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Il contraddittorio legame tra le trasformazioni economico-produttive e alcuni passaggi chiave della storia del movimento sindacale dal dopoguerra ad oggi (quarta parte)

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Luciano Vasapollo
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Docente di Economia Aziendale, Fac. di Scienze Statistiche, Università’ “La Sapienza”, Roma; Direttore Responsabile Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali (CESTES) - Proteo.

Rita Martufi
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Consulente ricercatrice socio-economica; membro del Comitato Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico Sociali (CESTES) - PROTEO

Sabino Venezia
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Rita Martufi, Luciano Vasapollo, Sabino Venezia


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Il contraddittorio legame tra le trasformazioni economico-produttive e alcuni passaggi chiave della storia del movimento sindacale dal dopoguerra ad oggi (quarta parte)

Luciano Vasapollo

Rita Martufi

Sabino Venezia

Tra Europa del capitale e neo-concertazione di Montezemolo

Questo lavoro costituisce una prima bozza di discussione che la redazione di PROTEO presenta ai propri lettori dalle cui osservazioni ci proponiamo non solo di “ imparare” su un argomento storico-economico tutto aperto e in cui sicuramente non siamo specialisti, ma anche di prender spunto per le correzioni di tiro e gli ulteriori approfondimenti.

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1. Il processo evolutivo del sistema economico italiano Essendo questa l’ultima parte dell’analisi-inchiesta è opportuno fare un quadro riepilogativo. In cinquant’anni in nostro Paese è stato attraversato da numerosi cambiamenti sociali, economici e politici, che hanno “stravolto” le abitudini degli italiani. Alla fine della guerra, a esempio, l’Italia era un Paese a economia prevalentemente agricola, con poche industrie concentrate nel nord del Paese, con scarse risorse e di conseguenza strutturalmente portato alla non piena occupazione. Negli anni che seguono fu caratterizzata da una crescente industrializzazione e da una conseguente piena occupazione, che l’ ha portata ad assumere un ruolo da protagonista nell’economia mondiale. A oggi, l’economia italiana è orientata verso l’espansione del settore del terziario e del terziario avanzato. Il passaggio da una produzione rurale a una di servizi, è avvenuto in maniera graduale e attraverso fenomeni che lo hanno fortemente caratterizzato. Si ricordano, a esempio, i flussi migratori da e per l’Italia, gli scontri sociali e politici, le grandi crisi internazionali, i periodici mutamenti produttivi e tecnologici. Come si è detto, gli aspetti positivi del miracolo economico diedero vita allo sviluppo, alla stabilità monetaria e all’equilibrio dei conti con l’estero, ma il risvolto della medaglia, furono massicce migrazioni di lavoratori sia interne che verso l’estero, la scarsa crescita del Mezzogiorno e i fenomeni dell’urbanizzazione e della terziarizzazione (Grafico 1). Per quanto riguarda le correnti migratorie, le decisioni di puntare su settori produttivi già avviati nel Nord, di fatto trascurò volutamente l’industrializzazione di altre regioni. Questo diede vita a una corrente migratoria di dimensioni enormi. Se le correnti migratorie transoceaniche perdono gradualmente di importanza, un flusso sempre più massiccio di migrazioni dirette verso l’Europa e soprattutto una crescente migrazione interna portarono a quasi due milioni di persone, pari al 12% della popolazione presente nel Mezzogiorno, ad abbandonare il Meridione per spostarsi metà verso destinazioni nazionali e metà verso destinazioni internazionali. Negli anni immediatamente successivi questi movimenti mutarono ulteriormente. Infatti, l’accresciuta capacità occupazionale delle industrie settentrionali portò al totale annullamento delle emigrazioni dal Nord Italia verso l’estero; mentre gli emigranti del Mezzogiorno andarono per tre quarti nel triangolo industriale e soltanto un quarto verso l’estero. C’è da dire, comunque, che le migrazioni dal Mezzogiorno riguardavano soprattutto le regioni più povere del sud, mentre le zone urbane tendevano ad accrescere la popolazione. Lo sviluppo dell’industria del Nord, comunque, non riuscì a occupare tutta la manodopera in Italia. Infatti, le migrazioni del Mezzogiorno e l’esodo agricolo accrebbero i senza lavoro che popolavano le regioni del Nord. Quindi a chi era in cerca di occupazione non restava che cimentarsi nel settore terziario. Iniziò, così, un’espansione degli addetti ai servizi che sarà un polmone occupazionale importante per il futuro dell’Italia. Nello specifico i lavoratori si concentrarono nella distribuzione commerciale e in servizi quale, a esempio, la Pubblica Amministrazione. La valvola di sfogo occupazionale nella Pubblica Amministrazione permise soprattutto l’assorbimento di lavoratori meridionali; anche se mancano statistiche precise, è noto che la maggioranza di pubblici funzionari proviene dalle regioni del Sud. Una simile considerazione si può fare anche per le Amministrazioni locali (non solo al Sud) che negli anni sono andate allargando i propri quadri. Negli anni sessanta e settanta la figura del lavoratore trova sostegno nei sindacati che danno vita a una serie di iniziative di lotta volte al miglioramento della vita, non solo lavorativa, ma anche sociale degli italiani. Questo è stato possibile perché le ideologie che accompagnavano le varie sigle sindacali venivano considerate dal lavoratore un prolungamento ideologico del partito di riferimento. Questo permise ad alcuni partiti politici e ai sindacati di avere un legame pressoché indissolubile soprattutto con le masse operaie. Masse operaie che contrariamente ai primi del dopoguerra non erano più composte esclusivamente da analfabeti, ma da individui con un più alto grado d’istruzione. Se, infatti, la mancanza di un adeguata alfabetizzazione aveva portato milioni di individui a subire passivamente una situazione socio-lavorativa degradante e ad abbandonare per un posto fisso le regioni di appartenenza, in seguito la maturazione culturale e politica li aveva portati a una maggiore consapevolezza di classe. Conseguenza diretta fu, come si è detto, sì i violenti scontri sociali, ma soprattutto le grandi conquiste socio-occupazionali. Sono gli anni, infatti, della grande stagione di lotte e conquiste operaie, in fabbrica, ma anche nel sociale come la riforma del diritto di famiglia, della legge sull’aborto, dello Statuto dei Lavoratori e le conquiste del movimento femminista. In questi anni si inizia a manifestare il declino dell’industria che per quasi dieci anni aveva contribuito allo sviluppo economico-sociale del Paese. Per contro inizia ad affermarsi il settore terziario, per il nuovo ruolo assegnato all’Italia nella divisione internazionale del lavoro. La trasformazione della geografia dello sviluppo, in Italia, avvenuta in particolare negli ultimi due decenni, è dovuta, oltre che ad un intenso processo di terziarizzazione, anche ad una diversa connotazione sia quantitativa sia, soprattutto, qualitativa delle attività produttive che attraverso la flessibilità aziendale determina forti processi di ridefinizione, specializzazione e diversificazione, attuando così un’imposizione ad un adattamento attivo dei nuovi soggetti del lavoro e del non lavoro alla sua tipologia e cultura organizzativa. Se è vero che in ultima analisi continua la tendenza dell’assetto produttivo alla terziarizzazione, accompagnata oltre che da un evidente diminuito peso dell’agricoltura anche da più o meno evidenti processi di deindustrializzazione, è allo stesso tempo vero che i profondi mutamenti in atto nella vita politica, sociale, economica e aziendale, pur apportando nuovi ed importanti elementi al dibattito, spesso a causa di valutazioni non corrette hanno introdotto nel già confuso dibattito ulteriori motivi di confusione, fino al punto di considerare come sviluppo gli obiettivi prefissati e adattati al complesso delle condizioni sociali e ambientali, comunque finalizzati alle compatibilità del mercato e del profitto. Ad esempio gli stessi incrementi di imprenditorialità che emergono dai dati ufficiali sono causati soprattutto dallo spropositato aumento di “partite IVA”. Queste nuove figure del mondo del lavoro derivanti da processi di espulsione di manodopera e di esternalizzaizone altro non sono che “ditte individuali”, le quali rappresentano il cosiddetto lavoro autonomo di ultima generazione. Si tratta nella maggior parte dei casi di ex lavoratori dipendenti di fatto precarizzati, non più garantiti nella continuità del lavoro, espulsi dall’impresa madre e assoggettati a una nuova forma di lavoro a cottimo, fuori dalle garanzie normative e retribuite del lavoro dipendente. Dietro l’illusione del “fai da te”, dell’”autoimprenditorialità”, della libertà economico-sociale derivante dell’autocelebrazione del farsi “imprenditori di se stessi”, troviamo sempre una nuova forma di lavoro subordinato, privo di normativa, un supersfruttamento a cottimo, con la mancanza assoluta di garanzie sociali a causa della mancanza di coperture assicurative (sanità, pensione, infortunistica, assistenza varia). Se nella realtà attuale viene a cadere il legame indissolubile fra impresa e imprenditore, se predominante diventa lo studio della funzione sociale e la nuova logica territoriale dell’attività imprenditoriale rispetto alla figura tradizionale della fabbrica e dell’imprenditore, allora anche il modello consociativo si deve affinare, si devono elaborare metodi, modelli, capaci di plasmare in funzione della nuova fabbrica sociale generalizzata, una diversa, moderna funzione di regolamentazione e di governo della società. Inserire ad esempio i rappresentanti dei lavoratori, insieme al top-management e ai rappresentanti della proprietà, nel nuovo soggetto imprenditoriale plurimo significa riconoscere ai lavoratori la possibilità di partecipare ai processi decisionali aziendali senza però incidere sul governo dei flussi di accumulazione, visti come compartecipazione ai processi di ripartizione non solo reddituali ma anche della nuova ricchezza materiale e immateriale creata nel tempo in azienda. Il riconoscimento ai lavoratori della possibilità di partecipazione al “gioco” di ridefinizione dei meccanismi di controllo, di governo senza la partecipazione all’accumulazione, avviene in chiave coercitiva e di controllo soltanto attraverso momenti di cooperazione e di compartecipazione alla proprietà, coinvolgendo i lavoratori nelle scelte dell’amministrazione economica, attraverso finti processi di democratizzazione del sistema azienda e del sistema economico nel suo complesso. L’enfasi e la passionalità che hanno caratterizzato l’impegno politico di tutti i lavoratori in Italia negli anni settanta, vengono lentamente e inesorabilmente meno negli anni che seguiranno grazie alla grande offensiva politica economico-sociale e soprattutto culturale del capitale contro il lavoro. Questa offensiva colpisce la vita socio-occupazionale e determina una maggiore libertà di manovra da parte delle grandi industrie, che negli anni passati dovevano concordare con i sindacati e le strutture di base dei lavoratori le strategie aziendali. Iniziano, quindi, ad affermarsi sia contratti lavorativi, che negli anni precedenti avevano ricoperto un ruolo marginale, sia strategie di mercato volte al mero profitto sconfiggendo qualsiasi ipotesi consociativa di partecipazione diretta del lavoratore nel processo produttivo industriale, come parte integrante di esso. La situazione di transizione e di compressione del conflitto sociale raggiunge il culmine nei primi anni ’90, anni in cui il modello concertativo voluto dai sindacati tradizionali porta un calo vistoso delle ore perdute per ragioni lavorative, ma crescono in maniera rilevante le ore di sciopero con finalità extralavorative. (Grafico 2). Già dai primi anni ’90, il “benessere” degli anni passati è ormai una lontana illusione. Gli scandali economici, il precariato occupazionale, la crescita del debito pubblico ormai fanno parte della vita quotidiana. Per contro i lavoratori con le loro strutture di base prendono nuovamente consapevolezza della propria forza, si ritrova la vitalità per tornare nuovamente a combattere per i propri diritti occupazionali, ma in un modo completamente diverso: gestendo autonomamente ogni forma di dissenso con un conflitto di base organizzato dal sindacalismo di base. Il motivo di ciò risiede in primo luogo nella perdita di contatto sociale dei sindacati confederali con i lavoratori, e dal consolidarsi di strutture sindacali di base e organizzazioni parallele più vicine ai quotidiani bisogni individuali (si citano tra le altre ad esempio le associazioni ambientaliste e di consumatori). Gli ultimi anni esaminati vedono il declino della grande industria e dell’agricoltura, ma il non avanzamento del settore terziario (Grafico 3). Anche i settori tecnologico-informatico, che avevano fatto intravedere un intenso sviluppo all’inizio degli anni ’90, subiscono un forte rallentamento. Gli anni duemila risultano, inoltre, anomali rispetto ai periodi trascorsi perché da essi non emerge una componente produttiva fortemente caratterizzante. Se, infatti, il periodo prebellico era stato contrassegnato da una forte componente agricola, gli anni del miracolo economico erano stati contraddistinti dallo sviluppo industriale, gli anni ’70 e ’80 trovavano spiegazione nella nascita di settori alternativi e comunque di un terziario nuovo ma fortemente caratterizzato dal supporto all’industria, e gli anni ’90 trovavano la consacrazione del settore terziario implicito ed esplicito con forte caratterizzazione di terziario innovativo, tanto da far parlare di epoca del terziario avanzato o del quaternario; il periodo di fine millennio si colloca in una fase di assestamento dove tutti i comparti del terziario contribuiscono allo sviluppo economico, ma nessuno di questi determina in maniera significativa l’andamento socio-produttivo del Paese, o meglio l’aspetto veramente innovativo è nelle trasformazioni degli assetti tipologici del mercato del lavoro con la definitiva avanzata dei lavori cosiddetti atipici. A causa di questo stato di cose, quindi, aumentano le persone prive di occupazione e coloro che per lavorare sono disposti a qualsiasi tipo di contratto, alla precarietà assoluta. E uno degli elementi caratterizzante di questo periodo è la nascita di contratti lavorativi e professionali atipici. Proprio queste nuove realtà occupazionali modificano brutalmente le abitudini di vita degli italiani e danno vita una nuova soggettualità del lavoro e ad una nuova stagione di lotte del lavoro e sociali, come la forte battaglia per il Reddito Sociale per disoccupati e precari. L’italiano medio, infatti, si trova a vivere una situazione totalmente precaria. La mancanza di un lavoro stabile, come si è detto, non garantisce, un adeguato livello di sussistenza e, cosa ancora più grave, non permette di programmare una vita degna nel lavoro e nel vivere sociale complessivo. A peggiorare ulteriormente la situazione si aggiungono i lavoratori irregolari sia nazionali che stranieri, che per la possibilità di ottenere un lavoro sono disposti a rinunciare ai propri diritti. Benché non ci siano dati statistici aggiornati a conferma, è lecito pensare che la situazione di precariato sociale e occupazionale abbia nuovamente invertito il trend migratorio. Non è esagerato pensare, infatti, che in un futuro non troppo lontano nuove masse di lavoratori di aree italiane più depresse cercheranno fortuna in altri paesi a capitalismo maturo alla ricerca di occasioni di lavoro più stabile e con maggiori garanzie. Lo stato in cui versa la nostra società è di certo preoccupante, da un lato è necessario cambiare rotta per permettere ai lavoratori vita migliore a partire da un consolidamento economico-salariale, ma soprattutto nella conquista dei diritti e della dignità che le scelte neoliberiste e concertative hanno seriamente intaccato. Attualmente il sindacato confederale non sembra in condizione di raccogliere adeguatamente le proteste dei suoi molti iscritti, lasciando così alle imprese la libertà di manipolare la vita lavorativa e sociale dei lavoratori, la scelta concertativa e contro ogni forma di conflitto a garanzia della modalità delle sviluppo capitalista e contro l’autonomia di classe è ormai defintiva.

