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EUROBANG: IL CAPITALISMO ITALIANO

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Alessandra Ciattini
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Docente Fac. Lettere, Università “La Sapienza”, Roma

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Università in fermento: rispondere con la lotta alle politiche neoliberiste

Alessandra Ciattini

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1. Docenti, studenti e lavoratori delle università contrastano l’attuale politica universitaria

Anche coloro, che hanno vissuto il ’68 e che in questi anni di autodissoluzione della cultura di sinistra hanno cercato di resistere rimanendo legati a ideali e progetti utopici o arcaici per i più, hanno manifestato il loro stupore per il ritorno della voglia di lottare e di contrastare le politiche governative nelle università italiane. Ma bisogna essere cauti e valutare a fondo la forza e il significato di queste manifestazioni di disagio, di malessere, di insofferenza.

In primo luogo, mi pare si possa sicuramente dire che tale fenomeno (circa 50 università pubbliche su 52 sono mobilitate e in agitazione sino ad oggi) fa parte di quell’insieme di manifestazioni sicuramente contraddittorie, che negli ultimi anni sono state portate avanti da vari settori ed ambiti sociali contro l’attuale modello neocapitalistico o neoliberistico di società.

Mi pare che la contraddittorietà di fondo di tali lotte, pur sempre auspicabili, sta nel loro carattere spesso solamente critico e distruttivo, e nel loro timore di esprimere un progetto, che vuoi o non vuoi non può che partire dal superamento del sistema economico capitalistico, seguendo una certa linea tracciata dall’esperienza storica, sia pure con i necessari ripensamenti e riaggiustamenti.

Proprio questa contraddizione di fondo e la totale mancanza di una forza politica, capace di analisi lucide ed incisive, che possa sostenere tali movimenti di protesta, ne fa dei soggetti politici assai deboli e ricattabili.

Detto questo, a mio parere nulla ci autorizza a restare a guardare dal fuori gli eventi che stanno ridisegnando le nostre istituzioni, all’interno di uno scenario internazionale profondamente mutato dopo la scomparsa dell’Unione sovietica. Quindi, dobbiamo partecipare alla battaglia più nella speranza di poter tutti imparare qualcosa lottando e di poter forse erodere qualche brandello dell’attuale sistema di potere, che nella speranza di vincere.

2. Ora tocca all’Università

La cura neoliberista e privatizzante, che ha precarizzato gran parte del mondo del lavoro, riducendone il costo e garantendo lucrosi profitti a pochi, si sta estendendo ora anche al mondo universitario, che per anni aveva costituito una sorta di mondo a sé, sottratto alla mercificazione ma non allo scambio politico-clientelare. La risposta è stata lenta, ma alla fine c’è stata, anche se non sappiamo quanto potrà durare.

Il fermento e la mobilitazione del mondo universitario si stanno manifestando in varie forme. In primo luogo, i ricercatori, che sono gravemente colpiti dal disegno di legge delega Moratti (in realtà ispirato e scritto da un gruppo di “esperti” guidati da Adriano De Maio), hanno deciso di non accettare quest’anno gli incarichi didattici. Ossia, si sono dichiarati indisponibili a tenere corsi (affidamenti di insegnamenti e supplenze), limitandosi a svolgere quella limitata attività didattica prevista per loro dalla legge 382/80.

In questo modo hanno sicuramente messo in crisi gran parte dei corsi di laurea, perché ormai da molti anni i ricercatori, grado più basso della carriera universitaria, svolgono pienamente la funzione docente, anche se non è riconosciuta dal loro stato giuridico, ossia tengono corsi, sono relatori di tesi di laurea e presidenti di commissioni d’esame [1].

Bisogna aggiungere che non in tutte le università in agitazione i ricercatori hanno adottato questo comportamento. In alcuni casi, si sono limitati a ritardare l’inizio dei corsi loro affidatati, a rimandare gli esami e la discussione delle tesi di laurea.

