecnologia e quelli tradizionali. La crisi del 2000-2001 ha insegnato agli stessi paesi avanzati l’importanza di sistemi maggiormente equilibrati, in cui l’industria, nonostante la riduzione della propria incidenza, sia sempre elemento di supporto e di riequilibrio durante l’esplosione di bolle speculative legate ai settori dell’innovazione spinta. Sarebbe, infine, curioso abdicare ad una visione complessiva proprio in una fase di consumismo radicale e di globalizzazione dei processi. L’agire consumistico e lo spreco di merci caratterizzano sì le società occidentali ma, contemporaneamente, si fondano su una filiera produttiva internazionale. I gradi di interdipendenza globale rendono difficile sul piano analitico la separazione tra conoscenza/informazione e prodotto; vero è che una certa dimensione immateriale del prodotto prevale sulla sua materialità (il suo valore simbolico, estetico o sociale), ma non a tal punto da far rimuovere l’oggetto del produrre stesso. La smania di possedere, spesso al di là delle nostre ragionevoli possibilità, non può negare l’oggetto ambito, sia esso materiale o immateriale, la sua storia produttiva, i suoi produttori. In questo senso uno sguardo sopranazionale ai luoghi della produzione sarebbe necessario per relativizzare un approccio sovente etnocentrico. Un interessante servizio fotografico apparso recentemente sull’inserto “La Repubblica delle Donne” dava il senso, anche visivo, delle dimensioni socio-produttive della Cina attuale: regime di fabbrica tradizionale sia per prodotti meccanici che elettronici, centinaia e centinaia di operai e tecnici in fila, enormi mense aziendali, insediamenti abitativi massificati, tutto richiamava il modello di scala tipicamente fordista14. In quei luoghi, a dimostrazione di un’obiettiva relazione, nascono quei prodotti che da un po’ di tempo a questa parte sono diventati l’incubo dell’economie sviluppate.

