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Guerra alla verità:Strategie dell’oblìo e della rimozione (Parte prima)

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Vladimiro Giacché
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Guerra alla verità:Strategie dell’oblìo e della rimozione (Parte prima)

Vladimiro Giacché

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“Le verità possono morire” (George Steiner)

Con questo numero “Proteo” intende aprire una finestra sul mondo dell’informazione e della comunicazione. Il motivo è presto detto: quello della “comunicazione” è oggi uno dei terreni cruciali su cui si gioca la battaglia tra progresso e restaurazione, tra civiltà e barbarie. Può sembrare un’affermazione eccessiva. Non è così: le vicende della vera e propria “guerra mediatica” che ha preparato l’invasione dell’Irak ci insegnano quale potenza di fuoco possano avere le menzogne amplificate dagli organi di informazione. La distorsione della realtà dei fatti - sino al suo capovolgimento - non è, del resto, qualcosa che riguardi solo il presente: basti pensare al tentativo di diffamare la Resistenza antifascista, di porne i combattenti sullo stesso piano dei traditori fascisti repubblichini che ammazzavano e torturavano sotto il comando nazista; ma anche alle diverse e convergenti manovre tese a negare i delitti di cui il fascismo si rese colpevole, tanto in Italia quanto nelle sue sciagurate guerre di conquista (a cominciare dai crimini di guerra commessi in Jugoslavia dall’esercito del duce e del re, ai quali nessuno dedica non diremo uno sceneggiato televisivo, ma neanche quattro righe sui giornali). Per non parlare poi della distorsione della verità sul conflitto sociale degli anni ‘70, tentando in ogni modo di criminalizzare il movimento operaio e le sue organizzazioni, negando il ruolo criminale e stragista dei fascisti, dei servizi segreti deviati e le connivenze e complicità di apparati dello Stato. È facile constatare come banalizzazione del male e criminalizzazione della Resistenza e del movimento operaio siano oggi il cuore dell’informazione di regime: sia che si tratti dell’Italia di sessanta anni fa, degli anni ‘70 sia che si tratti dell’Irak odierno. La redazione di “Proteo” ritiene che limitarsi a constatare e a denunciare quanto sta avvenendo non basti. È invece essenziale studiare i meccanismi attraverso cui queste operazioni sono condotte. Nella consapevolezza che soltanto così si possa cominciare a combattere efficacemente contro di esse. Con questo obiettivo pubblichiamo su questo numero la prima parte di un saggio di Vladimiro Giacché sulla “Guerra contro la verità” ed il saggio di Michele Loporcaro “Contro la retorica della comunicazione”. Nel primo contributo vengono prese in esame le concrete modalità di negazione della verità poste in opera sui mezzi di comunicazione di massa. Nel secondo viene attaccata alla radice la retorica della “comunicazione”, oggi diffusa tanto sui media quanto nelle università, mostrandone il carattere intrinsecamente totalitario e la sua funzionalità agli interessi immediati del capitale. Introduzione

Occuparsi dell’attacco che è stato sferrato alla verità potrà sembrare, a seconda dei punti di vista, sbagliato o superfluo. Chi abbraccia la filosofia “postmodernista”, e quindi considera il concetto stesso di “verità” come una scoria filosofica superata e tendenzialmente “totalitaria”, riterrà sbagliato occuparsi di questo problema. Per contro, chi, più attento alle cose di questo mondo, abbia seguito la penosa vicenda delle motivazioni addotte dagli Usa e dai loro servi per attaccare l’Irak, riterrà superfluo occuparsene: superfluo in quanto raramente le menzogne sono state così palesi e così poco bisognose di commenti come in questo caso (del resto, è noto che “la verità è la prima vittima di ogni guerra”). Ai primi potremmo rispondere che, se non esiste la “Verità”, certamente esistono le menzogne (l’aveva capito anche Popper...). Ai secondi diciamo una cosa diversa: l’insidia rappresentata dall’attacco contemporaneo alla verità consiste per l’appunto nel fatto di non presentarsi, se non in casi estremi, sotto la veste della pura e semplice menzogna. Le strategie di attacco alla verità sono molteplici, e in genere meno rozze. Nelle prossime pagine proverò ad offrire alcuni esempi di queste strategie. Nella convinzione che la strategia del falso possa dirci qualcosa anche sulla società che lo produce e su ciò che in essa “suona falso”.