2. Concertazione e Profit State

La metà degli anni ’90 sono caratterizzati dalla “...riforma delle pensioni, e sul versante della contrattazione di categoria...dal ...rinnovo del secondo biennio contrattuale di importanti comparti del mondo del lavoro, come quello dei metalmeccanici.”4 Gli italiani vanno al voto su dodici quesiti referendari. Vincono i «no» nei referendum sul sistema televisivo. Vince il «sì» sul quesito relativo alla privatizzazione della Rai e si salva il doppio turno nelle elezioni comunali. Passa anche il referendum sulla rappresentanza sindacale, voluto dalla sinistra sindacale della CGIL nel ’93; il risultato referendario però facilita ulteriormente l’attuazione degli accordi di Luglio ’93, anticipando e legittimando il criterio di attribuzione dei diritti sindacali ai soli firmatari di contratto, regalando di nuovo il monopolio della rappresentanza a CGIL, CISL, UIL. “questo regalo della sinistra sindacale si colloca di fatto in una tendenza consolidata e strategica di restringimento delle agibilità sindacali e del diritto di sciopero”5. Lira e Borsa risentono dei risultati dei referendum ed entrano subito in una fase di difficoltà. L’indice Mibtel di Piazza Affari sale del 4,5% solo sull’onda dell’ entusiasmo seguito all’incarico a Lamberto Dini. Secondo le rilevazioni ISTAT il Pil è cresciuto del 3,7% rispetto al corrispondente periodo del 1993. Sale la produzione industriale ma cala l’occupazione particolarmente nella grande industria e continua rafforzandosi la tendenza verso la flessibilizzazione a connotato di precarietà del mercato del lavoro. L’ INPS decide di non rimborsare gli arretrati e di non corrispondere gli aumenti al milione di pensionati interessati dalle sentenze della Corte Costituzionale. E in tale clima di restaurazione del comando del capitale se ne va la prima metà degli anni ’90. Il 22 marzo del ’97 CGIL, CISL, UIL, proclamano una manifestazione nazionale per rilanciare la centralità del lavoro e dello sviluppo del Mezzogiorno. Quattrocentomila lavoratori manifestano a Roma per sollecitare l’attuazione integrale del “patto sul lavoro”, intesa raggiunta con il governo il 24 settembre del ’96. Sostanzialmente si rivendica una nuova politica per l’occupazione al governo dell’Ulivo. Ma il 1997 passa alla storia per due significativi eventi: l’accordo sulle pensioni e l’imponente manifestazione contro la secessione. Il governo Dini prepara un progetto di riforma delle pensioni; non è molto diverso da quello presentato dallo stesso Dini allora Ministro del Tesoro del Governo Berlusconi e questo non desta grandi sconvolgimenti. La vera differenza sta nelle reazioni che i due progetti hanno prodotto: nel periodo dell’esperienza berlusconiana si è risposto con una grande ripresa dell’iniziativa di lotta e con manifestazioni di milioni di lavoratori per una riforma che migliorasse il sistema pensionistico e non che lo abolisse; durante l’esperienza di centro - sinistra solo il sindacalismo di base ed alcune forze politiche in particolare dell’associazionismo di base, con grandi difficoltà, contestano le politiche neoliberiste dei governi progressisti; lo stesso sindacato confederale che si era fieramente battuto contro Dini, Ministro di Berlusconi, lo appoggerà da presidente del Consiglio del Governo dei Tecnici (ricco di uomini del potere finanziario e confindustriale). Il 20 settembre del 1997, un milione di persone scendono in piazza con CGIL, CISL, UIL, a difesa dell”’unità del Paese e per il federalismo solidale”. In altre parole il sindacato si mobilita per difendere i principi della stragrande maggioranza dei lavoratori che manifestano pacificamente a Milano e a Venezia, contro le spinte secessioniste e contro chi le alimentava, in particolare la Lega. L’11 novembre dello stesso anno viene raggiunta quella che l’allora presidente del Consiglio, Romano Prodi, definì “una storica intesa” sulle pensioni tra governo e sindacati. L’accordo di “Ognissanti”, come invece lo definirono i media, stabiliva una sostanziale parità di regole per tutti coloro che dovevano andare in quiescenza ed accelerava il percorso di riforma del ’95 per mandare in pensione di anzianità gli italiani con meno di 35 anni di servizio e 57 anni di età. L’accordo cancella le pensioni baby, cioè la possibilità per gli statali di lasciare il lavoro con meno di 35 anni di contributi. I cambiamenti, compreso il blocco delle uscite (per un anno) per 32 mila insegnanti e il divieto di cumulo per gli ex dipendenti privati, sarebbero scattati a partire dal ’98. Sul versante della contrattazione, nel ’97, quasi due milioni di lavoratori sono alle prese con un contratto scaduto, mentre un altro milione sono interessati al confronto per il rinnovo del secondo biennio contrattuale. Le più importanti vertenze aperte sono quelle di metalmeccanici, edili, imprese di pulizia, autoferrotranvieri, ferrovieri, alimentari, tessili.6 Quasi a dare man forte all’opposizione che sta creando problemi al Governo, il 19 giugno ’98 scendono in piazza le tre confederazioni per una manifestazione sul lavoro. “Prima c’era la DC e si sperava, poi é arrivata la destra e si sperava, adesso ci stiamo noi a Palazzo Chigi, ma il lavoro non c’è, e nemmeno la speranza”, affermavano con rabbia molti manifestanti. L’ultimatum a Prodi si è sentito chiaro e forte venire da ampi settori della piazza. - Ma la manifestazione é poco riuscita e non è di massa, dovevano essere a Roma 600.000 partecipanti, se ne sono contati molto meno, i sindacati dicono 100 mila, la questura 40/60.000. Oltre che per il voto sembra ci sia disaffezione anche nelle manifestazioni. Comunque, una palese assenza, forse una protesta contro le politiche concertative, un campanello d’allarme. È l’anno dell’apertura formale del confronto per la verifica del protocollo ’93, secondo la CGIL “...i due livelli di contrattazione devono restare distinti. Il contratto nazionale deve servire per tutelare il potere di acquisto delle retribuzioni, con gli effetti che questo genera anche sulle dinamiche previdenziali e sul valore delle pensioni. Il secondo livello deve servire per operare sugli obiettivi di produttività, e quindi sull’organizzazione del lavoro, sulle condizioni di lavoro e sull’efficacia degli impianti. Per quanto riguarda le parti sociali e le “regole” la Cgil pensa ad una procedura basata su un dovere di consultazione da parte dell’esecutivo e un diritto di proposta delle parti. Il Governo ha poi il diritto di accettarla o respingerla. Gli obiettivi sono: Politica economica finalizzata alla crescita, al lavoro e al riequilibrio Nord-Sud. Completamento delle politiche di risanamento e di integrazione europea. Per una linea politica di sviluppo che porti a questi obiettivi è fondamentale la conferma della politica dei redditi ed il mantenimento dell’impianto contrattuale utilizzato in questi anni.”7

In effetti la verifica confermerà i protocolli del ’93 assecondando quelle scelte concertative e riconfermando un percorso lesivo degli interessi dei lavoratori. La contrattazione nazionale non sarebbe più riuscita a garantire il potere di acquisto dei salari, il tasso di inflazione programmata produrrà un ricarico economico sui salari base, totalmente inadeguato al valore della vita e l’inflazione reale resterà profondamente maggiore di quella programmata (come del resto rileveranno anche le associazioni di difesa dei cittadini). Il secondo livello di contrattazione, in effetti, servirà realmente ad operare sugli obiettivi di produttività ma solo legando il salario accessorio all’aumento dei carichi di lavoro (visto anche il blocco delle assunzioni, nella Pubblica Amministrazione, come unico vero strumento di contenimento della spesa), alla meritocrazia ed alle dinamiche di valorizzazione degli impianti. Riconfermato anche l’impianto delle regole: informazione, consultazione e concertazione sono gli unici diritti del sindacato e sulle proposte la controparte può accettarle o respingerle. Restano comunque gli obiettivi a fare la differenza; a cinque anni dalla firma degli accordi la tanto agognata crescita non si registra, il lavoro non è aumentato, né si è realizzato il riequilibrio Nord - Sud. Ma “siamo in Europa” (e ci resteremo con non poche difficoltà), in quell’Europa Economica, Finanziaria, del Capitale, che tutti continuano a disegnarci come una grande opportunità per i popoli ma che ha già cominciato ad imporsi sullo scacchiere internazionale come potenza economica con la quale fare i conti, un vero e proprio polo geopolitico e geoeconomico nella competizione globale capitalista. Anche la CISL, che aveva aperto il XII° congresso del ’93 con lo slogan “Dalle difficoltà alle opportunità”8, «verifica» gli accordi a quattro anni di distanza nel XIII° Congresso con una relazione del “Segretario generale Sergio D’Antoni mirata a definire la nuova CISL per il nuovo sindacato e intitolata: “Negoziamo il futuro”. Temi base della relazione sono quelli del ‘sindacato, la politica, i valori’, della ‘concertazione’, del passaggio ad ‘un nuovo Stato sociale’, del ‘rilancio dell’economià, del ‘lavoro e i lavori’, della ‘democrazia economicà, de ‘l’unità sindacale’, de ‘l’Europa’, del ‘sindacato domani’. Il dibattito congressuale si conclude con la replica di Sergio D’Antoni che invita tutti i cislini ad impegnarsi per rendere ancora più forte e grande la CISL, sapendo che ‘il futuro è iniziato e noi lo negoziamo’.”9