3. Il lavoro contemporaneo

Le teorie, spesso immaginifiche, sulla fine del lavoro salariato, sul superamento di qualsiasi regime di dipendenza, su un’organizzazione produttiva che travalica i vincoli materiali e di sfruttamento non fanno i conti con il lavoro reale che viene svolto qui e ora, e non permettono di focalizzare una prospettiva concreta di cambiamento. In un quadro articolato come quello descritto sommariamente, invece, per comprendere adeguatamente il lavoro contemporaneo è utile ripartire proprio dai suoi contenuti, dal suo statuto giuridico e dal suo potere contrattuale. I contenuti. Il lavoro operativo perde tendenzialmente incidenza a favore di quello comunicativo e di controllo, sempre più sovente l’operaio non è più addetto direttamente alla produzione, ma alla sua verifica, la fatica intellettuale va sostituendo quella fisica e così via. Ma anche qui le novità non prefigurano un modello completamente antitetico al precedente, magari caratterizzato dal superamento di tutte le contraddizioni del lavoro fordista. Nonostante i processi d’innovazione alleggeriscano le caratteristiche del lavoro alcuni tratti tradizionali persistono. In un’indagine effettuata dalla Fondazione europea di Dublino risulta che il 40 per cento dei lavoratori e delle lavoratrici del continente svolge mansioni ripetitive, che il 45 per cento non applica alcuna rotazione nelle mansioni, che il 60 per cento ricopre posti dequalificati che consistono in semplici movimenti della mano o del braccio15. Non sempre esiste una netta separazione tra nuovi e vecchi lavori, tra fisicità e sfera intellettuale. Per fare un esempio: nella catena della grande distribuzione, settore tanto in voga in questo momento, il personale ivi impiegato ricopre mansioni meccaniche che producono patologie quali tunnel carpale, tendinite, periartrite scapolare e scapolo omerale. La ripetitività, i ritmi incessanti, la confusione tra il tempo di lavoro e di vita che le nuove tecnologie consentono (o cui le nuove tecnologie costringono), rigettano il lavoro contemporaneo in una nuova condizione di alienante subalternità. Analizzare i settori maggiormente dinamici favorisce la comprensione della complessità dei processi in corso. L’introduzione delle tecnologie digitali, infatti, modifica il quadro del lavoro attraverso nuove forme dell’organizzazione, macchine in possesso di una elevata dose di autonomia funzionale, riduzione della separazione gerarchica. Questa materialità delle cose rende possibile abbozzare un nuovo modello. Il lavoro informatizzato spesso si caratterizza per elevate dosi di despecializzazione e intercambiabilità, poiché è il prodotto di una crescente quantità di tecno-conoscenza incorporata a monte nelle macchine. Come sostiene in un recente libro Sergio Bellucci, la tendenza introdotta dalle mutazioni informatiche s’iscrive nel duplice tentativo di rendere “il meccanismo produttivo il più oggettivo possibile” e di ridurre “l’insubordinazione di chi lavora”16. Le strutture produttive digitali hanno, infatti, il vantaggio di apparire come un dato naturale e al contempo nascosto, la loro pervasività sembra una nuova forma di “naturalità” in quanto smaterializzata e oggettivata, e da ciò deriva un elevato grado di accettabilità sociale (è la macchina e non l’essere umano a determinare le nuove regole). L’autore, pur sottolineando che nella fase digitale risulta complesso individuare un nuovo ordine in forma compiuta, sostiene che sembrerebbe avanzare una sorta di nuova “organizzazione scientifica del lavoro”, che definisce “taylorismo digitale”, basata sulla parcellizzazione del lavoro, la disgiunzione delle sue capacità attraverso la flessibilità e, infine, il controllo endogeno. Lo statuto giuridico. La produzione è divenuta flessibile con l’affermarsi della saturazione dei mercati e il modello di accumulazione ha dovuto fare i conti con la limitatezza delle aree commerciali geografiche e sociali. L’Occidente ha registrato un rallentamento strutturale della crescita compensato, solo parzialmente, da alcuni paesi emergenti. L’offerta ha dovuto inseguire/costruire una domanda variabile e frammentata. Da qui il superamento del modello fordista di scala, la produzione di massa standardizzata, il declino, anche se non la scomparsa, dell’operaio massa conosciuto fino a metà degli anni Settanta. Ad una produzione elastica è corrisposta l’immissione di elevate dosi di flessibilità nel mercato del lavoro fino alla messa in discussione dello status giuridico-contrattuale del lavoro nei confronti del capitale, attraverso una relazione sempre più individualizzante con il dipendente. Si va affermando, così, una libera relazione mercantile tra parti, solo formalmente paritetica, e viene rimosso l’agire collettivo del lavoro nelle relazioni industriali. I processi di esternalizzazione e di frammentazione produttiva trasformano il rapporto tra capitale e lavoro sostanzialmente in una relazione di mercato soggetta unicamente alla logica della domanda e dell’offerta, con un’obbiettiva disparita tra gli attori in campo, volta a rendere pervasivo un meccanismo fondato sulla competizione. Nel lavoro vengono inserite quantità massicce di precarietà tali da renderlo sempre più debole nella sua capacità di negoziazione. La flessibilità generalmente non si afferma per il profilo cooperante e meno vincolato delle moderne prestazioni, ma per un sistema competitivo estremo che fa del comando e della riduzione del costo del lavoro i suoi tratti salienti. Non cresce semplicemente il volume del lavoro precario, ma si va imponendo la precarizzazione dell’intero lavoro. La crescita del lavoro precario è in funzione degli andamenti ciclici dell’economia: negli anni Novanta ad un ridotto aumento occupazionale ha corrisposto un aumento del lavoro atipico, ma nei primi anni del nuovo secolo il maggiore incremento degli occupati è stato trainato dalle assunzioni di dipendenti stabili (dal 2001 in avanti il rapporto tra dipendenti e atipici, o formalmente autonomi, nei nuovi assunti è all’incirca di 7 a 317). Ciò significa che per l’impresa non basta avere unicamente dipendenti precari e poco affidabili, a cui offrire magari un lavoro poco interessante e neppure garantito, ma che si deve raggiungere un indebolimento complessivo e strutturale dell’intero lavoro dipendente pur mantenendo un contesto apparente di stabilità e dedizione. In questo senso la partita in gioco è quella di rendere il lavoro una variabile dipendente dell’impresa, indebolendo i contratti nazionali, la capacità di autodifesa (favorendo anche la flessibilità in uscita), i luoghi di concentrazione e omogeneità, e non tanto di mettere in discussione la formula prevalente del lavoro salariato. Il potere contrattuale. La sconfitta operaia subita a partire dalla seconda metà degli anni Settanta ha significato disarticolazione, frammentazione e marginalizzazione sociale del lavoro, con effetti non solo nell’organizzazione produttiva, nel ritrovato ruolo di comando dell’impresa, ma progressivamente nella perdita di capacità contrattuale per lavoratori e lavoratrici. Durante e dopo la sconfitta operaia sono emerse nei partiti di sinistra e nei sindacati inadeguate teorie moderate e compromissorie che hanno privilegiato la tenuta dell’intero sistema, considerandola essenziale per le sorti del lavoro e proponendo una dubbia coincidenza di interessi e una pericolosa politica dei due tempi (risanamento prima, espansione poi). I risultati non si sono fatti attendere e a distanza di oltre 25 anni il bilancio non è certo esaltante. Sostanzialmente si può ammettere che i rapporti di forza tra le classi si siano nuovamente invertiti: ridimensionamento del potere e del reddito del lavoro, crescita dei profitti e nuova centralità dell’impresa. Tale tendenza si è affermata a livello internazionale, con una particolare accentuazione per il caso italiano che sta trasformandosi in una anomalia alla rovescia. Paragonando la quota dei redditi da lavoro dipendente in Italia dal 1972 al 2000 si vede che tale quota è scesa dal 50.6 per cento al 40.6, cioè si sono persi 10 punti di PIL a favore di altri redditi, rendite e lavoro autonomo. Considerato però che le dimensioni del lavoro dipendente non sono cambiate così radicalmente (ad esempio nel 1990 la quota di lavoro dipendente era del 68 per cento, nel 1995 del 67 e nel 2000 del 7518) emerge un dato di forte ridimensionamento dei redditi di questo settore. A riprova c’è il fatto che in altri paesi europei, come la Francia, la Germania o la Spagna, tale quota si mantiene costante intorno al 50 per cento, mentre nel Regno Unito, sebbene sindacati e lavoratori siano stati duramente colpiti dal tacherismo, questa quota è diminuita di soli 3 punti, ma partendo da un livello molto più alto, cioè il 58 per cento19. I dati nel lungo periodo permettono di individuare una linea di tendenza storica e di grande portata che trascende le dispute tra destra e sinistra su chi sia il responsabile contingente di questo misfatto. La linea di tendenza non viene invertita neppure negli anni recenti. L’istituto di ricerche della stessa Cgil, facendo un bilancio dei primi dieci anni di concertazione (1993-2002), ammette che il peso principale del risanamento economico è gravato sul lavoro, con modesti aumenti salariali, crescente pressione fiscale e aumento del costo della vita. In questo periodo il potere d’acquisto dei salari ha perso lo 0.3 per cento annuo, mentre il tasso medio annuo di crescita della produttività ha superato quello delle retribuzioni dell’1.1 per cento20. In una indagine presentata all’inizio dell’anno risulta che i salari medi dei lavoratori dipendenti hanno perso tra il 2002 e il 2004, tra inflazione e mancato recupero del fiscal drag, complessivamente 1.224 euro, calcolati su un reddito di 22 mila euro21. Le retribuzioni, quindi, anche in questi ultimi anni crescono ad un tasso inferiore a quello dell’inflazione registrata, che come sappiamo in tempi di euro è ben inferiore a quella effettiva (che le associazioni dei consumatori calcolano tra il 4 e il 6 per cento), rendendo urgente la questione salariale. Prevedere il lavoro che verrà, dunque, può risultare utile nella misura in cui ciò facilita la comprensione del lavoro che c’è ancora insieme a quello che c’è già, quello da cui complessivamente dipendono milioni di individui nella nostra società. Le due facce del lavoro non sono separabili. Una vulgata semplificatoria non fa un buon servizio né alla teoria né all’azione sociale.