1. La verità mutilata

“La verità”, diceva Nietzsche, “non è più verità se le si tolgono i veli di dosso”. Affermazione molto citata e molto fraintesa. Fraintendiamola anche noi, parafrasandola così: la verità non è più verità se la si strappa al suo contesto, a ciò che “le sta attorno”, in senso proprio e figurato. Ad esempio: nella famosa sequenza dell’abbattimento della statua di Saddam Hussein a Bagdad, divenuta una delle icone della guerra in Irak, le inquadrature mandate in onda sulle tv internazionali e pubblicate sui giornali erano così ravvicinate da non mostrare che la piazza era praticamente deserta e che la “folla festante” si riduceva a poche decine di iracheni.2 In questo caso la verità viene mutilata dal taglio delle foto, che impedisce di vedere lo spazio in cui ha luogo l’evento, e ne induce una falsa rappresentazione. Ma il contesto non è soltanto lo spazio circostante di una determinata scena. Sono anche le circostanze entro cui va collocato un evento, come pure il prima e il dopo di quell’evento stesso. Come ha osservato Le Carré a proposito dell’attentato dell’11 settembre, “è come se fossimo entrati in un nuovo mondo orwelliano, in cui la nostra personale affidabilità come alleati venisse valutata in base alla nostra propensione ad inserire il passato nella discussione sugli eventi di oggi. Ogni richiamo al fatto che i recenti attacchi sono inseriti in un contesto storico è considerata una loro giustificazione”.3 Usciamo dalla polemica immediata e vediamo l’aspetto formale di questo modo di procedere. La trasformazione dei processi in istantanee, l’attenzione al particolare puntiforme a scapito del contesto, la mitologia dell’Inizio assoluto laddove vi è una connessione di avvenimenti ben determinata: tutto questo consente di creare una narrazione arbitraria in cui vi è un Evento (l’11 settembre) inscrivibile soltanto nella categoria dell’Orrore assoluto (cioè per l’appunto “soluto, sciolto da” ogni prima e da ogni processualità indagabile). Un orrore inesplicabile, se non attraverso la categoria del Male. Ed ecco che il gioco è fatto: mutilazione della verità e propaganda di guerra sono tutt’uno. Ecco creato il Nemico: sfuggente e incomprensibile (laddove comprendere significa appunto “prendere assieme”, “considerare un evento nel suo contesto”). Evento, Inizio, Orrore, Nemico: sono questi, oggi, i quattro cavalieri dell’Apocalisse. Li vediamo in opera quotidianamente anche nel trattamento mediatico che è riservato al dramma palestinese. L’orrore “inesplicabile” degli attentati dei kamikaze palestinesi sarebbe in effetti molto meno inesplicabile se, invece di considerarli ogni volta un “nuovo Inizio” e una ripetizione dell’”Orrore” innominabile, li si inserisse nel contesto di umiliazione, miseria e morte che caratterizza quotidianamente la vita dei Palestinesi nei Territori occupati da Israele.4 Ma in fondo, come ha osservato lo storico Enzo Collotti, anche la vergognosa istituzione di una “giornata della memoria” per i cosiddetti “martiri delle foibe” è resa possibile soltanto dal fatto che “per i protagonisti di simili operazioni la storia comincia nel 1945”.5 E infatti i rastrellamenti, gli incendi dei villaggi, le torture, le fucilazioni sommarie in Jugoslavia da parte dei fascisti capitanati dal generale Mario Robotti (il quale amava ripetere che “si ammazza troppo poco”), con vittime che furono ovviamente molto più numerose degli infoibati, sono completamente scomparse dal dibattito. E dire che già negli anni Ottanta un documentario della Bbc aveva mostrato con dovizia di documentazione di quali orrori l’esercito dell’Italia fascista si fosse reso responsabile in Jugoslavia...

2. La verità dimenticata

“...Neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince. E questo nemico non ha smesso di vincere” (W. Benjamin, Sul concetto di storia, tesi VI; tr. it. a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Torino, Einaudi, 1997, p. 27)

“Lo spettacolo organizza magistralmente l’ignoranza di ciò che succede e, subito dopo, l’oblio di ciò che siamo riusciti ugualmente a sapere” (Guy Debord, Commentari sulla società dello spettacolo, 1988, § VI; tr. it. di F. Vasarri in La società dello spettacolo, Milano, Baldini & Castoldi, 1997, p. 197)