Ma nel futuro del Paese c’è bisogno di lavoro vero a pieno salario e pieni diritti, e i recenti negoziati non promettono niente di buono; al Governo c’è il centro - sinistra e sul lavoro è allarme rosso. I sindacati confederali si scollano dalla base rischiando rotture e allora tentano il recupero, dichiarando che la “Situazione è esplosiva”. Duro attacco della CGIL; Cofferati: “Sarà un settembre distruttivo. Si sta mettendo a rischio la politica dei redditi che ha permesso il risanamento. Si sta creando un groviglio inestricabile di tensioni sociali, ritardi e contraddizioni che finiranno per mettere a repentaglio i rapporti sociali, con ricaduta sul quadro politico”. - D’Antoni va oltre: “Sciopero generale a settembre. Sul lavoro e sviluppo siamo alla paralisi. Il Governo ha di fatto abbandonato la concertazione”: - Ma lo sciopero spacca i sindacati e il Governo vara la nuova Irpef comunale e Ciampi, Presidente del Consiglio, ha avvisato gli imprenditori “Non pioverà altra manna dal cielo” ma poi mette sul tavolo del Consiglio dei Ministri la questione dei tagli nella pubblica amministrazione e lo stop agli sprechi. Parte la sperimentazione del reddito minimo di 500.000 Lire mensili a 40.000 famiglie povere in 42 Comuni, chiamato “Piano della Solidarietà Sociale” di Livia Turco, cioè si privatizza e si attacca lo Stato sociale e si lancia il “Welfare dei Miserabili”, con il passaggio dall’universalismo delle prestazioni al soccorso caritatevole solo per “gli esclusi”. Secondo il CNEL, gli occupati nell’area dell’economia sommersa coinvolge cinque milioni di lavoratori. La Concertazione avrebbe dovuto garantire un lavoro vero che ancora non si apprezza, inoltre è allo studio un provvedimento del Consiglio dei Ministri per una specie di sanatoria delle aziende che hanno evaso i contributi. Per ogni anno di evasione, 1,2 milione per ogni lavoratore, il tutto pagabile in 40 rate trimestrali, cioè in dieci anni e senza interessi. Come dire circa 30.000 lire ogni 3 mesi. Qualcuno ha già fatto i conti, costerà di più a incassarli. Inoltre quelli che andranno poi in pensione nei prossimi dieci anni peseranno su quell’altra parte dell’intera collettività e con più salati contributi dovrànno provvedere a dare una pensione a quelli che si ritroveranno con i contributi non versati dalle aziende così terribilmente “punite”con 10.000 lire mensili per ogni mese evaso. I futuri lavoratori del nuovo millennio sono avvisati, fine degli ammortizzatori sociali, fine del Welfare State, bisogna abituarsi a convivere con lo Stato che non media e regola il conflitto, ma con lo Stato che si fa impresa, con il Profit State. 3. La dimensione economico- produttiva dei maledetti anni ’90 Possiamo dire che la conclusione del processo di unità monetaria europea, ed in prospettiva quella dell’unità politica e militare, hanno accelerato i processi di competizione internazionale, in particolare quelli tra Stati Uniti ed Unione Europea, che si stanno manifestando in una serie di eventi finanziari, economici e militari che si riversano direttamente nella vita politica e sociale del nostro Paese e dell’Europa intera. La finanziarizzazione dell’economia e la competitività stanno mettendo sotto stress il sistema produttivo e sociale del nostro Paese rimettendo in discussione la politica di “partecipazione controllata”. Dal ’92 al 2001, se si esclude la parentesi Berlusconi del ’94, il Paese è stato governato da una alleanza tra poteri forti finanziari e partiti di centro sinistra. Gli anni ’90 si caratterizzano per l’avvento delle privatizzazioni che si sono attuate con la cessione di quote di controllo; la cessione di aziende e rami d’impresa; la cessione di quote di minoranza e la cessione di immobili e cespiti. In questi anni si ha una notevole diminuzione dell’occupazione. La crisi economica degli anni ottanta continuò all’inizio degli anni ’90; questo anche a causa dell’alta inflazione e della perdita di competitività di grandi imprese come la FIAT e la Olivetti. A ciò si aggiunse la realtà venuta alla luce della grande corruzione presente nella classe politica e industriale (“Mani Pulite”) e i conseguenti scandali che trascinarono e sconvolsero il vecchio sistema politico. L’entrata del nostro Paese nell’Unione Europea impose poi ulteriori sacrifici alla classe dei lavoratori; infatti il nostro Paese, per rientrare nei “parametri di Mastricht, ha dovuto imporre sacrifici ancora più duri alle classi più disagiate. Il rispetto dei parametri imposti da Maastricht ha causato non poche difficoltà all’interno dei vari paesi, difficoltà che hanno pesato soprattutto sulle fasce sociali più deboli ed emarginate oltre che su quelle classi fino a qualche anno fa considerate “garantite”; in questa situazione il nostro Paese oltre ad avere una limitata crescita del PIL nell’anno 2002 (0,4%) ha registrato una diminuzione della produzione. Se si considerano gli anni dal 1991 al 1994 si è registrata una diminuzione dell’11.7%, per il numero delle imprese, e del 9.5% per il numero degli addetti.10 La Tabella 1 evidenzia il numero di occupati nei diversi settori economici. Negli anni che vanno dal 1991 al 1993 si è registrato un forte calo dell’occupazione dovuto soprattutto alla diminuzione degli occupati sia nel settore agricolo sia in quello industriale e dei trasporti; solo negli anni tra il 1993 e il 1996 si è avuta una piccola ripresa che ha interessato soprattutto il settore del commercio. È interessante sottolineare la rilevante differenza di produttività esistente tra le grandi imprese o quelle piccole e medie; in questi anni, infatti, si è avuta una crescita del 2% nella produttività nelle imprese con meno di 20 addetti, mentre invece nelle imprese più grandi la produttività diminuisce del 2.5% delle imprese maggiori. L’importanza delle piccole imprese, si conferma anche negli anni successivi; nel censimento del 1996 si nota che il 97% di queste aziende è concentrato nel settore dei servizi, nella classe 1-9 addetti. A ciò si aggiunge un 58% della quota degli occupati.(Cfr. Tab. 2) È interessante confrontare la dimensione delle piccola imprese nel nostro Paese con quelle dell’Unione Europea, nell’anno del censimento intermedio11. La Tabella 3 evidenzia i valori dell’indice attinenti al settore dell’industria e dei servizi oltre che il commercio, le costruzioni e i trasporti. Con lo sviluppo delle nuove tecnologie si ha un maggiore sviluppo della piccola impresa. Sempre nell’analisi degli anni che vanno dal 1991 al 1996 è interessante mostrare come il livello degli investimenti netti relativi a questi anni diminuisca notevolmente (Tab. 4). Per quanto riguarda invece il commercio internazionale di merci considerando gli anni dal 1991 al 1998 si ricorda che, analizzando i primi 20 paesi l’Italia contribuisce per il 6% nel 1991 ed anche nel 1998 (la percentuale degli USA è del 15%). Anche in questo caso si evidenziano le differenze esistenti tra nord, sud e centro; la tabella 5 mostra il numero degli esportatori nell’anno 1998. Le variazioni percentuali tra il 1994 e il 1998, sono rispettivamente, per il nord del -2.8%, per il centro del 4.4% e per mezzogiorno del 18.5%. Se si considera invece un altro importante indicatore economico, ossia il PIL, si evidenzia che il nostro Paese ha attraversato varie fasi; mentre nel 1993 ha registrato una variazione percentuale negativa nel 1994, la variazione è stata positiva per poi tornare ad diminuire di nuovo nel 1996. Anche altri paesi (Canada, Stati Uniti e Regno Unito) hanno avuto forti variazioni mentre il Giappone si è caratterizzato per una crescita più modesta. (Cfr Tab. 6) Nell’anno 2001 è stato realizzato l’ottavo censimento dell’industria e dei servizi; se si confrontano i dati di quest’ultimo censimento con quelli del 1991 si nota subito una crescita del numero delle unità locali (del 6. 9%), e del numero degli addetti (del 4. 4%); i settori economici maggiormente sviluppati risultano essere ancora quelli terziari. Infatti, a fronte di un calo del settore industriale (del 2,6%)e del commercio (del 3,4%), i servizi, segnano un aumento di unità locali del 5.1% rispetto al ’91. Se si guarda al passato è evidente da subito come sia cambiata la struttura economica dell’Italia che negli anni ’70 risultava essere uno dei paesi meno terziarizzati. Dall’anno 1995 e fino al 2001, si è avuta una crescita sostenuta nel settore terziario che ha raggiunto percentuali di occupazione vicine alla media europea. A ciò ha contribuito anche la sempre maggior presenza della componente femminile impiegata soprattutto nei lavori a tempo determinato. Se si considera la situazione occupazionale ed economica sotto il punto di vista territoriale si evidenzia ancora una volta la differenza esistente tra Nord e Sud del Paese ed una ripresa degli occupati nel settore industriale. Nel nord d’Italia infatti, prevale il numero degli occupati nel settore industriale, con una percentuale del 63.4% a fronte del 45.3% presente nei servizi. Da evidenziare poi la nascita e lo sviluppo dei cosiddetti lavori atipici, part time, a tempo determinato. Questo fenomeno ha avuto un incremento negli anni che vanno dal 1992 al 2001 del 45.2%, a fronte di una crescita dell’occupazione totale dello 0.7% negli stessi anni. Le forme di lavoro flessibile si possono classificare in lavoro a tempo determinato in generale; lavoro stagionale; l’apprendistato; il lavoro interinale; collaboratori coordinati e continuativi (co.co.co.). La tabella 7 offre una panoramica di tali lavori negli anni dal 1993 al 2000. È interessante mostrare poi i numeri relativi ai tipi di contratto (Tab. 8). Si è avuto anche l’aumento del lavoro sommerso, acutizzato dal 1990 in poi, soprattutto in quei settori come l’agricoltura, le costruzioni e i servizi da sempre caratterizzati dalla presenza di lavoro “nero”; a ciò si aggiunge la presenza di disoccupati di “lunga durata”; infatti all’inizio degli anni ’90, la percentuale di disoccupati da più di 6 mesi, in Italia era del 76.5%, a fronte di un 65% nell’Unione Europea e al 20.4% negli Usa.13 Da ricordare ancora l’attuazione del trattato di Maastricht con i suoi parametri da rispettare (il tasso di inflazione non deve superare l’1.5% del valore medio dei tre paesi con minore inflazione; il tasso di interesse a lungo termine non deve superare il 2% di quello medio dei tre paesi sopra menzionati; il rapporto DEFICIT-PIL deve essere inferiore al 3%; il rapporto debito pubblico e PIL deve essere inferiore al 60%). È interessante dare una esatta “fotografia” della situazione in Italia e in alcuni tra i paesi europei nell’anno 2001 (Tab. 9). Il trasferimento di risorse, ricchezze, potere al capitale finanziario ha determinato un cambiamento strutturale nel mercato del lavoro. L’aumento della flessibilità comporta la generalizzazione di rapporti di lavoro “atipici” rispetto al modello che avevamo conosciuto negli anni della produzione fordista o di massa. Cresce il lavoro ma diminuiscono i posti di lavoro “regolari”, cresce l’occupazione precaria e illegale. È il lavoro nero che, inesorabilmente, aumenta in conseguenza all’aumento di flessibilità e precarietà; secondo alcuni è proprio la scarsa propensione a legittimare modelli di tutela per i lavoratori precari che spinge i singoli a contrattare direttamente il lavoro nero nell’interesse dell’impresa a sottopagarlo e del lavoratore a poter ottenere qualche beneficio dal rapporto individuale con il datore. Questo avviene del resto nel variegato mondo della flessibilità e che non vuol dire solo propensione ad orari e turni funzionali al sistema produttivo, ma anche disponibilità al mansionismo o alla delazione/controllo verso altri lavoratori; nell’intento di “crescere” in una micro piramide verticistica interna che agevola il ricatto della permanenza e perdurabilità del “contratto”. La portata del lavoro nero nel Paese è ormai fuori controllo proprio perché accelerata dal processo di trasformazione del mondo del lavoro. La struttura economica italiana dal dopoguerra ad oggi presenta una situazione senza dubbio particolare; il nostro Paese infatti era caratterizzato inizialmente da un’economia prevalentemente agricola, con la presenza di una industria oltre che frammentaria anche molto diversificata nelle varie ripartizioni geografiche; a ciò si aggiunge la persistente differenza esistente tra il nord e il sud. Si è avuta negli anni una fase di deindustrializzazione e con il conseguente sviluppo del settore terziario. Il capitalismo italiano, sviluppatosi da sempre a livello familiare non riesce a sostenere il confronto internazionale causando problemi di difficile soluzione. Vi sono stati in definitiva tre passaggi fondamentali: il primo stagnante era legato al mondo rurale, il secondo legato allo spostamento dall’industria ai servizi, e il terzo legato ad alti livelli d’istruzione, a posti qualificati e sempre meno manuali. Se si guardano cambiamenti avvenuti nel mondo del lavoro si possono infatti delineare tre diversi periodi: un primo periodo iniziale (tra gli anni ’60 e ’70), con un’occupazione preminente di lavoratori dipendenti nelle grandi imprese; un secondo periodo, contraddistinto dallo sviluppo delle piccole imprese con la relativa occupazione. In questo periodo le imprese più grandi diventano meno importanti e in conseguenza anche la figura del lavoratore dipendente difeso dalle organizzazioni sindacali, che non sono in grado di aiutarle la classe lavoratrice contro l’introduzione della flessibilità. Infine nel terzo periodo, che va dalla metà degli anni ’90 ai giorni nostri, il considerevole processo di globalizzazione, legato alle procedure lavorative introdotte negli altri paesi europei, che hanno forzato l’Italia ad adottare le nuove forme atipiche, in maniera spropositata e colossale rispetto a quanto era accaduto nel periodo precedente. Le figure occupazionali sono molto cambiate in questi anni in quanto si è avuta la nascita e lo sviluppo di nuovi tipi di lavori, i cosiddetti “lavori atipici” che pur facendo registrare in pochi anni un aumento dell’occupazione in realtà sono serviti per sostituire l’occupazione regolare con varie forme di occupazione irregolare, atipica e senza garanzie sociali. I dati ci dicono che negli anni che vanno dal 1977 al 2000 l’occupazione generale è cresciuta del 4% ma l’analisi di questa percentuale evidenzia che in realtà si è trattato di un aumento fittizio in quanto si tratta di un aumento di forme lavorative con un elevato livello di flessibilità, con salari ridotti e senza garanzie. La disoccupazione risulta essere in fase di riduzione anche se va ricordato che i valori forniti dall’ISTAT non tengono conto della reale situazione occupazionale in quanto sono considerati occupati anche coloro che lavorano solo poche ore a settimana e non raggiungono quindi un livello di salario accettabile e dignitoso. (Cfr. Tab. 10) L’aumento del lavoro femminile (cresciuto dal 1997 al 2000 del 6,6% e del 7,4% tra il 2000 e il 2002) è da attribuirsi alla forte presenza delle donne nel lavoro atipico (Grafico 4). I dati mostrano che, rispetto agli ultimi cinque anni, si è avuta una crescita dell’occupazione, che ha registrato un aumento del numero degli occupati di oltre un milione e 600 mila unità. Questo è stato possibile però per la crescita del lavoro flessibile (in sostanza dalla introduzione dei nuovi lavori avvenuta con il cosiddetto pacchetto Treu del 1997). L’ISTAT rileva che il numero degli occupati del gennaio 2002, era pari a 21 milioni e 829 mila. Le nuove forme di lavoro, hanno cambiato il rapporto di lavoro non solo nelle aziende private ma anche nella Pubblica Amministrazione. Il peso del lavoro atipico in questa istituzione è segnalato in una indagine condotta dall’ARAN. La tabella 11 mostra i vari tipi di lavoro presenti nella pubblica amministrazione (i valori numerici rappresentano il numero assoluto di lavoratori, nei vari settori appartenenti alla pubblica amministrazione). Dalla tabella 11 si evince che la forma più ampia è il part time, che incide per il 34% sul totale dei lavoratori nei ministeri, e per il 30% negli enti locali nei quali è considerevole anche il tempo determinato che rappresenta il 54.52% dei lavoratori. È interessante fare un confronto fra il nostro Paese e vari paesi europei per analizzare la presenza di lavoratori atipici e le percentuali registrate nei vari luoghi. La tabella 12 esamina i lavoratori tipici ed atipici suddivisi per paese e per sesso. Nel nostro Paese si nota una presenza rilevante del lavoro tradizionale nei lavoratori maschi, con una percentuale pari all’89.8%, diminuita rispetto al 1995 (92.8%) mentre per quanto riguarda le donne occupate nei lavori atipici la percentuale è raddoppiata il 1995 e il 2000. È importante anche fare un punto sulla situazione delle garanzie sindacali dei lavoratori; la tabella 13 mostra gli iscritti totali ai sindacati confederali (CGIL, CISL e UIL) e di seguito i grafici 5-6 analizzano le iscrizioni suddivise per settori. Ed ancora è interessante un confronto tra le persone in cerca di occupazione nel nostro Paese e quelle in altri paesi europei. Nella tabella 14 si mostrano le variazioni tra il 1993 e il 2000 delle persone in cerca di un’occupazione per l’Italia, e alcuni paesi Europei14. Il nostro paese, nonostante le asserzioni propagandistiche contrarie di Confindustria, registra un numero incredibile di nuove forme di rapporti di lavoro; dai contratti di formazione a quelli d’ingresso, dal lavoro interinale a quello a termine, dal lavoro stagionale al part-time orizzontale e verticale, dalle borse lavoro ai Piani d’Inserimento Professionali, dagli stages formativi ai contratti week-end, dai lavori socialmente utili ai contratti in deroga in uso nei Patti territoriali e nei contratti d’area, dai soci lavoratori agli pseudo volontari del settore no profit, dai finti professionisti “autonomi” ai parasubordinati coordinati e continuativi al lavoro nero vero e proprio, ecc. ecc. ecc. Quello che hanno in comune tutte queste nuove figure del mondo del lavoro è innanzi tutto il crollo del potere d’acquisto complessivo dei salari che sono appena sufficienti per l’acquisto di beni e servizi necessari alla sopravvivenza quotidiana, e l’assenza totale di diritti, di garanzie, che non si limita al luogo di lavoro ma investe l’intera condizione di vita peggiorandola. Fino a scoprire ad esempio che le banche rifiutano o chiedono interessi più alti sui prestiti a quei lavoratori che hanno un lavoro flessibile a causa della loro “inaffidabilità”, senza parlare poi dei diritti previdenziali e assicurativi.

