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Questioni operaie

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sanno i lavoratori che con i bassi salari non si frena la deindustrializzazione? (I parte)

Luca Nuzzi

Vincenzo Pecorella

La questione operaia esiste ancora. Nascosta agli occhi dei più, la condizione media dei lavoratori delle fabbriche è quella di un fiume sotterraneo di miseria economica non tanto relativa, di scontento, di malessere. Una molteplicità di valvole di sfogo finora ha funzionato, ad evitare che il malessere si accumulasse pericolosamente per l’ordinamento sociale. Il sindacato innanzitutto: esso è da tempo valvola di sfogo per tanti operai, che vi vedono solo il mezzo per rimediare un contentino, un permesso al mese, qualcosa. Poi gli ammortizzatori sociali, naturalmente, esplicitamente definiti nella loro funzione di evitare i mali “traumatici”, non di evitare i mali. E infine, specialmente al sud, continua a funzionare una rete di rapporti familiari allargati di mutuo soccorso e di opportunità ancora diffuse di lavori secondari e sfuggenti alle maglie del fisco. Nonostante ciò il fiume sotterraneo della miseria, sia pure relativa, dei lavoratori, borbotta sempre più. Sono rumori ancora indistinti, tra i quali si fatica a separare le voci dai mugugni, le richieste argomentate dalle confuse difese d’ufficio di quelli che, pur riconoscendone la corruzione, hanno ancora in tasca la tessera del sindacato. E certi assordanti silenzi... Questo articolo, scritto a quattro mani da due operai di due fabbriche metalmeccaniche di Bari, entrambe appartenenti a multinazionale e di grandi dimensioni, vuole contribuire a riproporre la questione operaia fuori della fabbrica perché poi certi concetti ritornino, più chiari, all’interno. E poiché si tratta, secondo noi, di rimontare un discorso, vogliamo partire non da una questione ma da una delle questioni, una delle domande che gli operai oggi cominciano a riproporsi, sia pure confusamente. A certe domande sappiamo come risponde il sindacato, ripetutamente, da anni. È ora che comincino a suonare campane diverse, dentro e fuori la fabbrica.