Fu Napoleone il primo a formulare esplicitamente il progetto di “dirigere monarchicamente l’energia dei ricordi”, proponendo la storia come instrumentum regni. Oggi la più alta realizzazione di quel progetto è rappresentata, in modo solo apparentemente paradossale, dalla negazione e distruzione del passato. Questa negazione ruota intorno alla negazione del passato come dotato di una realtà in qualche modo “oggettiva”, ossia non indefinitamente plasmabile dalla sua rappresentazione. È il trionfo della “storia di pongo”, o - se si preferisce - della “storia-Disneyland”. Che svolge una triplice funzione apologetica. La prima, la più formalmente coerente con la “storia monarchica” napoleonica, è quella di rintracciare nella storia la conferma dell’immagine che la società attuale (più precisamente le sue classi dominanti) intende dare di se stessa e della propria “superiorità”. Espungendo anche dal passato ciò che quotidianamente rimuove della propria realtà: innanzitutto le contraddizioni e i conflitti. Da questo punto di vista non è un caso che la cruda realtà dei conflitti sociali sia edulcorata od espunta dalla maggior parte delle ricostruzioni “storiche” offerte dalla filmografia contemporanea (che rappresenta oggi con tutta probabilità il principale veicolo del rapporto delle masse con la storia). Contemporaneamente, dalla rappresentazione del passato si fa emergere l’”eternamente umano”, fatto di passioni elementari e di coppie di opposti da feuilleton: odio/amore, bontà/malvagità, ecc.; ma anche di atteggiamenti che si pretendono “generalmente umani” e che altro non sono se non atteggiamenti borghesemente addomesticati e “politicamente corretti” (tolleranza [ma sino a un certo punto...]; amore per la giustizia, l’operosità e l’ordine sociale, ecc.). Così gli eventi storici perdono la propria specificità e il proprio carattere dinamico e processuale, ossia per l’appunto la propria storicità, e si riducono ad una successione di istantanee scattate con una macchina fotografica che adopera sempre il medesimo filtro. La storia così reinventata è l’eterno ritorno dell’eguale. Una storia, potremmo dire, essenzialmente antistorica. E proprio in questo va ravvisata la terza e cruciale funzione apologetica di queste rappresentazioni della storia: che consiste precisamente nella distruzione della realtà del passato, in quanto irriducibile al presente e dotato di specificità non traducibili nei cliché contemporanei. Il fatto è che per la società contemporanea solo il presente esiste. La “storia Disneyland” ristruttura il tempo così come il “Mc World” organizza lo spazio: intorno al consumo. Allo stesso modo che nell’industria dei viaggi le altre culture, lontane da noi nello spazio, sono ridotte alla dimensione dell’”esotismo” e dell’arretratezza, ma comunque private delle loro specificità peculiari (cosicché il più delle volte “il turismo si riduce alla facoltà di andare a vedere ciò che è diventato banale”, come osservava già Guy Debord), così il passato, ciò che è lontano nel tempo, diviene una copia sbiadita e banalizzata del nostro presente, al massimo condita da bizzarrie e superstizioni un po’ patetiche. Questo per quanto riguarda il passato remoto. Per ciò che concerne il passato recente, non è ovviamente sempre possibile cavarsela così a buon mercato. E allora si ricorre ad una diversa strategia - comunque sempre basata sulla “stipulatività” ed indefinita riscrivibilità del passato. Una strategia che ha due volti complementari. Per un verso, intellettuali paciosi e pensosi (magari tanto più paciosi in quanto ex esponenti di Potere Operaio, come Paolo Mieli...) caldeggiano la “strategia dell’oblìo” e della “riconciliazione”. Tale strategia viene proposta per l’Italia, ma anche per i delitti di Pinochet in Cile e di Videla in America Latina. Citiamo un passo significativo di Paolo Mieli: “ritengo che, ancorché mi ripugni quel che fecero Pinochet e Videla, una dose di oblio sia un elemento indispensabile per rimettere in equilibrio Paesi reduci da una guerra civile”.6 Non si può non notare la delicatezza con cui Mieli trasfigura il concetto di “feroce dittatura” in quello di “guerra civile”. Ma non si tratta di un dettaglio, bensì di un aspetto essenziale della “strategia dell’oblìo”: il fatto, cioè, di affratellare vittime e carnefici, assassinati e assassini in un’unica storia di cui si smarriscono i contorni. Per avere qualche esempio dell’uso pratico di questa strategia non è necessario andare tanto lontano. Negli stessi giorni in cui Mieli la propagandava, la “strategia dell’oblìo” faceva un illustre adepto: nientemeno che il figlio di Pinochet. Che in