4. Analisi della fase politica-sindacale di fine secolo Gli ultimi anni della vita produttiva, economica e sociale in Italia, non possono essere compresi se non relazionati alla frenetica corsa al “libero mercato” in chiave neoliberista che ha caratterizzato e percorso non solo il Paese, ma il mondo intero. Sul piano economico i paesi più industrializzati attraverso la globalizzazione neoliberista tendono a costituire un insieme sempre più strettamente integrato, sia sotto il profilo commerciale sia sotto quello finanziario sino a formare un solo immenso mercato. Tale fenomeno è stato accompagnato dalla creazione di nuove istituzioni che si sono affiancate a quelle esistenti per operare a livello transnazionale15. I vantaggi di questo processo, in linea teorica, sono molteplici; infatti, l’apertura al commercio internazionale ha aiutato tanti paesi a svilupparsi e a crescere in modo molto più rapido di quanto con i soli propri mezzi avrebbero potuto ma tutto imponendo un loro specifico ruolo nella divisione internazionale del lavoro. Il commercio internazionale favorisce lo sviluppo economico quando le esportazioni di un paese spingono la sua crescita economica. La crescita basata sulle esportazioni è stata l’orgoglio della politica industriale che ha arricchito gran parte dell’Asia, migliorando sensibilmente le condizioni economiche di milioni di individui, costruendo delle aree (ad esempio India ma soprattutto Cina) in aperta competizione con il polo USA C’è da dire, però, che i cosiddetti vantaggi si affiancano a situazioni paradossali. Infatti, viene a generarsi un divario progressivamente più accentuato tra ricchi e poveri che ha ridotto in miseria un numero sempre maggiore di persone del Terzo mondo, costrette a sopravvivere con meno di un dollaro al giorno. Malgrado le reiterate promesse di ridurre le povertà fatte negli ultimi anni del ventesimo secolo, il numero effettivo di persone che vivono in povertà è aumentato di quasi cento milioni16, mentre allo stesso tempo, il reddito mondiale complessivo è cresciuto in media del 2,5 per cento annuo. Si dice paradossale perché la globalizzazione neoliberista dell’economia mondiale ha bisogno per rilanciare l’accumulazione capitalistica internazionale di abbattere i diritti e i costi del lavoro con salari più flessibili, in quanto una più ampia liberalizzazione del mercato del lavoro sarebbe necessaria e sufficiente per consentire all’industria europea di affrontare la concorrenza dei mercati mondiali e soprattutto tenere testa alla nuova industria dei paesi asiatici. Se veramente l’industria europea deve svolgere una funzione di locomotiva allora deve procedere a privatizzazioni selvagge, a licenziamenti di massa, è sul lavoro che si deve operare per l’abbattimento dei costi. I Paesi europei impongono una svolta neoliberista che li porta a regredire non solo dal punto di vista salariale, ma anche su quello delle condizioni di lavoro, della tutela dei lavoratori e della salvaguardia contro gli infortuni. Inoltre, il peso del debito pubblico inizia a giustificare la riduzione progressiva dei servizi sociali. La riduzione della presenza pubblica comporta una crescita della sfera privata, a esempio ogni riduzione di spesa nel Servizio Sanitario Nazionale apre nuovi orizzonti all’esercizio della medicina privata. Inevitabilmente la riduzione dei servizi pubblici porta con se profonde conseguenze sul terreno della distribuzione del reddito. I servizi pubblici, infatti, hanno la funzione di ripartire alcuni beni essenziali e fondamentali tra tutti i cittadini, indipendentemente dalla ricchezza del singolo. Privatizzare scuole, sanità, ricerca, infrastrutture, ecc... significa, quindi, acuire le disuguaglianze tra ricchi e poveri. Se tutti i paesi a capitalismo maturo stanno rivedendo la propria struttura produttiva e distributiva, l’industria italiana manifesta affanno in un sistema che non potendo contare su tecnologie di avanguardia, è costretta ad affidarsi a un controllo rigoroso del costo del lavoro e altrettanto rigorose economie di bilancio. Tutto questo sta portando il sistema Italia non solo a essere meno ricco, ma anche meno stabile. Contratti lavorativi che prima raccoglievano uno scarsissimo numero di lavoratori, adesso dominano una grande fetta di mercato (contratti a tempo determinato, collaborazioni interinali, co.co.co, etc...). A questo va aggiunto, inoltre, la crescente disoccupazione. Erroneamente i dati attuali ci indicano una situazione disoccupazionale meno intensa di quello che in realtà è. Ciò è dovuto essenzialmente al fatto che i lavoratori con contratti a tempo, con collaborazioni, con contratti di formazione sono considerati al pari di un occupato a tempo indeterminato nelle rilevazioni ufficiali, quando purtroppo questo non è vero (Grafico 7). Comunque, le note positive di questo stato di cose sono la ritrovata enfasi con cui i movimenti e i sindacati di base tentano di relazionarsi ai nuovi impegni sociali e occupazionali svolgendo un ruolo di forte attivismo transnazionale che riesce a generare una pressione fino ad oggi sconosciuta, che ha portato, a esempio, alla messa al bando delle mine antiuomo17, alla cancellazione del debito di alcuni dei Paesi più poveri, a una maggiore attenzione verso l’ambiente, alla messa in discussione dei paradigmi neoliberisti, fino ad una nuova stagione del movimento internazionale contro le guerre di aggressione guidate dagli USA. Come si è detto, in Italia come nel resto del mondo, la riduzione del costo del lavoro e il contenimento dei costi in generale, sembra l’unica strada percorribile per aziende e industrie che mirano all’esclusiva crescita dei profitti. In questo stato di cose l’unica arma in possesso dei lavoratori è quella di aderire e unirsi in organizzazioni (sindacali o meno). In questi anni la coesione e l’aggregazione dei lavoratori si manifesta sia a livello nazionale che internazionale, sia per “proteste” politico-economiche che di carattere socio-occupazionale. Spiccano su tutte le organizzazioni di base dell’America Latina, il sindacalismo di base in Italia e in altri paesi europei (come Francia e Spagna) fino ai movimenti no global, i girotondi, le grandi manifestazioni dei movimenti indios contro la privatizzazione dei beni e servizi di prima necessità e le materie prime, le grandi lotte dei piqueteros, dei Sem Terra, dei lavoratori del pubblico impiego, dei trasporti fino alle storiche battaglie dei lavoratori portuali. Nella nuova fase economico-produttiva, con la connessa nuova e diversificata composizione di classe non viene quindi meno, anzi si rafforza, l’esigenza del sindacato, di uno strumento vero di difesa dei diritti dei lavoratori. Ciò è reso ancor più necessario dal contemporaneo mutamento che investe ormai da un decennio il diritto del lavoro con una trasformazione che adatta le norme legislative alle esigenze del capitale, erodendo in Italia dall’interno lo stesso Statuto dei Lavoratori, processo partito fin dal 1983 con l’introduzione della chiamata nominativa che già da allora sostituì quella numerica per arrivare oggi alla privatizzazione del collocamento. La costruzione del sindacato di base di un forte e rinnovato sindacato conflittuale di classe appare come un processo assolutamente “necessario”, ma la sua concretizzazione deve fare i conti con le mutate condizioni derivate dalla trasformazione dei rapporti produttivi ed economici, con un ordinamento gerarchico del lavoro sempre più spesso mascherato da forme illusorie d’autonomia; deve fare i conti con la frantumazione, con l’emergere di nuovi soggetti, di nuove forme contrattuali ma anche di nuovi corporativismi. E mentre gli spazi oggettivi per una tale azione di difesa si dilatano smisuratamente, basta pensare al fatto che quantitativamente il numero dei lavoratori salariati aumenta, mentre diminuiscono gli autonomi; assistiamo quotidianamente al fatto che nei rapporti di forza, sia in relazione alla redistribuzione della ricchezza che alla rappresentanza sindacale, il peso del lavoro subordinato si indebolisce fino a essere reso invisibile dai modelli politici e sindacali consociativi e concertativi. Gran parte di questa responsabilità ricade sicuramente su CGIL, CISL, UIL. Il sindacato tradizionale, non più mediatore ma complice subordinato di questi processi ha ceduto fette importanti dei diritti dei lavoratori ricevendone in cambio privilegi e pretese tese a garantirgli il monopolio della rappresentanza, insieme a considerevoli flussi finanziari e a posizioni di potere. Man mano che i lavoratori perdevano diritti i sindacati confederali venivano istituzionalizzati in modo impressionante, a compenso dell’aver garantito in modo meno traumatico possibile le trasformazioni produttive con il consenso sociale. Tra le varie forme di “collaborazione” c’è stata quella fondamentale della concertazione a tre sul piano sociale e sindacale. I motivi di tali scelte erano chiari; passare cioè dal consociativismo, cioè come ridistribuirsi tra partiti e sindacati confederali le ricchezze della fase che possiamo definire di “Tangentopoli”, alla concertazione, ovvero come ridistribuire invece la miseria della fase “Post Tangentopoli”. Ciò era necessario in quanto bisognava togliere ai lavoratori ed alla società nel suo complesso diritti e risorse da dedicare al “Sistema Italia” basato sulle imprese e la privatizzazione generalizzata per tenere testa al livello di competizione internazionale che a quell’epoca cominciava a manifestarsi in modo forte. Una tale politica era praticabile solo se si cooptavano direttamente le forze storiche del movimento dei lavoratori, dal PDS ai sindacati confederali, nella gestione del potere in quanto questo era l’unico modo per contenere una risposta di lotta tale che avrebbe potuto rimettere in discussione la partecipazione dell’Italia al progetto del capitale europeo. Poiché nell’attuale sviluppo distorto alla competitività non c’è mai fine, questa che ha generato nel ’92 la concertazione oggi ne rimette in discussione la continuità. Competizione infatti significa riduzione del costo del lavoro sia in termini diretti (i salari) che in termini indiretti (lo Stato sociale) e precarizzazione generalizzata. È evidente che spingere su queste direttive oltre certi limiti significa rimettere in discussione la base sociale ed elettorale delle forze della sinistra di Governo e dello stesso sindacato confederale con una conseguente crisi delle forze coinvolte e della politica di concertazione. Dopo gli anni dei Governi di centro-sinistra, con il perno centrale delle relazioni industriali basate sulla concertazione, con il centro-destra si passa alla fase delle “non relazioni” sindacali più funzionali all’imposizione delle politiche neoliberiste sfrenate. In sintesi dopo aver fatto fare alla sinistra ed al sindacato il lavoro sporco dell’impoverimento dei lavoratori, le forze finanziarie ed economiche spingono sull’acceleratore mettendo in difficoltà i precedenti equilibri politici e prospettando o un centro sinistra, se sopravviverà alle scadenze elettorali, ancora più asservito ai poteri finanziari o un Governo di centro destra privo dei condizionamenti sociali precedenti. Poiché siamo in Europa gli eventi hanno una dimensione continentale e con questa chiave di lettura vanno viste anche le sconfitte elettorali della socialdemocrazia europea che si sono accumulate nel corso del ’99. I segnali in questo senso sono chiari, soprattutto se si ignorano volutamente gli eventi ormai parossistici del teatrino della politica. L’attacco sulle pensioni fatto a Luglio ’99 e successivamente anche dal Governo D’Alema, l’incapacità verificata di far crescere l’occupazione e l’introduzione massiccia della flessibilità, la politica fiscale e le difficoltà sulle tariffe e sui servizi, la fine dell’unità sindacale che vede la CISL differenziarsi con accordi separati ed in rapporto con il sindacalismo autonomo che preludono a rapporti diversi con Forza Italia, sono questi gli elementi che sul piano economico-sociale stanno caratterizzando la crisi della politica di concertazione. Sul piano politico la sconfitta al Comune di Bologna ed in altre roccaforti del centro-sinistra, il rafforzamento strutturale ed elettorale di Berlusconi, che è stato accettato anche nel Partito Popolare Europeo, i sommovimenti tra i centristi del Governo D’Alema, sono altri segnali della fine di una stagione politica.