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1. Come vedono le dinamiche di fabbrica i giovani operai? Le dinamiche di fabbrica per i giovani operai sono un pianeta oscuro. Pochi tra quelli che ci lavorano capiscono come si muove un gigante come la Bosch, sia per ciò che riguarda la sua condotta mondiale, sia per ciò che riguarda gli accadimenti interni allo stabilimento barese. Siamo tenuti all’oscuro di ciò che produciamo; non riceviamo sufficiente formazione sul prodotto; la mancanza di qualunque informazione sul frutto del lavoro di fabbrica impedisce una stima del macroscopico guadagno che il prodotto finito ed immesso sul mercato è in grado di far intascare ad azionisti e padroni. Mantenerci distanti dal prodotto delle nostre mansioni quotidiane, delle nostre fatiche quotidiane, dei nostri ritmi produttivi quotidiani (quotidiani ma mai fissi, anzi sempre in crescita), porta inevitabilmente ad accostarsi con distrazione agli interrogativi che la vita di fabbrica ci dovrebbe porre. Talvolta addirittura non ci si pone alcuna domanda, non ci si chiede, non ci si confronta affatto: subentra quasi una sorta di fatalismo, per cui ci si sente lì per caso (anzi, per miracolo e per gentilissima concessione della famiglia Bosch) e si procede per inerzia sino alla pensione; fatta eccezione per intoppi lungo il cammino (riduzioni di personale, accordi peggiorativi...) che paiono risvegliarci bruscamente e ricordarci lo spietato contesto economico di cui facciamo parte. Ma in quei momenti si rischia di non arrivare sufficientemente preparati e capaci di contrapporre una logica di conflitto e una teoria che riesca a scostarsi dal solito vecchio capitalismo, che sia quello dell’era del boom così come il capitalismo dell’era della globalizzazione: comunque l’operaio rischia di arrivare spiazzato e disarmato sul piano ideologico. Pochissimi intendono come si sta orientando l’economia frenetica degli ultimi anni. Sostanzialmente pochi operai riescono ad inquadrare la propria natura fondamentale: quella di esser parte dell’enorme esercito di forza-lavoro disponibile sul mercato. La difficoltà di inquadrarsi e - passo immediatamente successivo - contestualizzare il proprio ruolo e i propri compiti nel panorama mondiale, è un compito attuale e molto impegnativo. È un compito attuale perché l’industria pesante in Italia sta vivendo un momento di profonda disillusione dovuta alla fine del cosiddetto boom economico. È un compito impegnativo perché la scarsa consapevolezza con cui viene concepita la vita in fabbrica è un fenomeno partorito e reiterato in continuazione, con l’impegno di tutti indistintamente: dai leader dei sindacati confederali così come dai politici di qualunque schieramento. Vengono seminate ideologie come quelle delle “comunità aziendali” in cui dovrebbero conciliarsi, in nome della “produttività”, gli interessi delle classi opposte. Tali ideologie, tipiche di alcune riviste distribuite in fabbrica ai dipendenti, tendono a porre l’azienda al centro dello sviluppo sociale e a creare fra tutti i dipendenti e anche in una cerchia più larga, una “concezione aziendale” che dovrebbe sostituire la coscienza di classe e la coscienza politica. Le “relazioni umane” tra sfruttatori e sfruttati nella fabbrica, l’illusoria partecipazione ai vantaggi della “comunità aziendale”, vengono offerte alla classe operaia in cambio della rinuncia alle sue aspirazioni di classe. È merito del lavoro intelligente e subdolo della classe padronale e della degenerata classe sindacale se in gran parte della classe operaia nascono forti perplessità; perplessità nei confronti di un percorso personale di presa di coscienza; perplessità di chi ritiene impossibile un’alternativa alle logiche di deindustrializzazione, delocalizzazione, competitività, flessibilità, concertazione, profitto. A questo si aggiunga che, almeno nella Bosch di Bari, l’età media continua ad abbassarsi e ci si allontana sempre più da quell’esperienza di lotta e conflitto che ha caratterizzato gli anni passati. In parole povere: la conflittualità in fabbrica è andata scemando (anni ’80) praticamente quando gran parte di noi doveva ancora nascere. E quindi è anche comprensibile come molti di noi, non avendo visto e vissuto, non concepiscono come sia possibile rivendicare qualcosa, pretenderlo, riprenderselo dalle mani di chi possiede i mezzi di produzione, di chi ora come ora ci tiene per la collottola. Il lavoratore barese assunto in Bosch si sente un miracolato: il giovane operaio si ritrova in una cornice sociale come quella del Meridione, per cui percepisce (ma non interpreta) il processo di deindustrializzazione e delocalizzazione spietata del settore metalmeccanico ma anche di settori che erano cavalli di battaglia per il nostro Sud (calzature, salottifici...); percepisce (ma non interpreta) il continuo orientamento verso la precarietà del mondo del lavoro, e dunque un’occupazione targata Bosch appare come un ombrello sotto un diluvio. Dunque, riepilogando: la situazione attuale dell’industria italiana richiede una corretta interpretazione. Nell’accingersi a portare avanti questa presa di coscienza occorre però rilevare e superare ostacoli quali: la scarsa consapevolezza assecondata dall’oscuramento padronale sui processi di produzione e sui prodotti, e dai sindacati troppo spesso omertosi o quantomeno eccessivamente “laconici”; drastico abbassamento dell’età media in una fabbrica come la Bosch: dunque tende a disperdersi la memoria storica della lotta di fabbrica; ultima ma non meno importante la situazione meridionale, che contribuisce a generare una logica di corsa al ribasso e di accettazione di condizioni sconvenienti determinate da chi investe in queste (convenienti) zone d’Italia. Solo qualche voce, come quella del sindacalismo di base, ha il coraggio e la sensibilità necessarie a formulare adeguati interrogativi, a cercare risposte e proposte, a recuperare e rinnovare forme di lotta e di contrasto alla forza padronale cooperante coi sindacati concertativi. In poche parole, poche voci sanno cogliere l’ipocrisia di fondo nell’epoca della società postpacificata.

