Le classi nel mondo moderno
Alessandro Mazzone
Rappresentazione e concetto (prima parte)
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Chi edificò Tebe dalle sette porte?
Nei libri stanno nomi di re.
Furono i re a trascinare i blocchi di pietra?
E Babilonia, distrutta più volte,
Chi la rifabbricò, altrettante volte?
Dove abitavano i costruttori in Lima splendente d’oro?
E la sera, in cui fu terminata la muraglia cinese, dove andarono
I muratori? La grande Roma
È piena di archi di trionfo. Chi li eresse? Su chi
Trionfavano i Cesari? E Bisanzio tanto celebrata
Aveva soltanto palazzi per i suoi abitatori? Perfino nella leggendaria Atlantide
Nella notte in cui il mare la inghiottì, urlavano ancora
Annegando, per chiamare i loro schiavi.
Il giovane Alessandro conquistò l’India.
Da solo?
Cesare vinse i Galli.
Non aveva con se almeno un cuoco?
Filippo di Spagna pianse, sentendo che la sua flotta
Era andata a picco. Non pianse pure qualcun altro?
La guerra dei Sette Anni fu vinta da Federico secondo. Chi
Vinse, oltre a lui?
A ogni pagina, una vittoria.
Chi preparò il banchetto?
Ogni dieci anni, un grand’uomo.
Chi ne pagò le spese?
Tante notizie.
Altrettante domande.
Bertolt BRECHT: Domande di un operaio che legge.
1. In un certo senso la nozione delle classi, in
cui le società umane si dividono, è antichissima. Nella legislazione e nella
poesia mesopotamica, essa è documentata almeno dal 2° millennio a.c.. Nei
bassorilievi e nei papiri dell’antico Egitto, inservienti e schiave sono
raffigurati come assai più piccoli dei potenti cui stanno a fianco. Gli schiavi
compaiono come normale elemento della vita associata nella Bibbia, in Omero, in
Esiodo. Per non parlare della Grecia classica e di Roma antica [1].
In tutti questi testi e documenti storici, come in quelli del
Medioevo e poi dei secoli più vicini a noi, è presente e onnipervasiva la gerarchia
sociale, il rapporto di comando e di servizio, il carattere strumentale
dei ceti inferiori, l’ossequio tributato a potenti e padroni, l’ “ordine”
sociale che in tutto questo si manifesta e vige, la sporadica rivolta e
la sua repressione [2]. Chi volesse espungere la
presenza dell’”alto” e “basso”, del “padrone” e del “servo”
nella storia, poesia, arte dei millenni che conosciamo (perché appunto
tramandarono di sé memoria storica, documentale, non soltanto archeologica)
dovrebbe cancellare tutti i documenti di 5 o 6 millenni, o mutilarli fino a
renderli incomprensibili.
Vi è stato un certo idealismo ingenuo delle scuole, di cui i
più anziani di noi si ricordano (ma forse ce n’è ancora..): quello per cui
la storia dello spirito umano, o della civiltà, o della cultura,
si riassumeva tutta nelle creazioni dell’arte, poesia, letteratura, filosofia,
scoperte scientifiche, mentre scompariva nello sfondo la vita della stragrande
maggioranza, di coloro che procuravano col lavoro la riproduzione del corpo
sociale e quindi anche della cultura, arte ecc., e di chi poteva dedicarsi a
queste. Ora, questo idealismo ingenuo è diventato impossibile dopo l’Illuminismo
e l’Anti-illuminismo.
L’Illuminismo aveva fatto vedere, già nel ‘700 [3], che la società civile -
il mondo del lavoro e della produzione, dell’affinamento e moltiplicazione dei
bisogni, dello sviluppo della sensibilità (“estetica”), delle abilità,
dell’intelligenza, dell’incivilimento [4]- è l’oggetto
effettivo della conoscenza storica, della indagine sociale, della critica, e poi
della pratica ragionevole per migliorare la vita collettiva [5].