proposito sceglieva di adoperare parole rivelatrici: “il Cile deve dimenticare, non servirebbe a nulla se mio padre chiedesse scusa”.7 Viene in mente l’esortazione napoletana “scurdammoce o’ passato”; e soprattutto il suo séguito: “chi ha avuto, ha avuto, ha avuto / chi ha dato, ha dato, ha dato”. Comprensibile, quindi, l’atteggiamento del figlio di un dittatore sanguinario e ladro. Ma noi condividiamo un punto di vista opposto. Un punto di vista espresso persino da un editoriale dello International Herald Tribune (!): a proposito del Cile, nessuna reale “riconciliazione” è possibile sulla base dell’oblìo: “la riconciliazione richiede il contrario di questo... Una reale riconciliazione nasce da ciò che il colpevole tenta di evitare: piena informazione, risarcimento del torto e giustizia”.8 In fondo lo stesso concetto che esprime anche Slavoj Zizek, come al solito in termini paradossali: “la vera alternativa riguardo ai traumi storici non è tra ricordarli o dimenticarli, dato che i traumi che non siamo disposti o capaci di ricordare ci perseguitano in modo ancor più ineluttabile... Per dimenticare veramente un fatto dovremmo prima essere abbastanza forti da ricordarlo correttamente”.9 In Italia queste semplici verità sono allegramente ignorate. Sino ad arrivare ad affermazioni addirittura grottesche: così, per giustificare il progetto di erigere una chiesa sul luogo della strage di Portella delle Ginestre, dove il bandito Salvatore Giuliano nel 1947 massacrò a colpi di mitra braccianti comunisti e socialisti, il sindaco di Piana degli Albanesi, Gaetano Caramanno (di Forza Italia), invoca la “riconciliazione”. Giustamente c’è chi si interroga perplesso: “Che significa riconciliazione? Le nostre vittime sono state uccise dalla mafia, dobbiamo riconciliarci con la mafia?”.10 Ma precisamente questo è quello che la parola d’ordine della “riconciliazione” richiede e vuole: far vincere l’ingiustizia anche nel ricordo, cancellando i simboli e la memoria delle lotte passate, dei morti patiti, dei crimini subiti. Che questo sia più in generale il vero obiettivo anche degli appelli alla “riconciliazione” tra fascisti e antifascisti, ce lo dice l’altra faccia della strategia per il dominio della memoria messa in campo negli ultimi anni: che è, con estrema chiarezza, l’apologia (diretta o indiretta) del fascismo, della sua memoria e dei suoi simboli. Correlativa e complementare alla strategia dell’oblìo proposta agli antifascisti vi è quindi una strategia del falso dispiegata nei confronti dell’opinione pubblica. Abbiamo così un pullulare di strade dedicate a Giorgio Almirante, nonché a fascisti e gerarchetti vari; abbiamo manifestazioni di reduci fascisti della guerra di Spagna che si producono impunemente nel saluto romano all’altare della Patria (accompagnati da un parlamentare di Alleanza Nazionale); abbiamo un Presidente del Senato che sostiene che la Repubblica non è fondata sulla Resistenza; e abbiamo un Presidente del Consiglio che si produce in una vera e propria riabilitazione del fascismo, sbeffeggiando la memoria degli oppositori incarcerati e uccisi dal regime; e che, coerentemente, taglia i fondi alle associazioni che tengono viva la memoria della lotta partigiana (-55% nel 2004, dopo la decurtazione del 10% già operata in precedenza; mentre scrivo non è neppure sicuro che saranno disponibili fondi per celebrare il 60° anniversario della Liberazione); mentre la sua maggioranza di governo propone un disegno di legge che prevede l’equiparazione - in quanto “combattenti” - dei fascisti di Salò ai partigiani. Ci sono personaggi che incarnano assai bene questa atmosfera in cui si predica l’oblìo e si ricordano i carnefici, in cui si invoca la riconciliazione e si attaccano le vittime, riscrivendo la storia ad libitum - quasi fosse scritta sulla cera. È il caso del giornalista Giampaolo Pansa, autore del libro Il sangue dei vinti, simpateticamente dedicato al destino di alcuni fascisti dopo la Liberazione. In proposito si è parlato di “memoria a orologeria”, che “scatta soltanto quando le condizioni ambientali sono favorevoli a certe rivelazioni”.11 Ma quella di Pansa non è soltanto una memoria a orologeria: è una memoria à la carte. Una memoria da cui i ricordi sono trascelti (o modificati) a seconda degli umori politico-culturali del momento. Così, se in un romanzo di diversi anni fa Pansa “cominciava il racconto con lui bambino atterrito dal volto tumefatto del partigiano Tom, oggi comincia il suo racconto con lui bambino atterrito dal volto tumefatto del brigatista nero”.12 Si tratta forse della metafora più appropriata della storia “chewing-gum” dei nostri tempi.