2. Come vedono il mondo del lavoro i giovani studenti? Paradossalmente si potrebbe dire che lo sviluppo delle comunicazioni, la evoluzione dei mezzi di trasmissione di messaggi e informazioni, la loro diffusione, hanno col tempo aumentato l’ignoranza media di molte persone. Senza dare con questo un giudizio complessivamente negativo sulla modernità, si può dire che sono relativamente poche le persone che usano le nuove tecnologie di comunicazione per aumentare realmente la propria capacità di osservazione e di analisi del mondo circostante, disponendo così di maggiori opportunità di benessere. Se nei secoli passati la scarsità di conoscenza e di comunicazione in cui erano costrette le masse lasciavano spazio sì alla mitologia e alle credenze, ma anche capacità di discernimento tra concetti affrontati con tutto il tempo, talvolta troppo, che separava una informazione dall’altra; se allora insomma sulla tavola della nostra mente c’era spazio abbastanza sia per le ombre che per concetti ordinati, oggi invece una pioggia ininterrotta di informazioni cade sulla tabula tutt’altro che rasa delle nostre menti, dove ormai non si distingue più tra miti, credenze e ragione. In altre parole, un tempo i sogni lasciavano spazio mentale dove costruire concetti liberamente e con l’uso della ragione, magari partendo dalla diretta osservazioni dei fatti, per pochi e vicini che fossero; oggi invece prima di poter liberamente ragionare di un fatto bisogna eliminare o sospendere tutte le immagini artificiali e preconfezionate che di quel fatto ci hanno fornito televisioni e giornali, che non mancano praticamente mai. Così, i giovani d’oggi che devono ancora entrare nel mondo del lavoro ne hanno una concezione più distorta di quella dei giovani di ieri, creandosi il paradosso di un mondo in cui lo sviluppo dei mezzi di comunicazione ne ha diminuito la media potenzialità di comprensione. Accade tutto questo, se accade, per caso? Si tratta di forme nuove per antichi fenomeni: la divisione dei sottoposti è condizione necessaria per il mantenimento di qualsiasi forma di potere; al tempo dei greci e dei romani i potenti, semplicemente, erano i soli a disporre di informazioni e la gran parte del popolo non sapeva quasi niente che non la riguardasse molto da vicino. Ancora oggi è una condizione necessaria tenere separati gli studenti delle scuole e delle università pubbliche dagli operai, la cui condivisione di materiali condizioni di vita disagiata è solo questione di tempo. È una condizione necessaria per il tranquillo mantenimento del potere da parte di chi attualmente lo detiene. Dunque, non potendo perdurare l’antico silenzio, è talmente abbondante e per niente casuale la quantità di false immagini che i giovani ricevono dalla televisione (principalmente, ma non solo) sul mondo del lavoro, che essi mai ne immaginerebbero, prima di entrarvi, la reale crudezza. Una crudezza che non riguarda altri, ma loro, noi. E così i giovani studenti, sognando di avere un futuro ricco di opportunità, si sentono lontani e distaccati dalle manifestazioni di disagio del mondo del lavoro, come autorizzati a disinteressarsi di ciò che significa, per esempio in Italia, il sindacalismo di base. Senza sapere che la maggior parte di loro, un domani più vicino di quanto immaginano, sarà di fronte agli stessi problemi degli operai della fabbrica, oggi. Essi non sanno che, in questo sistema, la maggior parte delle buone opportunità sono già prenotate, occupate. E che si comporterebbero in maniera più razionale se, invece di credere a certi spot televisivi, unissero le proprie capacità critiche a quelle di tutti gli oppressi da un sistema in cui, tra le altre cose, il meritevole trova troppe volte il posto occupato dal figlio o dal parente del capo. Imbevuti dall’alto di droghe concettuali, tantissimi giovani studenti immaginano il risultato di una rivoluzione sociale come un azzeramento delle opportunità ed un appiattimento delle condizioni individuali, rendendosi conto tardi che invece è questo sistema, nel quale le buone opportunità sono tramandate di padre in figlio sempre tra buoni borghesi, a rendere prossime allo zero le probabilità di miglioramento di chi non appartiene per nascita al ceto dominante.