5. Il consolidamento del sindacato di classe Nonostante il processo neoliberista si sia sviluppato sull’intero pianeta, a cavallo del nuovo millennio i sindacati dei lavoratori, con le loro lotte, restano gli attori principali sullo scenario della mondializzazione. Il ruolo importante svolto, ad esempio, dalla centrale sindacale AFL - CLO Americana, per la prima volta in opposizione ai negoziati dell’ Organizzazione Mondiale del Commercio, ha sicuramente contribuito a determinare il fenomeno Seattle, una delle più importanti sconfitte del processo di mondializzazione capitalista del mercato. Non da meno la CES (Confederazione Europea dei Sindacati), che da molti anni non scendeva in piazza, insieme soprattutto alle organizzazioni di base dei lavoratori, hanno caratterizzato la manifestazione di Nizza (dicembre 2000) contro la politica europea di sottomissione ai principi della mondializzazione; le organizzazioni di classe dei lavoratori hanno così rappresentato con forza l’opposizione del mondo del lavoro all’Europa dei mercati. Ed in fine il Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre caratterizzato dal sindacalismo internazionale dei contadini e dei lavoratori agricoli (il Movimento dei Sem Terra e di Via Campesina) contro la bio - pirateria e la privatizzazione della vita (OGM, la brevettabilità dei geni, la clonazione per scopi terapeutici). Ma ancora più importante è il diretto terreno di classe e di rafforzamento nel conflitto capitale-lavoro portato avanti da molti sindacati di base in America Latina (Brasile, Venezuela, Argentina, Bolivia, Ecuador, Colombia, ecc.) e in Europa (Francia, Spagna, ma in particolar modo in Italia). Sembra quindi di assistere ad un risveglio del mondo sindacale latino-americano, europeo e anche nord-americano: “...si tratta di avvenimenti nuovi che denotano un certo “risveglio” dei sindacati. In effetti negli ultimi quindici anni le strutture dirigenziali sindacali europee e, ancor più nord - americane, avevano perso la cultura della rivendicazione per la trasformazione della società, della promozione e difesa dei diritti umani per tutti, delle lotte per e mediante la solidarietà internazionale. Soddisfatti, talvolta non a torto, del confronto delle posizioni raggiunte sul piano economico e politico; prigionieri in maniera crescente di logiche di potere corporatista e di gestione settoriale, ma anche oggetto di attacchi ideologici e sociali sempre più aggressivi ad opera di un mondo imprenditoriale e finanziario spalleggiato da governi sempre più conservatori e neo-liberali, i dirigenti sindacali hanno gradualmente fatti loro molti dei principi e degli imperativi dell’economia capitalista di mercato mondializzata quali la libertà dei movimenti di capitale, la competitività nazionale, il culto della performance, il primato della innovazione tecnologica messa al servizio della massimazione del rendimento del capitale privato (come nel caso delle “lotte” per una chimica non inquinante)....... Il “risveglio” può sembrare a molti ancora troppo debole .... ma la pressione della società civile (si pensi ad Attac in Francia) e dei sindacati dei paesi del “sud” è talmente forte che è plausibile ipotizzare che “il risveglio” è destinato a rinforzarsi nei prossimi anni. Segni forti in questa direzione vengono anche dai sindacati internazionali dell’educazione, della salute e della funzione pubblica in particolare nel settore dell’acqua dove si stanno moltiplicando le lotte sindacali contro la mercificazione e la privatizzazione dell’acqua. I sindacati hanno capito che il loro divenire dipende dalla promozione della difesa dei beni comuni e di sevizi comuni pubblici mondiali e dalla solidarietà “politica” e culturale fra tutti i lavoratori.”18 Pionieri da questo punto di vista sono stati i sindacati di base in Italia in particolare con le RdB e la CUB; in “tempi non sospetti”, cioè quando tutti, o quasi, i sindacati storici dei lavoratori assecondavano nel mondo le false politiche di modernizzazione dei governi di centro-sinistra e progressisti, il sindacalismo di base italiano, consolidava nella pratica continua della lotta di classe. “Le RdB hanno seguito uno sviluppo non lineare che è esploso a ondate successive in occasione di rotture politiche e di avvenimenti legati a fasi di passaggio: • Nel 92/93 all’indomani della svalutazione della lira e della prima finanziaria “lacrime e sangue” che determinarono una notevole frattura tra lavoratori e confederali, e a seguito dei due patti di Luglio che segnarono la svolta, la fine del consociativismo e l’inizio della concertazione, con l’irrigimentazione dei lavoratori, la subordinazione alle regole internazionali firmate a Maastricht. Ciò permise una notevole crescita delle RdB in termini quantitativi e la nostra stabilizzazione nel P.I.; • Nel 95 la firma dei contratti pubblici, decisa alla vigilia del cambiamento delle regole per la maggiore rappresentatività attuato da Bassanini, predeterminò le condizioni non solo per la sopravvivenza delle nostre strutture nei posti di lavoro ma soprattutto ci mise in condizione di legare il nostro sviluppo ad una progettualità più ampia, generale per le quali erano comunque necessarie risorse materiali e strumenti. Oltre tutto quella firma fu propedeutica anche ad un ampliamento della nostra presenza nel P.I. con la costituzione della categoria degli Statali e lo sviluppo di EE.LL. e Sanità, con ingresso di energie e potenzialità nuove ponendo le basi per affrontare con più sicurezza la campagna per le RSU. • Nel 98, appunto il risultato conseguito nelle RSU, se paragonato alle condizioni di partenza, presenza nel 10% dei posti di lavoro, scarso radicamento anche in molti di questi, testimonia che un settore seppure non maggioritario dei dipendenti pubblici, è disponibile ad un disegno non concertativo, partecipavo, ecc...”19 Il ’99 si chiude con una valutazione politica della fase riconducibile prevalentemente a due elementi: una ipotesi di modifica del quadro governativo, sull’onda delle sconfitte elettorali del centro-sinistra in Europa e un tentativo, operato da più fronti, di superamento delle politiche concertative. “Questa modifica della condizione oggettiva pone un problema centrale non alle RdB ma a tutto il sindacalismo di base, cioè di fronte ad un superamento della concertazione si apre inevitabilmente una nuova dinamica sul piano sindacale che potrebbe vedere nei prossimi anni, ad esempio, una CGIL all’opposizione di un governo di centro-destra (ricordiamoci dell’imbroglio della manifestazione del milione di lavoratori contro la riforma delle pensioni proposta da Berlusconi) oppure una CISL, ormai svincolata dall’unità sindacale, che difende le pensioni contro D’Alema o che manifesta contro le finanziarie del centro sinistra. Il punto di forza del sindacalismo di base, cioè quello dell’indipendenza anticoncertativa che ha segnato i momenti politici più alti di tale movimento, perderebbe capacità di collante e di unità e farebbe emergere in modo dirompente le difficoltà reali che caratterizzano il tentativo, pur necessario storicamente, di costruire un sindacato alternativo e diverso da CGIL, CISL, UIL. Immaginiamoci per un momento gli spazi che si riaprirebbero alla cosiddetta sinistra sindacale la quale potrebbe, finalmente, agitarsi di nuovo in modo “radicale”, naturalmente sotto l’ombrello della CGIL, riproponendo truffe uguali a quelle del referendum fatto nel ’95 sulla rappresentanza. Non bisogna preoccuparsi di una tale prospettiva ma invece va capito che siamo chiamati ad effettuare un passaggio politico importante, cioè passare dalla sola negazione, quella della politica concertativa, ad una proposta in positivo di identità in questa fase storica, di un sindacalismo che parte direttamente dalle esigenze e dai bisogni dei lavoratori nella loro condizione odierna.”20 I Governi di centro-sinistra vedono come unica vera opposizione di classe organizzata il sindacalismo di base con in testa le RdB e la CUB, con dure battaglie contro le privatizzazioni, contro la deregolamentazione e destrutturazione del mondo del lavoro, contro la precarietà, per la difesa del sistema pubblico pensionistico, sanitario e dell’istruzione, per la difesa dello Stato sociale, del diritto di sciopero, della rappresentanza reale nel mondo del lavoro, contro la guerra, per la pace comunque, davanti alle scelte guerrafondaie del Governo D’Alema, che parla di “guerra umanitaria” e del segretario della CGIL Cofferati che parla di guerra come “contingente necessità”. La concertazione scemerà verso processi di deregolamentazione che fanno a meno dell’intermediazione delle parti sociali e che faranno gridare al tradimento le Organizzazioni Sindacali Confederali; arriverà il “libro Bianco” del Ministro Leghista Maroni, la Legge 30 ed il “Patto Sociale Governo - Sindacati” ma sarà solo una scappatoia per riproporre lo stesso modello negoziale, con qualche ristrettezza in più ed un nuovo rappresentante delle imprese, quel Montezemolo che oltre la Ferrari guiderà la FIAT e Confindustria.