Essi hanno portato avanti tali forme di lotta perché il DDL Moratti cancella il loro ruolo e introduce figure precarie, le quali dovrebbero svolgere gli stessi compiti dei ricercatori e che, se tutto va bene, potrebbero raggiungere un lavoro stabilile a circa 45 anni di età. Il DDL Moratti non si limita ad introdurre il precariato per coloro che accedono al primo gradino della carriera universitaria, precarizza anche i livelli più alti di essa. Infatti, chi farà un concorso per diventare professore associato o ordinario, non vincerà un posto stabile, ma un contratto rinnovabile per una sola volta. È lasciata alla facoltà di appartenza la decisione di trasformare il contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato oppure di ritenere conclusa la collaborazione, senza nemmeno esser obbligata a render nota la sua decisione al contrattista.

Sempre nella prospettiva della precarizzazione e della flessibilità, il DDL Moratti prevede che il 50% dei docenti universitari siano impiegati con un contratto di diritto privato; il che ovviamente comporta lo scadimento, già innescato dall’introduzione del cosiddetto 3+2, dell’attività didattica e la sua dubbia correlazione con l’attività di ricerca, che nel disegno non viene nemmeno menzionata.

Bisogna aggiungere che di fatto già in larga parte sono impiegati precari nell’università per svolgere attività didattica e di ricerca. Molto probabilmente il loro numero è di circa 55.000 unità, quasi simile a quello del personale docente strutturato che attualmente conta circa 57.370 unità, come risulta dalla relazione della Conferenza dei Rettori delle Università italiane (Relazione sullo Stato delle Università italiane. Dati sul Sistema universitario. Quadro Normativo, 2004: 21). Questo dato è estremamente significativo (nonostante che il precariato sia strutturale nell’università, non si era mai arrivati a tanto), perché dimostra che il definanziamento e il blocco delle assunzioni hanno creato una situazione che il DDL Moratti se approvato si limiterà solo a ratificare giuridicamente.

Altri aspetti importanti del DDL Moratti, stigmatizzati da numerosi organi collegiali degli atenei italiani sono le cosiddette “cattedre aziendali”, mediante le quali viene attribuita la posizione di professore ordinario (grado più alto della carriera universitaria) a persone genericamente “in possesso di elevata qualificazione scientifica e professionale”, le quali si debbono impegnare a svolgere attività di ricerca oggetto di specifiche convenzioni tra l’Università ed altri soggetti pubblici e privati.

In primo luogo, resta del tutto oscuro come sia possibile accertare l’elevata qualificazione scientifica e professionale al di fuori di un concorso (nel quale non abbiamo molta fiducia perché ne conosciamo la natura) [2], a meno che non si tratti - come è già stato detto di una forma più aperta di reclutamento clientelare e mafioso, in cui naturalmente valgono meriti diversi da quelli scientifici. Inoltre, tali professori, una volta inseriti nella vita universitaria, non potranno godere di un diritto primario, stabilito dalla nostra Costituzione (art. 33): la libertà di ricerca. Infatti, dovranno portare avanti i progetti di ricerca imposti dalla fondazione o impresa, la quale si avvarrà gratuitamente delle strutture, dei laboratori e del personale universitario.

Tale vincolo col mondo produttivo non significa - come ipocritamente si dice - lo svecchiamento del chiuso mondo accademico e la sua apertura verso la società e il mondo del lavoro, quanto piuttosto la subordinazione dell’Università alle esigenze delle imprese, che certamente non coincidono con il benessere dei cittadini. Infatti, da tempo qualcuno ha già fatto la critica al celebre principio del liberalismo classico, oggi riproposto, secondo cui dalla ricerca del benessere individuale scaturirebbe il bene comune. Abbiamo imparato ed impariamo ogni giorno sulla nostra pelle che il vantaggio della Coca Cola o della Microsoft, le quali mirano ad accumulare la maggior quantità possibile di profitti, non coincide pressoché mai con il vantaggio ed il benessere dei lavoratori e sicuramente non innesca processi di cambiamento sociale migliorativi del tenore di vita dei più.

3. L’università imprenditoriale

Per legare gli atenei alle imprese si sta cercando di introdurre in Italia una nuova forma di università, estranea alla nostra tradizione, per la quale l’educazione universitaria è un diritto e un servizio dello Stato fornito al cittadino per consentirgli la partecipazione cosciente e critica alla vita democratica del paese. Si tratta della cosiddetta “università imprenditoriale”, fiorita nei paesi anglosassoni, la quale di fatto implica una struttura organizzata per produrre innovazione scientifica immediatamente traducibile in innovazione tecnologica, che consenta di produrre merci con maggiore contenuto di conoscenza e di tecnologia, le quali diventino “prototipi di innovazione” e per questo capaci di garantire maggiori profitti. Si tratta di un processo tramite cui il contenuto intellettuale del lavoro diventa lo strumento della valorizzazione del capitale.