3. La verità messa in scena

“Quel che cerchiamo non è la verità, è l’effetto prodotto” (Goebbels)

“- Non abbiamo reso la guerra affascinante?
 Mi ricorda molto il Super Bowl” (conversazione tra il conduttore del canale televisivo Usa MSNBC Lester Holt e il campione di wrestling Jesse Ventura, 26 marzo 2003)13

Che oggi la verità sia messa in scena, è vero in più di un senso. È vero innanzitutto nel senso che gli eventi vengono organizzati in funzione della loro rappresentazione e proiezione mediatica. Gli esempi a questo riguardo davvero non mancano. Così, il raid statunitense del 1986 sulla Libia fu programmato in modo da coincidere con i telegiornali di maggiore ascolto. Tutti ricordiamo la farsa dello sbarco delle truppe in Somalia, accolte quasi soltanto da una enorme selva di telecamere. E ricordiamo anche l’attentato alle Twin Towers, concepito in maniera tale da avere la massima copertura mediatica possibile: tanto che si è potuto sostenere che l’attentato sia stato realizzato avendo in vista prima di ogni altra cosa “il suo effetto spettacolare”.14 O l’attentato de Mello, l’inviato Onu in Irak, effettuato durante una sua conferenza stampa. O, infine, la strategia dei rapimenti in Irak, con filmati girati e diffusi in modo da avere il massimo impatto sui paesi-obiettivo. In tutti questi casi, per dirla con Derrida, “la mediateatralizzazione è parte integrante dell’evento e concorre a determinarlo”.15 Ma è vero anche che ormai importanti eventi politici sono inscenati come uno spettacolo. Il pensiero corre subito alle convention dei partiti Usa. Ma non è questo l’esempio più significativo: perché in questo caso la messinscena spettacolare si presenta come uno spettacolo - e quindi in certa misura manca l’obiettivo, rivelando appunto la propria natura di messinscena, di spettacolo costruito, artefatto e falso. No. Dobbiamo pensare ad altri episodi. Ad esempio, alla vera e propria recita di Colin Powell sul palcoscenico delle Nazioni Unite - con l’esibizione della famosa “fialetta di armi chimiche di Saddam”. In questo caso si potrebbe obiettare che si tratta di uno spettacolo riuscito a metà, in quanto la recitazione di Powell non convinse pressoché nessuno dei suoi colleghi delle Nazioni Unite. Ma bisogna tenere conto che esso ebbe un ben diverso impatto sull’opinione pubblica degli Stati Uniti - che era in fondo la vera destinataria del discorso. Qui si può osservare, di sfuggita, come le regole della comunicazione spettacolare creino una caratteristica distorsione dell’evento, per cui i suoi destinatari originari (nel caso specifico l’assemblea delle Nazioni Unite) non rappresentano il destinatario reale, e diventano quindi essi stessi attori e parte (e sia pure in qualità di “protagonisti muti”) di uno spettacolo che in realtà è rivolto a quella che una volta si chiamava “opinione pubblica”, e che oggi sono i “cittadini-spettatori”. Lo stesso accade in alcuni dibattiti parlamentari teletrasmessi di casa nostra, in cui l’orario ed il contenuto stesso degli interventi sono calibrati non in relazione al destinatario originario e ormai soltanto apparente (l’assemblea parlamentare), ma a quello mediatico (il telespettatore). Un esempio - se vogliamo ancora più emblematico - di messinscena spettacolare è rappresentato dall’atterraggio del jet militare guidato da Bush