6. Il nuovo millennio si presenta come attacco dirompente al diritto del lavoro e ai diritti del lavoro Il riformismo berlusconiano di inizio secolo (caratterizzato dalla legge sul falso in bilancio a quella sulle rogatorie internazionali - tralasciando il resto che è sicuramente ben strutturato nella cultura di chi legge e che occuperebbe, da solo, l’intero spazio del presente lavoro) fa la sua comparsa con la legge sul contratto a termine, concreta evoluzione di quel processo di liberalizzazione del rapporto di lavoro che estenderà e rafforzerà in tutti gli ambiti il peso del lavoro precario. Va ricordato comunque che questo nuovo corso rappresenta solo una ulteriore accelerazione dei processi di liberalizzazione già imposti dal pacchetto Treu con il precedente Governo di centro - sinistra e che tale manovra non si propone solo di riformare in senso liberista i singoli istituti del diritto del lavoro ma di minarne l’intera struttura, a partire dall’art. 18 dello Statuto e, con un occhio attento alla riforma del potere giudicante, normando maggiori “libertà” per i datori di lavoro ed aumentando fino all’inverosimile la precarizzazione. Vettori indispensabili di tale processo riformista saranno il Libro Bianco del Ministro Maroni e la Legge Delega del Novembre 2001. L’attacco al diritto del lavoro attraverso la cancellazione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori viene indubbiamente letto come il viatico allo smantellamento dell’intero sistema di tutela dei lavoratori. Il caso dell’art. 18 è emblematico del nuovo modello delle “non relazioni” sindacali e dello scontro frontale, anche se il mancato raggiungimento del quorum al referendum fa sì che ancora oggi si tratta non solo di un attacco non riuscito ma che ha evidenziato uno schieramento di oltre undici milioni di lavoratori che hanno respinto l’ipotesi berlusconiana-confindustriale di cancellare le ultime tutele dal licenziamento. L’attacco frontale al diritto ed alla dignità del lavoratore (quello al salario si è già consumato, complice l’imposizione della finanziarizzazione dell’economia e l’Euro forte) parte, come si è già detto, dalla delega sull’Art. 18 per investire l’intera struttura dello Statuto dei Lavoratori che già il centro-sinistra aveva intenzione di modificare, trasformandolo nello “statuto dei lavori”. La portata è storica, la Legge 30, ancorché inapplicabile in molti contesti, è incompatibile con le nuove “organizzazioni e modelli” del lavoro e del mercato del lavoro che il Governo ha necessità di estendere e normare. Ma le forme “nuove” del lavoro risultano altrettanto incompatibili con i parametri dell’ILO (International Labor Organization) sul “lavoro decente” e la flessibilità, meglio la precarietà resta una costante dei nuovi modelli e le tutele devono diminuire. Immaginare questo processo esteso dall’industria all’intero sistema paese, compreso il servizio pubblico, può servire a comprendere quanto alto è il rischio sociale e deve far riflettere su alcuni punti: 1. la riduzione (fino alla quasi completa cancellazione) dei diritti dei lavoratori e l’evoluzione, anche cronologica, degli eventi che l’hanno determinata, ci porta ad individuare responsabilità oggettive e complici sinergie tra sistema politico liberista (alternativamente di centro-sinistra e centro-destra, Treu-Tremonti-Siniscalco, Prodi-D’Alema-Berlusconi, ecc.), sistema economico imprenditoriale e sindacalismo confederale; 2. la quotidiana compressione della dignità dei lavoratori; 3. l’inadeguatezza (e troppo spesso la non certezza) dei salari. Solo attraverso la difesa di questi tre elementi, diritti, dignità e salari, può rinascere un modello di lavoro e di società che, con le lotte, il Paese aveva in larga parte acquisito. Anche se il Governo si affanna a farla passare come una manovra a favore dei poveri disoccupati, visto il contestuale e strumentale ritorno delle norme sull’emersione del “lavoro nero”, a tradire la vera natura berlusconiana c’è l’imponente adesione del mondo imprenditoriale allo spirito della riforma e la constatazione che, soprattutto grazie all’attuale Governo, migliaia di lavoratori non si pongono tale problema perché dell’art. 18 non né hanno mai usufruito (precari, ecc.). Il processo di trasformazione del lavoro si modifica con una velocità maggiore delle norme che tentano di regolarlo. La crisi del fordismo e la successiva ristrutturazione organizzativa porta diritti al toyotismo, alla “scoperta” occidentale del modello di produzione giapponese, la metamorfosi che si determina nell’utilizzo della forza - lavoro vuole si la trasformazione degli operai da dipendenti a risorse umane come “capitale umano” disponibile alla logica d’impresa, ma questo avviene inesorabilmente attraverso una nuova concezione della natura del lavoro. Dal superamento della organizzazione scientifica del lavoro della fine degli anni settanta si passa al “piano della qualità totale” e al progetto della fabbrica integrata di Melfi dove tutto è sperimentale meno lo sfruttamento, costante e sistematico. È il modello Ohnistico, il metodo di produzione Toyota: totale riduzione degli sprechi e incessante perseguimento della riduzione dei costi di produzione, primo fra tutti il costo del lavoro.21 A ciò è funzionale anche il modello di precarizzazione attraverso il lavoro atipico della fabbrica sociale generalizzata nel territorio. L’attacco al mondo del lavoro è comunque avviato, e su più fronti: “dal Libro bianco traspare una chiara volontà di marginalizzazione dell’intervento del giudice, con la scusa dei tempi lunghi della giustizia e, addirittura della scarsa “qualità professionale con cui sono rese le pronunce”. Nel disegno di legge ciò si esprime con la proposta di un libero ricorso all’arbitrato senza i vincoli attualmente previsti a tutela dei lavoratori per evitare gli abusi che potrebbero derivare dalla rinunciabilità di diritti inderogabili. È consentito l’arbitrato anche se non previsto dai contratti collettivi e con giudizio secondo equità, anche in violazione di norme inderogabili di legge e degli accordi sindacali, impugnabile solo per vizi procedimentali. È evidente che la proposta mette in grave pericolo l’intera struttura di garanzia del rapporto di lavoro, nonostante la formale “volontarietà” del ricorso agli arbitri: il lavoratore, pur di essere assunto, sarà portato a sottoscrivere clausole compromissorie ad uso e consumo del datore di lavoro, senza alcuna garanzia, che potrebbe derivare dall’intervento dei sindacati ad esempio in ordine alla composizione genuina e davvero “terza” del collegio. Un altro attacco all’intervento dei giudici discende dalla proposta di “certificazione” della natura del rapporto, accertando cioè in anticipo, con una procedura assistita, se si tratta di rapporto autonomo o subordinato. La “certificazione” non sarebbe certo vincolante per il giudice, ma avrebbe comunque un peso molto rilevante sulla qualificazione. Già oggi la giurisprudenza dà un notevole peso alla definizione data al rapporto nel contratto dalle parti (molti giudici di merito gli danno ormai un peso esclusivo) ed è facile quindi immaginare cosa succederà con l’approvazione di tale disposizione. Si tenderà a dare rilievo esclusivo alla “certificazione”, a cui il lavoratore difficilmente potrà sottrarsi all’inizio del rapporto (per lavorare spesso si accetta qualsiasi condizione), mentre la formula della procedura ed anche lo stesso termine usato”certificazione”, che dà un connotato quasi legale all’accertamento effettuato, costituiscono un notevole freno anche psicologico alla contestazione successiva, sia con riferimento alla correttezza della definizione data, sia nell’ipotesi in cui le concrete modalità del rapporto si siano poi svolte in maniera difforme da quelle indicate nella “certificazione”. Viene messa in discussione quindi una delle caratteristiche fondamentali del diritto del lavoro, di cui si è già parlato, e cioè la prevalenza della “sostanza” sulla “forma” con seri rischi di sfruttamento del lavoratore.”22 Al pari dell’attacco all’art. 18, il Libro Bianco ci riserva altre particolari soluzioni alle reali necessità dell’imprenditoria italiana, salvaguardando il ruolo assegnato al nostro Paese nella divisione internazionale del lavoro. Dalla privatizzazione del collocamento all’abrogazione della legge del ’60 che vietava l’intermediazione di mano d’opera (caporalato), dalla modifica della norma sulle cessioni di rami d’azienda (quindi cessione di lavoratori anche contro la loro volontà)23 alla deroga, sul piano normativo e retributivo, per alcune aree territoriali, dalla rivoluzione del part-time, modificabile dal datore di lavoro anche solo verbalmente (lavoro intermittente), all’istituzione di svariate figure di lavoratore precario o all’estensione del lavoro a termine o temporaneo anche per i disabili (fino ad oggi era prevista l’assunzione obbligatoria con contratto a tempo indeterminato), alla flessibilità imposta ad ogni costo con oltre 50 modalità previste per legge di lavoro atipico comunque precario, per precarizzare l’intero vivere sociale. Precarizzazione del rapporto di lavoro, flessibilità e riduzione del costo del lavoro, è questo il fronte che dovrà garantire il vero processo di privatizzazione del sistema pubblico e che riuscirà a metterlo definitivamente al pari di quello privato. Osservando da questo punto di vista il “sistema paese” è impensabile che la Legge 30 non venga estesa alla Pubblica Amministrazione o, dove i processi sono più avanzati; tutti i servizi della Pubblica Amministrazione devono in tendenza diventare privati. E mentre il Ministro Siniscalco prevede un piano di privatizzazione di ENEL nei prossimi 18 mesi (“attualmente il controllo pubblico dell’ENEL è assicurato da una partecipazione diretta del 31.5% e indiretta tramite Cassa del 10.35%”),24 il Presidente Berlusconi parla di “interventi immediati per ridurre l’onere del debito pubblico e l’unico modo per far presto nel collocare una quota di capitale delle poste, sarebbe di cederla direttamente alla Cassa Depositi e Prestiti,... dopo la sua trasformazione in SPA ... Che, pur con la presenza nel capitale di soggetti «privati» come le Fondazioni ...resta un soggetto pubblico”25. Lenta o veloce che sia, la privatizzazione delle Poste è inesorabilmente segnata, dove non è arrivato il “modello Italia”, arriva il “modello Europa” visto che “c’è peraltro in sospeso l’interrogativo sul futuro del servizio pubblico postale in vista della liberalizzazione della corrispondenza a fine 2006”26 e calcolando che la Commissione Europea di Barroso propone “l’anticipazione a Luglio 2005 della liberalizzazione del mercato elettrico”27. Al processo di privatizzazione deve corrispondere un modello di lavoro che riduca i costi a vantaggio dei profitti e sopra a tutto questo lo Stato deve ricollocarsi con un ruolo debole in fase di controllo ma sempre attento a reindirizzare il tutto nelle compatibilità del sistema “Europa” e nell’equilibrio degli organismi internazionali (WTO, OCSE, FMI, ecc.). Ecco la vera funzione della Legge 30. Le fasi della Legge 30: Il 5 febbraio 2003 il Parlamento Italiano ha approvato definitivamente la legge Biagi (Legge 14 febbraio 2003, n.30) che delega al Governo in materia di occupazione e mercato del lavoro. La legge, pubblicata sulla G.U. n. 47 del 26 febbraio 2003, è entrata in vigore il 13 marzo scorso. Il 6 giugno il Consiglio dei Ministri ha approvato lo schema di decreto legislativo in attuazione della legge delega 14 febbraio 2003, n. 30, che è stato sottoposto all’esame delle parti sociali, della Conferenza Unificata e delle competenti Commissioni preliminari. Il 31 luglio il Consiglio dei Ministri ha approvato definitivamente lo schema del decreto attuativo della legge Biagi sul mercato del lavoro. Il Ministro del Welfare Roberto Maroni ha espresso grande soddisfazione per questa “svolta storica”. “La Riforma Biagi segna un momento di svolta storica nel mercato del lavoro italiano - ha dichiarato Maroni -, che diventa non solo più flessibile ma anche più moderno e più europeo. Questa grande riforma consentirà ora il raggiungimento dell’obiettivo di Lisbona di una occupazione al 70% nel 2010”. “Si conclude così nei tempi previsti e con il sacrificio di una grande persona, il professor Marco Biagi, un percorso fondamentale per il mercato del lavoro - ha aggiunto il Ministro -. Ora l’Italia ha gli strumenti migliori in Europa per quel che riguarda il mercato del lavoro. Il provvedimento sarà pubblicato in Gazzetta Ufficiale e spero sarà operativo dai primi giorni di settembre”28. “Ma non basta! Il disegno di legge delega è solo una prima anticipazione del progetto complessivo dell’attuale governo contenuto nel famoso Libro Bianco di Maroni. Secondo il progetto, il legislatore nazionale dovrà limitarsi ad emettere norme relative ai principi fondamentali, con la tecnica delle soft laws (“norme leggere”; qualcuno ha parlato di light laws, leggi “senza grassi, scremate”), che vincola ad obiettivi e non a comportamenti, peraltro solo se non sono già intervenute le parti sociali (principio di sussidiarietà). Il legislatore regionale potrà intervenire “specificando” i principi definiti nazionalmente e avrà competenza esclusiva in tutta la disciplina del lavoro nel rispetto di quei principi. Tutte le norme nazionali e regionali saranno derogabili, ad eccezione del ristretto numero di principi di tutela comuni a tutti i lavoratori, anche autonomi. Anche il contratto individuale potrebbe derogare tutte le norme, nazionali, regionali e di contratto collettivo, salvo l’eccezione suddetta. Siamo alla fine: lo smantellamento del sistema di tutele predisposte a favore del lavoratore è completo, con un complessivo disegno non innovativo ma restauratore del pieno liberismo ottocentesco, poiché verrebbero abolite o rese derogabili, dal legislatore regionale, dalla contrattazione decentrata o, addirittura, dal contratto individuale, gran parte delle norme in materia (non solo quasi tutto lo Statuto dei lavoratori, non solo tutta la normativa sui licenziamenti e tutte le leggi di tutela successive alle Costituzione, ma, addirittura, anche le leggi fasciste del ventennio). A voler prendere alla lettera le affermazioni contenute nel progetto, la riforma travolgerebbe, o almeno renderebbe derogabili, anche norme costituzionali e principi contenuti nella “Carta” di Nizza”.29 A tutto questo il sindacato Confederale reagisce timidamente. Lungi dal riproporsi in forma unitaria, tenta di rallentare le politiche di flessibilizzazione del rapporto di lavoro con una CISL criticamente posta in fase di concertazione (proprio mentre la Legge Biagi decreterà definitivamente la fine di tale modello negoziale e legittimerà il “dialogo sociale” quale nuovo strumento) ed una CGIL apparentemente ancor più critica ma impotente, spesso volutamente impotente. Scriverà Giuseppe Casadio su l’Unità del 27 agosto 2003: “Vi sono una sistematicità e una coerenza di fondo che legano il decreto attuativo della legge 30, la Bossi-Fini, la riforma Moratti, la proposta di riforma fiscale e previdenziale, l’attacco al welfare nazionale e locale. È l’egoismo sociale, è un’idea di competizione povera e al contempo selvaggia, è il principio del superamento di ogni corpo democratico intermedio.... Al di là delle forme e dei comportamenti tenuti dal Governo nel gestire questo specifico provvedimento - irrispettosi dei sindacati e delle organizzazioni datoriali (lo schema di decreto fu portato direttamente al Consiglio dei Ministri, senza che le organizzazioni sociali avessero potuto anche solo leggerlo e, in seguito, a tutto si è assistito tranne che a un vero e proprio confronto tra le parti e il Ministero) - le norme contenute nel provvedimento puntano a una totale frantumazione del mercato del lavoro, ad una disarticolazione delle forme della rappresentanza, alla individualizzazione del rapporto di lavoro, allo snaturamento, attraverso gli enti bilaterali, della stessa funzione del sindacato inteso come organizzazione libera e portatrice di interessi specifici. La conclusione dell’iter formale della cosiddetta “riforma del lavoro”, per i suoi contenuti in larga parte inaccettabili e immotivati, e per la strumentalità politica e ideologica con cui è stata agita (fino a titolarla con il nome del professor Marco Biagi, manifestazione di un cinismo eticamente ripugnante) ci consegna innanzitutto un compito impegnativo sul piano dell’azione sindacale. La CGIL ha già indetto e svolgerà a settembre due ore di sciopero in tutti i luoghi di lavoro per discutere con i lavoratori, renderli consapevoli delle conseguenze e predisporre la azioni di contrasto utili e necessarie da mettere in campo a livello generale e attraverso l’iniziativa contrattuale articolata.... Le straordinarie mobilitazioni realizzate negli ultimi due anni testimoniano di come, intorno a questo tema, sia possibile aggregare e riportare all’impegno civile tante diverse soggettività; oggi ancora di più di fronte ad una legge che esaspera precarietà e individualismo, emerge l’esigenza di una strategia che estenda le tutele, dentro e fuori il lavoro, a chi subisce oggi vecchie e nuove privazioni (materiali, ma anche culturali e relazionali). La CGIL, in questa prospettiva, dovrà rimettere in valore la sua ricca elaborazione propositiva sulle politiche per il lavoro (le proposte legislative su cui abbiamo raccolto oltre 5 milioni di firme) e per un welfare universalistico moderno ed efficace; ma anche la sinistra politica, e i Ds innanzitutto, sono chiamati in causa. Il tempo è ora, l’autunno che ci attende deve essere segnato da una forte ripresa del movimento per i diritti nel lavoro e nella cittadinanza; un movimento che coinvolga di nuovo tutta la società italiana, nelle sue forme e nei suoi contenuti. A questo devono predisporsi le forze politiche di sinistra, ad imprimere, una forte accelerazione alla loro elaborazione programmatica per saper comunicare una strategia di governo credibile che sappia interloquire positivamente con le nuove insicurezze, con quel senso di solitudine e di esclusione che l’agire di questo governo diffonde sempre più.”30 La Legge 30 quindi, è l’ultimo atto del processo (solo in ordine di tempo) di un Governo a tutela delle imprese che, incapaci di realizzare nuovi processi, chiedono la compressione istituzionalizzata del costo del lavoro per utilizzare, in un determinato momento del ciclo produttivo, la necessaria quantità di forza lavoro, tutto compatibile al modello cosiddetto postfordista e al dominio sociale generalizzato da parte del capitale; un capitalismo che a causa della forte crisi di accumulazione che ormai vive da trenta anni non può più accettare le rigidità del lavoro, la mediazione keynesiana, né alcuna forma di conflitto. Serve “carta bianca” sulle privatizzazioni, sulla deregolamentazione e destrutturazione del mondo del lavoro, sulla soppressione del Welfare, dei diritti. Ecco per tutto ciò la funzionalità della legge che istituzionalizza quindi diversi tipi di lavoro precario: il lavoro a chiamata, il lavoro intermittente, le tante forme di part-time, con un unico scopo: “rendere una quota della forza lavoro più adattabile alle esigenze del ciclo produttivo e alle variazioni dettate dal mercato o dal ciclo tecnologico». Almeno un effetto razionalizzante questa legge l’avrà? «Ma c’è un aspetto che trovo particolarmente negativo: è una legge che dà una forma giuridica istituzionale a diversi tipi di lavoro precario, che altrimenti si potrebbe definire “poco dignitoso” o “povero di contenuti”. Nel 1999, l’ILO, l’International Labour Organization, tenne la sua seduta plenaria a Ginevra, per discutere di un argomento: le travail decent. Cioè il lavoro decente, cioè il lavoro dignitoso, umano. L’ILO ha compiuto rilevazioni sia a livello paesi sia a livello imprese per vedere quali sono paesi e imprese che offrono tassi più o meno elevati di lavoro dignitoso... L’ILO ha definito il lavoro dignitoso attraverso una serie di parametri piuttosto precisi: la sicurezza dell’occupazione, la sicurezza del reddito, il riconoscimento delle proprie capacità professionali e altre cose del genere... Ebbene: una legge come la legge 30 con i suoi decreti attuativi nega quasi tutti i parametri dell’ILO»... Che non è un’organizzazione sindacale... La legge 30 offre una copertura istituzionale, giuridica a quelli che secondo l’ILO sono lavori poco dignitosi, “indecenti”...». Il modello italiano rispecchia altri modelli stranieri oppure siamo all’avanguardia? «Siamo decisamente all’avanguardia... Anche se bisogna riconoscere che in un anno e mezzo il govermo Raffarin s’è mosso a lunghi passi in direzione analoga, restando comunque indietro. Ormai si manifesta una linea europea, inaugurata dai governi Thatcher in Gran Bretagna, però l’Italia si piazza in testa al gruppo, raggiungendo il massimo di etichettature giuridiche di lavori sempre esistiti». Quindi, in sostanza, il paesaggio non cambia? «Detto in modo un po’ paradossale, prima c’era il vantaggio che il lavoro “indecente” non era legale. La copertura legale si rivelerà un errore anche per le imprese: aumentando il numero dei lavori precari dentro le aziende, ne soffrirà la qualità... Soffriranno l’organizzazione, la memoria aziendale, la stessa efficienza organizzativa». Cioè, per produrre a costi più bassi si produrrà sempre peggio. Con un risultato: minor competitività. «Competitività che dovrebbe essere cercata attraverso la qualità del lavoro e una politica industriale che non esiste». Le critiche alla rigidità del lavoro in Italia sono state assai diffuse, anche a sinistra... «S’è assistito all’adozione più o meno consapevole di certi canoni neo liberali o liberisti. Se si guardasse agli indici di rigidità della forza lavoro, ci si accorgerebbe che l’Italia già da alcuni anni è a metà della classifica. Il mercato francese tedesco o austriaco sono molto più rigidi di quanto non fosse e non sia quello italiano, con una produttività e un costo del lavoro molto più elevati. Si preferisce rincorrere la Spagna o la Grecia o magari l’Irlanda e naturalmente la Gran Bretagna piuttosto che i paesi che hanno una struttura industriale ben più robusta della nostra». Altra motivazione della legge: fa emergere il lavoro nero. In questo senso può funzionare? «Esiste una legge per l’emersione del lavoro irregolare e dell’azienda irregolare. Se non ricordo male, a fine maggio i lavoratori che avevano fatto richiesta di emersione erano meno di quattromila. Le posizioni irregolari sul mercato italiano sono circa cinque milioni. La legge è stata un fallimento. Che questa nuova possa contribuire in qualche minima misura è possibile, ma che riduca il fenomeno in maniera significativa ritengo sia del tutto irrealistico, perché il lavoro nero continuerà a costare meno. La flessibilità italiana è stata quella del lavoro irregolare, come in altri paesi peraltro... Flessibilità per flessibilità, uno si tiene quella vecchia». Abbiamo letto della riforma previdenziale in Francia, dell’intesa sulla sanità in Germania. In Italia si discute in modo patologico di pensioni... «Un attacco diffuso allo Stato sociale. I problemi esistono, la cosiddetta transizione demografica può imporre certe modifiche. È lecito che si parli di riforma delle pensioni, però bisognerebbe pur dire che in Italia il monte retribuzioni sul PIL è diminuito di sei punti in dieci anni e di altrettanto è diminuito il reddito disponibile alla famiglie. Il PIL si è ridistribuito a favore di altri redditi che non sono solo profitti, ma sono anche rendite, patrimoni e così via... Poi si fanno i convegni lamentando la caduta dei consumi. Ma questa discesa incide anche sulle pensioni, perché se la quota di PIL destinato alle retribuzioni fosse di sei punti più alta, sarebbero più alti anche i contributi previdenziali... Si dovrebbero però mettere sul tavolo tutte le carte, non solo quelle che fanno comodo».”31 La Legge 30, le privatizzazioni di impresa e dei servizi sociali e del Welfare in genere, la stessa riforma Costituzionale, tutto è funzionale a comprimere i diritti e i costi del lavoro a dare un ruolo prioritario all’Italia nell’Europa del capitale con una propria e specifica funzione nella rideterminazione della nuova divisione internazionale del lavoro. Il Profit State si inchina ai padroni. Grande soddisfazione è stata espressa dalla Confindustria, il cui vicepresidente Guidalberto Guidi, con l’incarico per le relazioni industriali, ora al mercato del lavoro, ha affermato: «non manca nulla: abbiamo a disposizione una serie di strumenti che non dico mettono l’Italia all’avanguardia in Europa ma certo rendono il nostro mercato del lavoro uno dei più attrezzati». Una riforma che con le nuove forme di flessibilità aumenterà le occasioni di lavoro che è «il positivo epilogo di una lunga stagione di dialogo sociale». Negativa, da parte sindacale, la CGIL secondo il cui segretario nazionale Casadio si tratta di: “norme raffazzonate che puntano solo a maggiore precarietà. E in più assegnano alle parti sociali funzioni improprie, nel far incontrare domanda e offerta di lavoro. C’è il rischio di creare circuiti perversi”32 Ma come abbiamo già accennato la reazione del sindacato confederale alla Legge 30 è debole. La CISL, che del resto aveva annuito al “Patto per l’Italia” sarà addirittura critica verso l’iniziativa della CGIL di arrivare ad un confronto con i responsabili del lavoro dei partiti dell’Unione con l’intento di mettere in discussione la L. 30. L’iniziativa si terrà il 24 Febbraio ’05 e Felicia Ma socco, su 4 colonne dell’Unità, titolerà il giorno seguente: “Programma di Governo: via la Legge 30”; anche se non proprio di cancellazione si tratterà (come invece era successo al dibattito pubblico di Rifondazione Comunista a Settembre 2004) bensì di “riportare il contratto di lavoro a tempo determinato a forma tipica e arrivare dalle attuali 49 tipologie di contratto non ordinarie a 7-8 forme soltanto”33e, nello specifico risolvere il problema dei contratti co.co.co. non cancellando questo modello ma “equiparandolo a lavoro subordinato anche da un punto di vista previdenziale e fiscale”34 ammorbidendo cioè l’impatto sociale del fenomeno co.co.co. inserendolo nel “vaso di pandora” dei Fondi Pensione. E non finisce qui: per il part - time va ripristinato l’equilibrio tra contrattazione collettiva e rapporto individuale, il lavoro a somministrazione deve tornare ad essere lavoro temporaneo fissando i tetti nella contrattazione collettiva, l’apprendistato ed il contratto di reinserimento non devono estinguersi perché funzionali alle imprese per precarizzare i lavoratori con anni di esperienza bensì “formare per davvero”35. L’iniziativa ha comunque lasciato contenti Ferrero, Ripamonti e Tibaldi (per Rifondazione, Verdi e PdCI) troppo sicuri di riuscire ad incastrare l’intera Unione il giorno dopo la vittoria delle politiche del 2006; pronti, in buona sostanza, a vendere la famosa “pelle dell’orso” prima di averlo catturato, ma ha lasciato per nulla convinto Damiano dei DS che “mette le mani avanti” perplesso che la via giusta debba essere l’abrogazione della Legge 30, “la flessibilità va fortemente selezionata”36 ha detto in sintonia con Treu, già famoso per il “pacchetto”, che di flessibilità concertata ne introdusse parecchia nel periodo in cui lo stesso D’Alema messianicamente predicava “scordatevi il posto fisso”; su un altro punto comunque i DS hanno fatto eco alla CGIL: ripristinare la concertazione, metodo ignorato a dir loro dall’attuale Governo, proprio mentre l’ultima leadership della FIOM, che rischia di passare alla storia per non aver firmato nessuno degli ultimi accordi (tutti però applicati da CISL - UIL e Confindustria), rivendica “una quota di produttività nazionale e un obbligo di contratto integrativo ... fuori dal perimetro delle norme definite nell’intesa del ’93”37 cioè fuori dalle regole della concertazione.