Questo spiega il grande interesse con il quale Il Sole 24 ore, organo della Confindustria, abbia seguito in questi anni la politica universitaria, mirando a sollecitare la domanda di innovazione nel sistema produttivo e, nello stesso tempo, a trasformare l’università pubblica perché sia ristrutturata per rispondere adeguatamente a tale domanda. L’interesse del giornale della Confindustria mostra che essa è preoccupata per il fatto che il sistema produttivo italiano, frammentato in piccole e medie imprese, operanti in settori merceologici tradizionali a basso contenuto di conoscenza e di tecnologia, non sembra interessato all’innovazione ed alla ricerca, dalla quale scaturisce la prima. Naturalmente tale disinteresse ha conseguenze negative sul piano della competitività del sistema produttivo italiano. Per questa ragione e per il fatto che in Italia la ricerca è sostanzialmente pubblica la Confindustria e il governo in carica intendono far sì che università e enti di ricerca pubblici operino per fornire innovazione, che incrementi la produttività, e che siano finanziati solo se svolgono adeguatamente questo compito.

Naturalmente in questa prospettiva poco interessa la ricerca di carattere umanistico, se non direttamente legata allo sviluppo dei settori, nei quali investire, come dimostra l’istituzione in varie facoltà letterarie di corsi di laurea in “Scienze del turismo” o comunque legati alla tutela ed alla utilizzazione anche economica del nostro patrimonio monumentale e culturale.

In una situazione di gravissima crisi finanziaria degli atenei, dovuta alla politica economica dei governi che si sono succeduti, che non ha incrementato i fondi per l’università e ha bloccato le assunzioni nel pubblico impiego [3], l’attuale governo sta portanto avanti un preciso progetto di smantellamento dell’università pubblica, per subordinarla alle esigenze del sistema produttivo e per dirottare le risorse disponibili verso i cosiddetti centri di eccellenza. Questi ultimi stanno sorgendo al di fuori di una normativa precisa e sembrano esser unicamente favoriti da una politica clientelare e personalistica, di cui beneficiano intellettuali strettamente legati alle forze politiche dominanti [4].

Cardini del processo di smantellamento sono l’introduzione delle cosiddette lauree professionalizzanti, che dovrebbero preparare al mondo del lavoro, la già menzionata subordinazione al sistema produttivo, che si realizza anche attraverso la precarizzazione dei docenti privati dei loro diritti fondamentali, la riduzione degli investimenti per l’università, i cui costi sono scaricati sugli studenti e sulle famiglie, e il loro dirottamento a favore di ricerche e di strutture utili al sistema produttivo.

Tale politica di smantellamento ha le sue basi in una serie di provvedimenti presi in passato ed è ispirata alla politica adottata della Banca Mondiale a partire dagli anni novanta; politica pienamente recepita dalla Unione Europea e quindi anche dai nostri governanti (cfr. Ciattini 2004). Come si è già detto, un aspetto di tale politica è la riduzione del costo dell’educazione universitaria, che si ottiene abbassando gli stipendi dei docenti e degli altri lavoratori universitari, quindi precarizzandoli, diminuendo i costi per i servizi e aumentando le tasse per gli studenti [5].

Tale strategia fa parte integrante della ristrutturazione del cosiddetto Stato sociale, le cui funzioni e prerogative sono state fortemente ridotte in questi anni. Naturalmente la ristrutturazione dello Stato sociale è stata accompagnata dalla privatizzazione e dalla esternalizzazione dei servizi che esso forniva, le quali hanno consentito di immettere sul mercato quanto prima ne stava fuori, nel caso dell’università l’alta educazione e formazione.

In breve, possiamo dire che i vantaggi per gli investitori e gli imprenditori sono vari: usufruire dei servizi e del contributo della ricerca pubblica ormai asservita alle loro esigenze, acquisire ulteriori spazi per i loro investimenti (l’educazione e la formazione a tutti i livelli e in tutte le forme, come per esempio l’insegnamento telematico), aver a disposizione lavoratori preparati alle mansioni che riserverà loro il sistema produttivo.