jr. sulla portaerei Lincoln e dal successivo discorso del Presidente Usa, il 1° maggio 2003. Alcuni particolari di questa ridicola messinscena, costata al contribuente degli Stati Uniti non meno di un milione di dollari, sono particolarmente istruttivi. Per evitare che la nave arrivasse al porto prima dell’ora della messa in onda dei telegiornali, la portaerei era stata fatta girovagare al largo della costa di San Diego per 49 chilometri, impiegando 20 ore per una distanza che avrebbe potuto essere coperta in un’ora. La velocità della nave fu calibrata in modo tale che il rumore della brezza marina non disturbasse il discorso di Bush. E la nave stessa fu posizionata in modo che le telecamere non potessero riprendere la costa (ormai assai prossima). A ragione, quindi, il critico televisivo del Washington Post, Tom Shales, ha potuto affermare: “questo non è solo un discorso, ma uno spettacolo patriottico, con la nave e l’equipaggio come scenografia essenziale alle parole di Bush, esattamente quello che ci vuole per allietare il pubblico americano e mostrare il ruolo drammatico di Bush come comandante supremo”.16 Come evidenziano le parole in corsivo, è chiaro che in questo caso parlare di “spettacolo” non è una metafora, ma è la più corretta definizione dell’accaduto. Il punto fondamentale, però, è che, per il telespettatore americano sintonizzato sulla Cnn, quanto vedeva sul suo teleschermo non era uno spettacolo, ma un discorso del presidente ripreso dalla televisione. Abbiamo infine gli accadimenti inscenati in senso stretto, ossia vere e proprie messinscena (nel senso deteriore del termine). Tutta la storia della cosiddetta “guerra al terrorismo” è disseminata di casi del genere. Mi limiterò a citare quello della cosiddetta “bomba sporca” di Josè Padilla, inscenata dal ministro della giustizia Usa Ashcroft con grande pompa nel giugno del 2002. Si era in un momento di grande difficoltà dell’amministrazione Usa per via delle rivelazioni sempre più insistenti circa i “fallimenti” dell’intelligence in riferimento all’11 settembre. La vicenda della “bomba sporca” ebbe enorme eco (e si guadagnò, tra l’altro una copertina dell’Economist che rappresenta un modello di terrorismo informativo: il volto di Padilla con sullo sfondo raffigurato un fungo atomico e le relative radiazioni). Ad oggi ogni accusa nei confronti del malcapitato è caduta (senza ovviamente meritarsi una copertina dell’ Economist...), e il caso Padilla è piuttosto imbarazzante per l’amministrazione Usa. Ma il vantaggio di aver sviato l’attenzione da temi ben più imbarazzanti è inestimabile, e rende il saldo totale dell’operazione assolutamente positivo per il governo degli Stati Uniti. In effetti, l’altra faccia della messa in scena è per l’appunto ciò che viene spinto fuori scena. Spesso l’importanza del posizionamento di un riflettore non dipende da ciò che illumina, ma da quello che decide di lasciare al buio. Nel suo Cultura e imperialismo, Edward Said osserva, a proposito della prima guerra del Golfo: “gli americani guardavano la guerra alla televisione, con la certezza relativamente incontestata di star osservando la realtà; quel che vedevano era, al contrario, la guerra più nascosta e meno descritta della storia”.17 Ad una verità gridata e messa in scena corrrisponde sempre una verità taciuta e rimossa.