7. Dalla concertazione al dialogo sociale (cioè la neoconcertazione al ribasso di Montezemolo) Il dialogo sociale porta con sé il mero obbligo della notifica delle determinazioni governative (o aziendali) ma lascia al Governo (e contrattualmente all’azienda) - dopo un certo tempo necessario al vaglio da parte sindacale degli effetti o ricadute delle proposte - la discrezionalità di trasformare in atti legislativi (o decisioni aziendali) le determinazioni iniziali. Il cosiddetto “dialogo sociale” è la controffensiva di Confindustria e CGIL, CILS e UIL per rilanciarsi dopo il lungo periodo in cui il Governo Berlusconi li aveva messi ai margini della vita politica-sociale scegliendo di gestire direttamente il confronto delle relazioni con il mondo del lavoro e dell’impresa. “Il modello del “dialogo sociale” viene inserito dal Trattato istitutivo CE (stipulato in Roma il 25.3.1957 e modificato dal Trattato di Amsterdam del 2.10.1997) al tit. XI (artt. da 136 a 140), nell’art. 136 come obiettivo da traguardare accanto a quelli «della promozione dell’occupazione, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro..., una protezione sociale adeguata, ... lo sviluppo delle risorse umane atto a consentire un livello di occupazione elevato e duraturo e la lotta contro l’emarginazione». «A tal fine, la Comunità e gli Stati membri mettono in atto misure che tengono conto della diversità delle prassi nazionali, in particolare nelle relazioni contrattuali, e della necessità di mantenere la competitività dell’economia della Comunità». Sempre allo stesso fine, l’art. 136 precisa che «il Consiglio CE può adottare mediante direttive le prescrizioni minime applicabili progressivamente, tenendo conto delle condizioni e delle normative esistenti in ciascuno stato membro». «Le disposizioni adottate a norma del presente articolo non ostano a che uno Stato membro mantenga e stabilisca misure compatibili con il presente trattato, che prevedano una maggiore protezione». All’art. 138 e 139 viene delineato il metodo del “dialogo sociale” nel “settore della politica sociale”, spiegando come la Commissione CE - prima di presentare proposte - «ha il compito di promuovere la consultazione delle parti sociali a livello comunitario e prende ogni misura utile per facilitarne il dialogo provvedendo ad un sostegno equilibrato delle parti». «Se dopo tale consultazione, ritiene opportuna un’azione comunitaria, la Commissione consulta le parti sociali sul contenuto della proposta prevista...le quali trasmettono alla Commissione un parere, o se opportuno, una raccomandazione»; «...le parti sociali possono anche informare la Commissione della loro volontà di avviare un processo di dialogo che può condurre, se queste lo desiderano, a relazioni contrattuali, ivi compresi accordi». «La durata della procedura non supera i nove mesi, salvo proroga decisa in comune dalle parti sociali interessate e dalla Commissione»; «... gli accordi conclusi a livello comunitario sono attuati... in base ad una decisione del Consiglio su proposta della Commissione», con deliberazione a maggioranza qualificata.”38 Ma il “dialogo sociale” come variante “partecipativa” delle organizzazioni sindacali tradizionali agli assetti organizzativi e programmatici della cosiddetta democrazia industriale, significa solamente assecondare le scelte del capitale contro il lavoro, cogestendo i processi di trasformazione economica-produttiva negli interessi del padronato. Una interpretazione della democrazia economica basata su modelli consociativi e coercitivi delle relazioni sociali ed economiche incentrate sull’efficienza d’impresa; modelli relazione che non pongono mai in discussione le problematiche di redistribuzione dei poteri e dei processi decisionali e invece rafforzano con la formazione collettiva del capitale i processi di accumulazione. È allora questo il modo di pensare e realizzare il nuovo modello di sviluppo economico neoliberista anche attraverso la comproprietà e la partecipazione fittizia dei lavoratori alle scelte d’impresa. Si inizia così realmente a garantire contemporaneamente sviluppo di forme di accumulazione flessibile valorizzando i modelli consociativi tendenti al controllo sociale e alla compressione dell’antagonismo attraverso la diffusione sociale della cultura d’impresa cercando un sindacato compiacente di riferimento. A questa logica risponde anche la visione e il ruolo che si vuole dare alla cooperazione sociale, al cosiddetto “Terzo settore”. E si badi bene che tale importanza strategica attribuita al non-profit in generale proviene da riconoscimenti effettuati nientemeno che dalla Banca d’Italia, dai vertici della Chiesa cattolica, dal mondo delle fondazioni bancarie finanziarie, dallo stesso sindacato confederale. Dietro il tanto decantato sviluppo dell’imprenditorialità locale, l’esplosione del “popolo degli imprenditori”, che è semplicemente lavoro parasubordinato, le ipotesi di democrazia economica e industriale favorite, così si dice, dal “dialogo sociale” altro non c’è che un capitalismo selvaggio che crea falsi miti al fine di nascondere le proprie contraddizioni. Si provocano, così, incrementi notevoli di disoccupazione palese e invisibile, precarizzazione del lavoro, negazione delle garanzie sociali e delle regole elementari del diritto del lavoro, in un territorio che si fa fabbrica sociale, in quanto luogo di sperimentazione e affermazione delle compatibilità d’impresa, con un livello di attacco complessivo alla funzione sindacale mascherata da uno strumentale “dialogo sociale”. Ma i processi decisori e valutativi fondamentali dell’impresa non hanno possibilità di essere applicati e trasformati in piani operativi sindacalmente socialmente efficienti, in quanto anche se subordinati ad una nuova funzione imprenditoriale a valenza strategica che invade la società, sono comunque aspetti e strumenti del generale modo di produzione capitalistico basato sullo sfruttamento del lavoro salariato, nelle diverse forme che va assumendo nell’attuale cosiddetta era postfordista. Ancor più quindi, oggi, in cui il modo di produzione capitalistico si supporta di un modello di comunicazione efficiente che si concretizza in programmi di controllo produttivi e sociali, in una rappresentazione del potere capitalistico come totale dominio dei meccanismi sociali, economici e culturali. Il passaggio gestionale di Confindustria da D’Amato a Montezemolo è anche il ritorno al primato della grande impresa, decretando la sconfitta del modello distrettuale e della piccola impresa. L’industria italiana e i suoi apparati finanziari hanno bisogno di riposizionarsi nella competizione internazionale e per questo necessitano di un sindacato confederale disposto ad una neoconcertazione al ribasso. Nei primi anni del nuovo millennio si registrerà un sindacato confederale unito solo nella condanna contro chi continua a lottare contro i diversi modi di essere del controllo capitalistico. Con una CISL “più aperta al cambiamento”, cioè disponibile da subito sul piano del nuovo dialogo sociale e di relazioni di “apertura” immediate alla Confindustria di Montezemolo, e una CGIL che pensa ancora di “ poter parlare di concertazione e quindi fare contrattazione nel recinto segnato dall’accordo del 23 Luglio, che l’autonomia da partiti e governi sia una variabile dipendente dagli esiti elettorali, che al rifiuto della guerra come strumento di soluzione dei conflitti si possa rinunciare in caso di bombe umanitarie... Che lo schema dell’accordo del 23 Luglio non sia più proponibile lo dice la differenza abissale tra l’impressionante aumento delle rendite delle imprese e la perdita di potere reale dei salari; che i rapporti di forza siano cambiati lo dice l’arroganza padronale e il peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita dei lavoratori; che l’autonomia sia un elemento vitale da reinventare lo dicono i frutti che oggi raccogliamo di un’accondiscendenza troppo a lungo praticata; che non si possa definire «umanitaria» una guerra lo dice la storia, oltre che il vocabolario... Perché un sindacato incapace di sentire la rabbia, la passione, i desideri, le aspirazione della parte migliore di una generazione, di chi ha ancora voglia di lottare, sancisce la propria fine.”39 Ma la CGIL e i sindacati concertativi non cambiano le loro strategie di compressione della conflittualità di classe prefigurando nuovi scenari di sacrifici per i lavoratori. Non è un caso che l’11 Luglio del 2004, CGIL-CISL-UIL si incontreranno a Roma con il nuovo presidente di Confindustria, Cordero di Montezemolo, per ricominciare a discutere di concertazione con l’avvio di tavoli comuni sulla riforma del sistema contrattuale e quello interno ai confederali per nuove relazioni e nuove dinamiche di rappresentanza, ancora una volta contro gli interessi reali dei lavoratori. Ma nei posti di lavoro e nelle piazze, le RdB, la CUB continuano a manifestare il loro netto rifiuto a quella pratica scellerata che ha imposto sacrifici ai lavoratori e vantaggi inauditi alle industrie. Una CUB e una RdB forti delle lotte di un autunno trascorso a coordinare centinaia di autoferrotranviari divisi in una miriade di Aziende privatizzate e nella vertenza ALITALIA, nelle lotte contro la precarietà, per i diritti, per il Reddito Sociale, al fianco dei disoccupati e degli immigrati in lotta. È così che la RdB consolida la propria forza nelle elezioni delle RSU. “Con le elezioni del 2004 siamo giunti al terzo appuntamento elettorale. Su questo ultimo si sono addensate, oltre alle solite, nuove difficoltà rispetto alle volte precedenti. Intanto una prima differenza; nel 1998 si è votato quando era al governo il centrosinistra e nel 2001 aveva da poco lasciato il governo Amato. Governi che non si erano certo risparmiati nel portare avanti politiche neoliberiste concretizzatesi con attacchi a diritti e tutele in ogni ambito e la Pubblica Amministrazione non è stato certo l’ultimo. Con questi governi, nel solco della concertazione, Cgil, Cisl e Uil hanno continuamente e chiaramente collaborato ripartendosi quota parte delle responsabilità derivanti dalle scelte operate. Era quindi più chiaro il loro ruolo agli occhi dei lavoratori e più giustificata la proposta di una alternativa sindacale. Oggi c’è il governo Berlusconi contro il quale, anche obtorto collo, pure la Cisl e la Uil si sono viste costrette alla mobilitazione in un crescendo imposto dalle scelte del governo. Infatti, nonostante avessero accettato di rompere con la Cgil, fino ad arrivare alla firma del famigerato patto per l’Italia con annessi e connessi, nella speranza di ottenere un rapporto privilegiato di contrattazione e di spartizione, il governo ha proceduto a testa bassa nelle sue scelte politiche e sociali prescindendo da qualsiasi mediazione. In forte deficit di ossigeno Cgil, Cisl e Uil hanno deciso così di interrompere la fase di bipolarismo sindacale e si sono aggrappate alla nuova Confindustria di Montezemolo nell’illusione che un nuovo patto tra produttori potesse imporre al governo un ripensamento e recuperare così il terreno della concertazione che tanti danni ha già causato ai lavoratori. Ma anche questa volta si sono sbagliati, il governo non solo ha tirato dritto per la sua strada ma ha rafforzato l’attacco su tutti i terreni: dal blocco dei contratti si è passati ad una Finanziaria che ha assunto la Pubblica Amministrazione a bersaglio privilegiato per rastrellare risorse destinate a coprire i buchi di bilancio e a finanziare il grande imbroglio della riduzione delle tasse..... Una seconda differenza è rappresentata dal tasso di usura di questa esperienza delle RSU. Con il passare del tempo è diventato sempre più evidente, non a noi che l’abbiamo denunciato fin dall’inizio, ma alla stragrande maggioranza dei lavoratori che le RSU così come sono state concepite non svolgono, nella generalità dei casi, alcun ruolo significativo. Non ci sono riuscite sul piano del ripristino di una dinamica democratica nel rapporto sindacato-iscritti-lavoratori. Continuano a prevalere, infatti, gli apparati sindacali che “affiancano” gli eletti RSU, nonchè gli accordi di cartello e quelli sottobanco che precedono il confronto pubblico... Ebbene, anche in un quadro così pesantemente condizionato, siamo riusciti ad ottenere un ottimo risultato puntando sulla storia, sulla pratica e su un programma che siamo riusciti a far vivere in concreto anche nel corso della lunga campagna elettorale. In sintesi i risultati: ai 6 comparti dove avevamo la maggiore rappresentatività se ne è aggiunto un settimo, l’Università con l’8% di voti; in 5 comparti raggiungiamo un consenso a due cifre: il 12% nel Parastato, il 13% nella Presidenza del Consiglio dei ministri, l’11% nelle Agenzie Fiscali, il 10% nelle Aziende Autonome, il 18% nella Ricerca. Nel comparto Ministeri consolidiamo la nostra presenza con il 7%, registriamo un incremento negli Enti Locali, manteniamo i nostri voti dopo la rottura del cartello di sigle che avevamo costruito nel 2001 nella Sanità. Siamo risultati primo sindacato in centinaia di posti di lavoro, in alcuni ambiti in modo eclatante, e il fatto che questi risultati si ripetono o si rafforzano anche nelle stesse realtà sta a significare che non è una fiammata passeggera dovuta a qualche particolare evenienza ma è sintomo di un consenso consapevole e di un saldo radicamento. Un risultato particolarmente rilevante se si tiene conto che, anche in ragione della vastità e frammentarietà dei posti di lavoro (circa 14.000 sedi elettorali circa), la presenza delle nostre liste riguardava un bacino ridotto dell’elettorato. .... Pesa anche su di noi l’onere di indicare una strada e di saperla praticare, a partire dall’affermazione di una sostanziale indipendenza dal quadro politico che avremo davanti nei prossimi mesi, per essere espliciti decidendo di praticare con la stessa determinazione gli stessi obbiettivi sia in presenza di un governo di centrodestra che di centrosinistra. Bisogna saper ricostruire la coscienza di sé dei lavoratori, l’identità che si è appannata non poco, e restituire loro l’arma del conflitto, unico strumento in grado di affermare una autentica autonomia di classe e di ribaltare i rapporti di forza. Anche se in modo discontinuo e contraddittorio l’ultimo anno dimostra che è possibile, stanno a dimostrarlo le lotte degli autoferrotranvieri, di Scanzano, di Melfi, dei Vigili del Fuoco o delle Agenzie Fiscali nel pubblico impiego. I terreni della sperimentazione non mancano certo. Sono quelli della lotta contro lo smantellamento della Pubblica Amministrazione che non è solo riduzione delle prestazioni e dei diritti, ulteriore riduzione dello Stato sociale ma è soprattutto demolizione dello Stato, la privatizzazione persino dei rapporti sociali. È lotta alla precarietà in ogni sua accezione, di lavoro, di reddito, di prospettive di vita. È lotta contro il carovita e per il reddito, per una diversa distribuzione della ricchezza, per il ripristino della scala mobile, per aumenti salariali veri, per lo sviluppo dell’occupazione. È lotta contro lo scippo del TFS, il TFR del privato, per il rilancio della Previdenza pubblica. È lotta per una definizione certa dello status giuridico dei dipendenti pubblici che non può più essere la condizione per negare loro diritti riconosciuti nel settore privato come, ad esempio, il riconoscimento delle mansioni superiori. Su questo terreno e su questi temi saremo chiamati ad esercitarci nei prossimi mesi e la coincidenza con l’avvio della fase congressuale sarà l’occasione per definire meglio l’analisi della situazione generale, i nostri tratti d’identità e gli strumenti organizzativi più idonei ad esaltare le nostre capacità.”40