Note

* Esperto di problemi delle trasformazioni del mondo del lavoro.

1 Castells M., La nascita della società in rete, Bocconi editore, Milano 2002, pp. 19-65.

2 Si veda anche De Masi D., Il futuro del lavoro. Fatica e ozio nella società postindustriale, Rizzoli, Milano 2003.

3 Castells M., op. cit., p. 32.

4 Centro di Servizi e Documentazione per la Cooperazione Economica Internazionale, Cina: primato nella produzione di cellulari, 21 febbraio 2005, in www.informest.it, 23 febbraio 2005.

5 Salis S., In Cina vincono gli editori anglosassoni, in “Il Sole 24 Ore”, 23 febbraio 2005.

6 Centro studi Confindustria, Rapporto sull’industria italiana. Il quadro generale, 2004, p. 4, in www.confindustria.it, 20 febbraio 2005.

7 Valsania M., L’economia USA a pieni giri, in “Il Sole 24 Ore”, 26 febbraio 2005.

8 Valsania M., America, per l’industria ripresa dopo quattro anni, in “Il Sole 24 Ore”, 15 gennaio 2005.

9 Tutti i dati sono tratti da Centro Studi Confindustria, Op. cit., 2004, pp. 10-12, in www.confindustria.it, 20 febbraio 2005. 10 Centro studi Confindustria, Previsioni dell’economia italiana, n. 2, dicembre 2004, p. 17, in www.confindustria.it, 20 febbraio 2005.

11 Berta G., Metamorfosi. L’industria italiana fra declino e trasformazione, Bocconi Editore, Milano 2004, pp. 36-40.

12 Veltz P., La nouvelle révolution industrielle, in “Reveu du Mauss”, n. 18, 2001, p. 67.

13 Castronovo V., Il digitale ha fatto sboom, in “Il Sole 24 Ore”, 30 dicembre 2001.

14 Vita da boom, in “La Repubblica delle Donne”, 5 febbraio 2005, pp. 28-36.

15 European foundation, Working Conditions in Europe 1997, in www.eurofound.eu.iu, 10 settembre 2001.

16 Bellucci S., E-work. Lavoro, rete, innovazione, DeriveApprodi, Roma 2005, pp. 55-87.

17 Si veda www.osservatorio.inail.it, 10 febbraio 2005.

18 Censis, Le nuove forme di lavoro dipendente, in www.censis.it, 15 settembre 2002.

19 Gallino L., La scomparsa dell’Italia industriale, relazione tenuta per il Circolo Dossetti di Milano, 27 marzo 2004.

20 Megale A. (a cura di), La politica dei redditi negli anni ’90, Ediesse, Roma 2003.

21 Si vedano i dati in www.ires.it, 29 gennaio 2005.