4. La verità rimossa

“Se volessimo comprendere davvero il ruolo delle immagini nel mondo attuale dovremmo fare una lista di ciò che non ci viene mostrato” (M. Augé, “Immagini di guerra, una nuova pornografia”, intervista di G. Durante, il manifesto, 5 giugno 2004)

La rimozione della verità a volte non ha proprio nulla di metaforico. Ad esempio, la messa in scena dei Giochi Olimpici 2004 in Grecia ha richiesto l’uccisione di centinaia di cani randagi e la deportazione di gran parte degli 11.000 senzatetto che vivevano ad Atene; inoltre, nei soli primi sei mesi del 2004, la Grecia ha arrestato 13.700 immigrati e ne ha espulso oltre 6.000.18 Ovviamente, per i miliardi di telespettatori dei Giochi, questo evento sarà invece associato nel ricordo con le splendide immagini di apertura e di chiusura delle Olimpiadi. Da noi le cose non vanno meglio, come chiarisce il testo di un’ordinanza emessa il 3 settembre 2003 dal sindaco di Vicenza. In questa ordinanza si legge tra l’altro che, visto “l’imbarazzo e il disturbo recato dalle persone dedite all’accattonaggio”, e al fine di evitare “una negativa immagine sull’aspetto culturale, estetico e turistico della Città, Patrimonio dell’Unesco”, il sindaco ordina quanto segue: “1) La mendicità nel territorio comunale è consentita sui marciapiedi dei luoghi pubblici o aperti al pubblico purché sia lasciato uno spazio libero per il transito dei pedoni di almento metri 1 (uno); 2) Fra un mendicante e un altro deve esservi una distanza non inferiore a metri 200 (duecento); 3) L’esercizio della mendicità è vietato in Corso Palladio, in Piazza dei Signori e nelle altre aree pedonali; 4) La mendicità non è inoltre consentita davanti agli ingressi... dei luoghi di spettacolo o economici, intendendo con ciò anche il singolo esercizio commerciale e non deve intralciare l’accesso delle abitazioni. 5) È vietata la mendicità all’interno o nelle vicinanze dell’area di manifestazioni di carattere economico, sportivo o politico, in occasione di mercati e fiere, considerando come vicinanza una distanza di almeno metri 100 (cento). 6) È vietata la mendicità invasiva, ovvero aggravata mostrando nudità, piaghe, amputazioni o deformità riluttanti [sic!] o nella quale quale si faccia impiego di mezzi fraudolenti per destare l’altrui pietà o si assumano posizioni tali da suscitare disagio nei passanti.” Non manca l’indicazione della pena prevista per chiunque violi queste disposizioni: da 25 a 500 euro di multa. Questa ordinanza rappresenta un grave attacco alla satira: infatti quale comico sarebbe mai riuscito a dare una migliore rappresentazione dell’intrinseco fascismo della Casa delle Libertà? Essa però si presta anche a considerazioni più serie: infatti, come nel caso delle Olimpiadi, qui il tema è l’”immagine” della città. E anche in questo caso l’”imbarazzo”, il “disturbo” e il “disagio” dei cittadini sono eliminati nel modo più spiccio: rimuovendo non la causa del disagio, bensì la vista di essa. Si tratta di una modalità di “soluzione” dei problemi che ha illustri precedenti, a cominciare dal detto evangelico: “Se il tuo occhio ti dà scandalo, strappalo!” (dove però qualche malizioso ha ipotizzato un significato un po’ diverso dalla lettera del testo...). E meno illustri esempi contemporanei. Come la prima iniziativa assunta da Rumsfeld dopo lo scoppio dello scandalo delle torture in Irak: vietare ai soldati l’uso dei videofonini.19 Volendo giudicare benevolmente la faccenda si potrebbe parlare di terapia sintomatica: ma in realtà abbiamo a che fare con una “rimozione” in senso non solo fisico, ma freudiano del termine - e la rimozione, come è noto, non giova alle nevrosi. Verità rimossa sta per verità negata. In fondo, si tratta dello stesso atteggiamento che ha dato voce alle famose parole pronunciate da Golda Meir il 15 giugno 1969 (e che ha continuato ad ispirare la politica israeliana nel corso dei decenni): “i Palestinesi non esistono, non sono mai esistiti”. È pur vero che la stampa fa di tutto per seguire queste indicazioni di Golda Meir, ad esempio dedicando ai quotidiani morti palestinesi uno spazio infinitesimo rispetto a quello riservato alle vittime israeliane degli attentati suicidi. Con un risultato solo apparentemente paradossale, posto in luce dal capo redattore di Al Jazeera: “Se la Cnn, la Fox o altri non trasmettono le edizioni speciali con le notizie dei palestinesi uccisi ma lo fanno soltanto quando vengono uccisi gli israeliani, i terroristi allora uccideranno ancora un israeliano”.20 La verità talora può infine venire coperta, ed anche qui in senso tutt’altro che metaforico. È il caso del grande arazzo che riproduce il dipinto “Guernica” di Picasso e che è collocato al primo piano del quartier generale delle Nazioni Unite a New York. L’arazzo fu coperto con un drappo scuro in occasione della perorazione di Colin Powell per la guerra in Irak.21 Anche in questo caso, con risultati opposti a quello sperato: il risultato, cioè, di dare ancora maggiore risalto all’enormità di quanto stava accadendo. Il fatto di coprire il dipinto ha infatti reso il suo stesso contenuto tanto più evidente, al pari della cattiva coscienza di chi lo copriva. E ha comunicato al mondo, meglio di ogni altra cosa, il significato autentico della guerra che si preparava: come a Guernica, il bombardamento della popolazione civile e l’assassinio di migliaia di persone inermi.

Note

* Economista.