8. Conclusioni: Rilanciare le lotte rilanciare l’inchiesta di classe Le lotte necessitano di essere accompagnate da strumenti di conoscenza per rafforzare il conflitto. Ma anche in questa fase le lotte si fanno sentire, basta pensare agli autoferrotranvieri, ai ferrovieri, agli aeroportuali, al ritorno dei metalmeccanici, per non parlare dei nuovi settori forti di intervento delle RdB e della CUB, dai precari, ai disoccupati, ai precari. Forte si fa l’unità di lotta del mondo del lavoro e del lavoro negato con le lotte sociali, sulla questione ambientale, per il Reddito Sociale, contro il carovita, per una nuova contrattazione sociale. L’esigenza di una diversa approfondita analisi-inchiesta di classe incentrata sulla composizione della soggettualità del lavoro e del non lavoro a caratterizzazione territoriale, nasce dalla constatazione che lo sviluppo socio-economico è stato caratterizzato da una specifica dinamica delle forme di accumulazione del capitale determinate dai processi di ristrutturazione e di collocazione internazionale del capitalismo nell’era della competizione globale. L’aspetto territoriale-settoriale assume un ruolo sempre più determinante con il passaggio da una produzione di massa, concentrata, ad una di tipo flessibile e diffusa basata nel contempo sulla mobilità, flessibilità e precarizzazione della forza lavoro, per unire le lotte del lavoro alle lotte per una nuova contrattazione sociale. Il Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali (CESTES) e la rivista PROTEO stanno lavorando da molti anni a complesse analisi-inchieste riguardante la polarizzazione geoeconomica e geopolitica internazionale ed al ruolo dell’Italia nella nuova divisione internazionale del lavoro. L’inchiesta di classe fa riferimento alle nuove caratteristiche e mutamenti produttivi, ai passaggi e alle trasformazioni del modo di produzione e dell’organizzazione del lavoro e quindi alla nuova composizione di classe. Si cerca di evidenziare la diversificazione dei meccanismi e dei mutamenti dell’accumulazione capitalistica in riferimento ad un modo di produzione capitalistico che rimane sempre lo stesso, fino ad arrivare alle dinamiche riguardanti l’andamento della produttività, le sue forme redistributive (profitti, rendite, salario diretto, differito e indiretto attraverso lo Stato sociale), che configurano la nuova situazione del conflitto capitale-lavoro all’interno delle dinamiche neoliberiste come le privatizzazioni, le cosiddette riforme degli assetti istituzionali, le modificazioni del mercato del lavoro e delle organizzazioni del mondo del lavoro. Si tratta di riprendere la pratica dell’inchiesta di classe nella cosiddetta era postfordista dell’accumulazione flessibile, lavorando con lo spirito che ad esempio ebbe il gruppo dei “Quaderni Rossi” quando iniziò a sviluppare l’inchiesta operaia nella Torino degli anni ’60, capitale italiana del modello di produzione fordista, cercando di cogliere le contraddizioni del conflitto capitale-lavoro presenti sia in fabbrica sia nel sociale. Tutto ciò significa mettere sul campo il metodo dell’inchiesta di classe, un’inchiesta di massa e militante, come modello formativo e come modo di fare politica sviluppando conflitto di classe. Infatti per comprendere e produrre dinamiche di conflitto sociale bisogna leggere in chiave marxista le tendenze di fondo della società capitalistica, a partire dal modo di produzione capitalistico che ha sempre le stesse caratteristiche e che però si accompagna ad una continua evoluzione e diversificazione dei modelli di produzione (in termini semplificati passaggio dal fordismo al post-fordismo), dei paradigmi dell’accumulazione (in termini generali dall’accumulazione rigida alla cosiddetta accumulazione flessibile) e di conseguenza a cambiamenti nell’organizzazione del lavoro e nell’organizzazione del vivere sociale complessivo. È solo così che si può dare una corretta interpretazione dello sviluppo delle forze produttive, dei mutamenti dei rapporti di forza capitale-lavoro e delle continue evoluzioni nella composizione di classe relativamente ad un dato livello di sviluppo. È partendo dalle considerazioni di cui si è detto sinteticamente in precedenza che CESTES e la rivista PROTEO sviluppano un’analisi-inchiesta di tipo politico-economico, di ricerca statistico-economica e di indagine diretta sul campo relativamente alle trasformazioni avvenute a partire dagli anni ’70, che riguardano le principali tendenze del capitalismo in Italia confrontate con le realtà dei tre poli USA, UE e Giappone o, in genere, alla variabile asiatica. Si sono in tal senso realizzati momenti dell’analisi-inchiesta riguardanti dapprima i mutamenti strutturali e localizzativi dello sviluppo del sistema socio-economico italiano, poi i modelli di capitalismo e i processi di privatizzazione (in particolare in Italia e in Europa), ed infine le tendenze macroeconomiche del processo di ristrutturazione capitalistica, sia riguardo al fattore lavoro sia al fattore capitale, con attenzione ai processi di internazionalizzazione produttiva e al ruolo delle multinazionali e ai nuovi assetti dei poteri geoeconomici mondiali. È per questo che ci è sembrato interessante presentare, seppur in prima bozza, questa analisi sulla storia sindacale e parallelamente quella di alcune tendenze e trasformazioni dello sviluppo capitalistico in Italia.

Note

1 Ricercatrice socio-economica, membro del Comitato Scient. di CESTES-PROTEO.

2 Univ. “La Sapienza”; Direttore Scientifico CESTES e della rivista PROTEO.

3 Coordinamento Nazionale RdB, Pubblico Impiego.

4 www.cgil.it

5 2° Congresso Nazionale RdB - Chianciano 21-22-23- Giugno ‘96 - Atti del Congresso - ora in Archivio Nazionale RdB.

6 www.cgil.it

7 www.cgil.it

8 Articolo per ViaPo, Firstclass-Cisl, Documentazione, Archivi Online.

9 Articolo per ViaPo, Firstclass-Cisl, Documentazione, ArchiviOnline.

10 In altri termini, nel 1992, si verifica una perdita di circa 280.000 addetti, perdita che arriva nel 1994 a 400.000 addetti.

11 Cfr. in “Il rapporto annuale 1998”, ISTAT.

12 Nell’occupazione atipica si comprende quella permanente, a tempo parziale e la totalità dell’occupazione a tempo determinato.

13 Fonte: OECD; European Commission, Employment in Europe, 1995.

14 Cfr. www.cnel.it

15 Nel 1995 il WTO ha sostituito il GAT. Oggi il WTO conta 140 Paesi, impiegati a raggiungere il libero scambio con accordi che definiscono le regole giuridiche del commercio internazionale.

16 La globalizzazione e i suoi oppositori, J. Stiglitz, Einaudi, 2002, pag.20.

17 La globalizzazione e i suoi oppositori, ult. Op. cit..

18 Riccardo Petrella ,”Appunti sulla Globalizzazione: il risveglio dei sindacati”; tratto da “Solidarietà Internazionale” n.1 Gennaio-Febbraio 2001 presente anche su: www.cipsi.it/soint/approfondimenti/articoli/news.asp?newsid=88)

19 3° Congresso Federaz. Nazion RdB- “Dalla subalternità ad una nuova identità”, documento congressuale - Montecatini, 12-13-14 maggio 2000.

20 Atti del 3° Congresso Nazionale della RdB - “Dalla subalternità ... ad una nuova identità”, op. cit.

21 Pr ulteriori approfondimenti: Polo Caputo “Lavorare in team alla FIAT da Melfi a Cordoba” Immaginatoli edizioni, 2004.

22 Giovanni Cannella - magistrato di Corte d’Appello - l’articolo “Quale governo quale giustizia” è tratto dal numero monografico di marzo 2002 della rivista “Il Ponte”

23 Nel secondo semestre del 2003 tale processo interesserà anche interi settori dell’assistenza sanitaria nella regione Lombardia, probabilmente da sempre la più avanzata nella sperimentazione di nuovi sistemi di «privatizzazione» ; ad essere ceduto è l’ASI il servizio socio - sanitario di assistenza integrata e con esso anche il personale di assistenza, al quale viene garantito, in prima applicazione la conservazione di un contratto, di natura privata, uguale a quello del personale del Servizio Sanitario Nazionale).

24 Corriere della Sera del 24.02.’05 pag. 27 “ ENEL e Poste private, la spinta del Governo”.

25 IDEM.

26 IDEM.

27 Il Messaggero del 25.02.’05 pag.21 - Luca Cifoni: “Competitività, una settimana per trattare - piano in 9 punti, il Governo chiede il contributo delle parti sociali”.

28 Comunicato stampa Ministero del Welfare 31 Luglio 2003.

29 Giovanni Cannella - magistrato di Corte d’Appello - l’articolo “Quale governo quale giustizia” è tratto dal numero monografico di marzo 2002 della rivista “Il Ponte”.

30 Giuseppe Casadio pubblicato su l’Unità del 27 agosto 2003, p. 28.

31 Intervista a: Luciano Gallino (di Oreste Pivetta) «Così si favorisce il lavoro indecente» pubblicato su l’Unità del 1 agosto 2003, p.4. Luciano Gallino è professore di sociologia all’università di Torino, autore del recente “La scomparsa dell’Italia industriale” (Einaudi).

32 Così da la Repubblica, 1.8.2003, “Al via l’era del lavoro flessibile” p. 6.

33 Fulvio Fammoni, Segretario Confederale CGIL, su l’Unità del 25.02.’05, Felicia Masocco: “Programma di Governo: via la Legge 30”.

34 IDEM.

35 IDEM.

36 IDEM.

37 Il Sole 24ore del 25.02.’05 Alberto Orioli: “Meglio il contratto della piazza” pag. 1.

38 Mario Meucci www.pegacity.it/justice/impegno/dialogo_sociale.html)

39 Maurizio Zipponi - FIOM CGIL Lombardia - “Una nuova generazione in lotta per un sindacato di classe” Ernesto, anno XI, n°4, Luglio/Agosto 2001, pag. 29.

40 Cfr. Domenico Provenzano, “Elezioni RSU nel pubblico impiego: una opportunità colta, una sfida vinta!”, in Proteo n.1/05, pagg.3-4.