3. Un’azienda in salute: ciò che accade alla Bosch di Bari

La Bosch è una grande famiglia. La Bosch si impegna costantemente per avere con sé collaboratori motivati. La Bosch coi suoi prodotti e il suo sviluppo tecnologico cerca sempre di far ottenere al mondo un maggiore livello di benessere e una migliore qualità della vita. Così recita spesso una rivista interna stampata e distribuita agli operai in fabbrica. La realtà però nello stabilimento di Modugno (Bari) è un’altra cosa: la realtà è fatta di sovrautilizzo e sovrasfruttamento del lavoro interinale, di straordinari obbligatori, di produzioni che crescono esponenzialmente, di gerarchie non meritocratiche, di incapacità gestionali, di bisogni fisiologici compressi forzatamente in “due pause da 10 minuti”, di ritmi forsennati alla catena di montaggio, di pelle che viene via a brandelli e di vaporizzazione di olii. Cara vecchia fabbrica... Che la Bosch sia un’azienda “leader del settore”, che sia un’azienda “ad ambiente familiare”, che sia un’azienda “in salute” certe volte proprio non si riesce a notare, nemmeno mettendosi d’impegno: un’azienda in salute non dovrebbe ricorrere ad un utilizzo tanto massiccio della manodopera interinale. Da noi si stimano, al giorno d’oggi, circa 500 interinali (a fronte di circa 2.000 dipendenti “ a tempo indeterminato”), se non di più. Bene: un ricambio tanto massiccio e frequente spesso non è positivo, anzi in più di un caso si dimostra dannoso. Perché? Semplicissimo. Il lavoratore interinale consapevole di essere semplicemente una pedina di passaggio in Bosch trarrà adeguate conclusioni: cesserà di essere un “collaboratore motivato” e lavorerà quantomeno distrattamente; lavorerà senza cura e senza affezione nei confronti di un’azienda che mostra estremo disinteresse nei confronti delle capacità, delle aspettative e della dignità del singolo. I gestori della forza-lavoro precaria in Bosch forse si illudono che all’imposizione di montare un minuto prima e smontare un minuto dopo non dovrà corrispondere - presto o tardi - un moto di distacco, di disaffezione, di ribellione da parte di chi ha preso coscienza della propria condizione di eterna precarietà. E così è facile immaginare come colui che veniva sovrasfruttato fino a ieri diventerà l’arma a doppio taglio di domani... fino a quando si potrà raccontare nello stabilimento la vaga favoletta che “ci saranno assunzioni”? Fino a quando si propineranno illusioni (ricatti) ai giovani e spaventati operai? Prima o poi l’operaio interinale si farà capace di essere fuori dal giro. E in quel momento come si agirà in Bosch? Può anche darsi che allora il discorso del lavoro interinale potrebbe diventare un capitolo chiuso. Ma ci si potrà aspettare che i lavoratori assunti a tempo indeterminato rispetteranno domani i ritmi di lavoro che rispettavano ieri da interinali? No di certo. E allora la Bosch apparentemente è la prima a non sapersi dare basi solide e a non sapersi dotare di un futuro certo e stabile, basandolo oggi sul lavoro precario (che spesso letteralmente trascina l’azienda). D’altra parte si può obiettare che i lavoratori precari sempre saranno contenti di affluire numerosi e motivati ai cancelli, sabato e domenica inclusi. Perché qui si è nel Meridione e un lavoretto così è meglio di niente... perché ormai tutti sono precari e tocca anche a me sopportare una situazione del genere... perché la Bosch è pur sempre la Bosch e non si sa mai, magari si potrebbe essere ancora assunti... Tanti sono i discorsi possibili, certo è però che la Bosch si fonda sempre più su qualcosa di tanto precario come il lavoro precario. Tutto ciò per ribadire un concetto: apparentemente la Bosch non sa dotarsi di un futuro, ma la nostra paura è che le idee le abbia chiare eccome. Si avverte sempre più forte la sensazione di essere dei limoni spremuti finchè c’è succo. D’altronde un occhio lo si ha a Modugno e l’altro occhio è sempre più pericolosamente puntato ad Est (Polonia, Ungheria, Repubblica ceca...). Certo è anche vero che la Bosch a Modugno ha subito un vero e proprio boom dal 1998 ad oggi, un decollo probabilmente inatteso anche dagli stessi investitori; probabilmente ciò ci permetterà di stare un po’ più tranquilli di altri lavoratori. E allora perché vengono fuori accordi fortemente al ribasso per i neo-assunti? Perché girano voci di accordi fortemente peggiorativi per noi lavoratori fissi? Perché vengono prese decisioni al ribasso e vengono chiesti sacrifici se l’azienda in realtà esplode di salute e vive sulla scia del successo di proporzioni mondiali del common-rail? Perché quest’aria da azienda in crisi quando nel 2004 si è avuta una redditività elevatissima? Perché queste contraddizioni? È impensabile circondarsi di collaboratori motivati se gli si somministra una realtà quotidiana fatta di dirigenti e di piccoli capi incapaci del proprio ruolo e sanno solo abusarne in maniera arrogante. Ce ne sono tanti di individui che badano a farsi obbedire piuttosto che a bloccare un problema alla sorgente impedendo che, più avanti nel processo, si vadano a generare disastri (quali per esempio far montare una pompa di scarto sulle auto di un cliente). In Bosch la parola d’ordine è “produrre”, ma non “produrre bene”. Qualità e quantità spesso non vanno di pari passo. Devono essere gli operai a spiegarlo ai dirigenti?