1 Primo di due articoli dedicati a questo argomento. Una versione ridotta di questo lavoro è stata pubblicata su “la Contraddizione” (n. 104, sett.-ott. 2004); la traduzione in lingua tedesca è stata pubblicata sui “Marxistische Blätter” (n. 6/2004) e sul quotidiano “Die junge Welt” (7-8/12/2004); la traduzione in lingua inglese è stata pubblicata sulla rivista “Nature, Society and Thought” (vol. 18, n. 1).

2 Una eloquente foto aerea della piazza si può vedere in S. Rampton, J. Stauber, Vendere la guerra, tr. it. Ozzano dell’Emilia, Nuovi Mondi Media, 2003, p. 11. Per una curiosa coincidenza, a differenza delle altre foto sullo stesso argomento, si tratta di un’immagine praticamente irreperibile su internet.

3 J. Le Carré, “Dieser Krieg ist längst verloren”, Frankfurter Allgemeine Zeitung, 17 ottobre 2001. Quasi testualmente identica un’osservazione di S. Zizek: “Qualunque spiegazione che chiami in causa circostanze di tipo sociale viene bandita come una velata giustificazione del terrorismo” (Benvenuti nel deserto del reale, tr.it. Roma, Meltemi, 2002, p. 39).

4 Per inciso, è interessante osservare come i “templari dell’Inizio” non ricordino mai le circostanze del primo attentato suicida in territorio israeliano: avvenne il 4 aprile 1994, cioè 40 giorni dopo l’attentato a Hebron di Baruch Goldstein, che aveva ucciso a colpi di mitra 29 musulmani in preghiera. Questa circostanza è stata ricordata da Izahar Be’er, direttore del centro per la difesa della democrazia Keshev, in un intervento pubblicato sul quotidiano israeliano Ha’aretz il 4/12/2003.

5 E. Collotti, “La storia dal nulla”, il manifesto, 14 febbraio 2004.

6 P. Mieli, “Una dose di oblìo: meglio il Cile dell’Argentina”, Corriere della Sera, 8 settembre 2003.

7 Intervista di N. Biondo a Marco Antonio Pinochet: “Il figlio di Pinochet : ‘Le scuse sono inutili’”, la Stampa, 11 settembre 2003.

8 “Remembering Allende”, International Herald Tribune, 11 settembre 2003.

9 S. Zizek, Benvenuti nel deserto del reale, cit., p. 26.

10 A. Pecoraro, “Le mani su Portella”, il manifesto, 12 ottobre 2003.

11 Lo ha fatto R. Chiaberge, certamente non etichettabile come un bolscevico, su il Sole 24 Ore del 19/10/2003.

12 Così G. De Luna, cit. in S. Fiori, “Se i vincitori riscrivono la storia”, la Repubblica, 25/10/2003. Di G. De Luna si veda anche l’eccellente messa a punto sulla paccottiglia del revisionismo storico: “Senza documenti non si fa la storia”, la Stampa, inserto Tuttolibri, 27 settembre 2003.

13 Cit. in S. Rampton, J. Stauber, Vendere la guerra, cit., p. 144.

14 S. Zizek, Benvenuti nel deserto del reale, cit., p. 19.

15 J. Derrida, Stati canaglia, tr. it. Milano, Cortina, 2003, p. 219.

16 Cit. in S. Rampton, J. Stauber, Vendere la guerra, da cui ho tratto anche le altre informazioni sul discorso di Bush: cfr. pp. 153-4. Si notino, nel testo di Shales, le parole che ho evidenziato in corsivo: si riferiscono tutte all’ambito spettacolare dell’evento. Ulteriori informazioni interessanti si trovano in F. Rich, “Political hypocrisy, American style”, International Herald Tribune, 13-14 settembre 2003.

17 E. Said, Cultura e imperialismo, tr. it. Roma, Gamberetti, p. 332.

18 E. Giordana, “In Grecia terrore tra i senza tetto”, il manifesto, 13 agosto 2004.

19 E. Franceschini, “Rumsfeld vieta i ‘videofonini’”, la Repubblica, 24 maggio 2004.

20 Hafez al Mirazi, relazione ad una conferenza presso lo US National Press Club, 12 febbraio 2003, cit. in Rampton, Stauber, p. 108.

21 Sull’argomento si veda l’eccellente articolo di W. Spies, “Was wir lieben, wird sterben”, Frankfurter Allgemeine Zeitung, 25 febbraio 2003.