Per ottenere tali risultati, da un lato, si è cercato di combattere l’idea stessa della socializzazione delle conoscenze, inerente all’istituzione universitaria, rilanciando la politica dei brevetti, intesi come documenti che fissano un contenuto scientifico-tecnologico e una proprietà intellettuale, garantendo al ricercatore un guadagno. Dall’altro, con la Legge Finanziaria del 2001 (Governo D’Alema) si è stabilito che le università possano costituire Fondazioni di diritto privato, a cui vengono attributi una serie di compiti (in particolare con il regolamento attuativo dell’art. 59), che coincidono con quelli svolti dalle università come l’acquisto di beni e servizi, il funzionamento degli uffici tecnici, dei centri di calcolo, l’erogazione dei servizi al diritto di studio.

Per evitare di ripetere quanto ho già scritto e che il lettore, se vuole, può reperire e leggere (Ciattini, 2004), mi limito a ricordare che nel mondo si spendono per l’educazione 2.000 miliardi di dollari, ossia più del doppio di quanto si spende nel mercato dell’automobile. Una cifra che fa gola agli investitori in cerca di investimenti redditizi.

Certo, privatizzare rapidamente i servizi educativi è impensabile, ma molto si sta già facendo. Come scrive la rivista Alternatives Sud (Editorial, 2003: 19; trad. mia): “Sotto l’azione congiunta del definanziamento da parte dello Stato, della crescente domanda di formazione lungo tutta la vita e della deregolamentazione finanziaria amministrativa delle istituzioni educative, aspetti interi dell’educazione e dei servizi connessi cadono gradualmente nella rete della Education Business. Ancora una volta, è l’insegnamento superiore che costituisce, con la formazione continua, il bersaglio principale”.

Come ricorda ancora Alternative Sud (Editorial, 2003: 20) nel maggio 2002 è stato organizzato a Washington un forum Stati Uniti-OCSE sul “commercio dei servizi educativi”. Queste sono le conclusioni dell’incontro: “Fino a qualche tempo fa un forum sul mercato dei servizi educativi sarebbe potuto sembrare un evento poco interessante per i ministri dell’Istruzione e per coloro che commerciano... Il forum di Washington ha cancellato ogni dubbio sul fatto che il commercio dei servizi educativi non è un’escrescenza accidentale che arricchisce l’educazione mediante lo scambio internazionale, ma costituisce ormai una parte significativa del commercio mondiale dei servizi” (corsivo mio).


[1] Tale situazione, determinata dalla legge 341/1990, è stata creata per impedire alla grande massa dei ricercatori di passare ai gradi più elevati della docenza e per non allargare il reclutamento universitario.

[2] Solo per dare qualche elemento sul funzionamento dei concorsi universitari rimandiamo ad un recente articolo di Barba Navetti, pubblicato dal Sole 24 ore. Ovviamente non condividiamo le conclusioni, cui perviene l’articolista, il quale ritiene che l’abolizione del valore legale del titolo di studio favorirebbe la concorrenza tra le università e quindi l’emergere dei migliori. Noi crediamo che i “migliori” saranno sempre quelli che piacciono di più a che investirà nelle Università (privati o dirigenti politici).

[3] Nel 2003 l’Italia è stato il paese che fatto meno investimenti nella ricerca rispetto ai 25 paesi dell’Unione Europea allargata, essendo diminuito tale investimento del 5,3% (CRUI, Relazione sullo Stato delle Università italiane. L’Università per il paese, 2004: 20).

[4] Sui centri di eccellenza Salvatore Settis (Dall’Orso, 2004) afferma che nascono per una strategia autopromozionale, giacché l’eccellenza (anch’essa inventata negli Stati Uniti) non può esser proclamata - come fanno i loro fautori - ma valutata solo dopo alcuni anni, ossia quando sarà possibile valutare l’attività didattica e scientifica di tali centri.

[5] Sulla generale polititica di definiziamento delle università vorrei citare Pierre Bourdieu, il quale ha fatto notare che lo Stato della California investe più denaro nella costruzione e nel mantenimento delle prigioni che nell’educazione superiore (cit. in Lander, 2003: 37).