4. Un’azienda in crisi, la SKF di Bari È necessario innanzitutto specificare, onde evitare equivoci e incomprensioni: la SKF, come gruppo, ha appena dichiarato di aver fatto risultati straordinariamente positivi nell’anno 2004, e di accingersi quindi a distribuire dividendi altrettanto straordinari agli azionisti nel corso del 2005. La SKF come gruppo, quindi, non è assolutamente in crisi, anzi. È lo stabilimento di Bari, insieme a quello di Cassino, in Italia (due stabilimenti su sei), ad essere in crisi. Ma che genere di crisi? Parliamo di Bari: qui si costruiscono cuscinetti a sfere, i primi ad essere inventati e costruiti tra i meccanismi per la riduzione dell’attrito degli organi meccanici in rotazione. E sono quelli anche relativamente più facili da costruire: un prodotto a (relativamente) basso valore aggiunto, dunque. Conseguentemente i cuscinetti a sfere sono quelli che per primi e di più soffrono la concorrenza dei paesi in via di industrializzazione, i primi ad essere stati costruiti anche lì. Non solo di concorrenza “esterna” si parla: negli ultimi tre anni il gruppo svedese SKF ha aperto stabilimenti per la produzione di cuscinetti a sfere della stessa classe dimensionale di Bari in Bulgaria e in Cina. Contemporaneamente si sono definitivamente interrotti gli investimenti per il nostro stabilimento: se nel capannone barese troneggiano ancora, funzionanti, una ventina di grandi torni americani Gridley, risalenti agli anni ’50; e se l’età media degli altri macchinari si misura pure in decine di anni, almeno fino a un paio di anni fa si sostituivano i lavoratori pensionati, mantenendo stabile il livello occupazionale. Da allora invece sono state bloccate le assunzioni, con il risultato che i dipendenti baresi, che una volta superavano abbondantemente le cinquecento unità, oggi si avviano ad essere circa quattrocento. Sembra chiaro che la strategia aziendale è quella di ridurre solo l’incidenza del costo del lavoro e non i volumi produttivi, visto che sono aumentati i carichi di lavoro (sono praticamente sparite tutte le figure non direttamente impegnate nella produzione) e considerato che nessuno finora parla di crisi di mercato. L’obiettivo potrebbe essere quello di portare lo stabilimento di Bari ad un livello di costi comparabile con gli stabilimenti bulgari e cinese, in modo da poter un giorno comparare e pianificare. Almeno due considerazioni sono inevitabili: primo, abbiamo scoperto a Bari, sulla nostra pelle, il cinismo del capitale che non conosce confini e vola dove più basso è il costo del lavoro. Quella del sindacato di base, all’interno della SKF di Bari, è stata una voce isolata ma ferma: l’azienda ha sfruttato i lavoratori italiani e con il frutto del loro lavoro ha posto le basi per lo sfruttamento dei lavoratori di altre nazioni. Seconda considerazione, meno generale: cercare di produrre in Italia a costi “cinesi” ha significato pianificare una tale riduzione dei costi per cui, nel nostro stabilimento, i numeri della produzione hanno preso il sopravvento sopra ogni altra considerazione, a partire dalla qualità del prodotto. Per esempio un intero reparto, quello appunto dell’”assicurazione qualità”, è stato svuotato, considerato (in parte a ragione, visto che era ed è un porto franco per tanti galoppini sindacali) inutile e improduttivo. Per non parlare del fatto che i lavoratori, mal pagati e tartassati, trovano le scorciatoie (a scapito sempre della qualità) per contentare capi e capetti, dando loro ciò che pretendono: produzione. Con quali risultati? Vorremmo sbagliarci ma quando, un giorno, gli alti dirigenti della SKF dovranno decidere se investire in Italia o più a oriente, dovranno considerare un ulteriore elemento: a Bari, si dirà, si fanno i volumi ma non la qualità. A quel punto la crisi, per cui non c’erano presupposti, ce la saremo definitivamente creata. Da soli.

5. Conclusione

Nelle prime due parti dell’articolo abbiamo parlato di come percepiscono la propria condizione i giovani, dentro e fuori il mondo del lavoro. Poi, nelle parti terza e quarta, abbiamo cercato di passare dalla percezione giovanile dei fenomeni ad un livello di maggiore oggettività, raccontando “dall’interno” due realtà aziendali le quali, pur essendo l’una in relativa crisi e l’altra invece decisamente in salute, ricorrono entrambe in maniera miope e spietata alla riduzione del costo del lavoro. Il risultato è la “scoperta” che l’attuale sistema della produzione non è semplicemente sconosciuto ai giovani e ai lavoratori ma è loro nemico, sia pure mascherato e nascosto. E che la tendenza ai bassi salari è una costante, che non incide e non frena nessuna deindustrializzazione.

Note

* Esperti di problemi delle trasformazioni del mondo del lavoro.