Quanto allo Anti-illuminsimo, che oggi appare dominante, esso
ha in Friedrich Nietzsche il suo maggiore e più esplicito e lucido profeta (ma
un Anti-illuminismo è cominciato prima di lui, come romanticismo
controrivoluzionario all’epoca della Rivoluzione Francese). Nietzsche, però,
ha messo in chiaro per chi sa e vuol capire che l’idea di eguaglianza in
qualunque forma (filosofica, religiosa o socialista che sia), e dunque la
diffusione della riflessione, la cultura razionale di massa, sono,
per chi domina, follia: non solo la cultura - pensiero, arte,
nobile raffinatezza in ogni senso - è elitaria, ma deve volere esserlo e volere
fondarsi sulla soggezione e l’ignoranza delle masse. “Chi vuole cultura,
deve volere schiavi”. E s’intende da sé che democrazia in ogni
senso, partecipazione, autogoverno, discussione razionale dei problemi comuni,
è altrettanto follia: tutto questo infatti presuppone, non solo e non
tanto una cosiddetta “naturale” eguaglianza degli individui umani, ma lo
sviluppo delle potenzialità effettive di ciascuno e di tutti, nella e
attraverso la vita associata [6]. Idea esplicita nel Manifesto comunista del 1848,
idea esecrabile per la borghesia divenuta classe dominante nell’’800, idea
assurda e opposta all’ ordine “naturale” e senza tempo delle cose -
secondo questa filosofia, che tantissimi oggi ripetono e balbettano senza
conoscerla [7], e credendo magari di
essere così “veri” innovatori (“postmoderni”, ecc. [8]).
Ma la fine dell’idealismo ingenuo non riguarda
soltanto i libri di scuola! Essa, al contrario, è l’indice di un fondamentale
fatto sociale, e perciò di cultura. Eccolo. Non è più possibile
governare contando sull’acquiescenza di masse analfabete, più o meno
superstiziose, ma soprattutto abituate da secoli a un “ordine” che si
riproduce di generazione in generazione, e che appare perciò immutabile.
Perciò il consenso, o almeno l’assenso dei governati, deve essere
conquistato o prodotto sempre di nuovo, attivamente, e può essere perduto. - Questo
fatto, questo grande cambiamento rispetto a un passato millenario, ha una
duplice radice - obiettiva e soggettiva.
La radice obiettiva è nello sviluppo secolare della
produzione capitalistica, che ha rotto gradualmente, ma per sempre, la
circolarità sempre uguale delle opere e dei giorni (dei contadini, artigiani
tradizionali.) - “La borghesia è una classe altamente rivoluzionaria.
[Essa...] non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di
produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei
rapporti sociali...Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’incessante
scuotimento di tutte le condizioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni
contraddistinguono l’epoca borghese fra tutte le altre...” [9]. Perciò l’età capitalistico-borghese, l’
età nostra, è quella in cui in linea di principio, “gli uomini
sono... costretti a considerare con gli occhi liberi da ogni illusione
[religiosa, mistico-sacrale, politica, o altra] la loro posizione nella vita, i
loro rapporti reciproci...” [10].
La radice soggettiva è nella tradizione di due secoli di
lotte democratiche, rivoluzionarie, poi socialiste. Nell’eredità della
Rivoluzione francese e della Rivoluzione russa, di tutta la storia del Movimento
operaio, anzi in generale, di tutta la storia della democrazia nei nostri Paesi.
Questo è l’elemento che l’avversario di classe mira consapevolmente e
sistematicamente a obliterare, a distruggere. E questo è l’obiettivo cui mira
la manipolazione di massa, che va molto al di là della “propaganda”televisiva
o altra, e attacca ormai la percezione di sé, lo sviluppo delle facoltà, della
sensibilità, emotività, intelletto dei manipolati [11].
L’avversario opera a ragione con queste armi e su questo
terreno. Esso sa che, nonostante le vittorie ottenute contro i lavoratori negli
ultimi decenni, nonostante la fine del protosocialismo in Europa orientale, le
povere parole d’ordine lanciate dai suoi cantori, “ufficiali” o no, (“nuovo
ordine mondiale”, “fine della storia” ecc.) poco valgono a mascherare i
giganteschi contrasti e problemi del capitalismo globalizzato, dell’ imperialismo
moderno [12].
Esso conosce e comprende praticamente la necessità di ridurre le popolazioni
del c.d. “primo mondo” a esseri non-pensanti, e così a non-cittadini, per
poterle dominare, come quelle dello ex-”terzo mondo” e dei Paesi già
socialisti. Da parte nostra, bisogna riconoscere che è ancora soltanto agli
inizi la comprensione di questa strategia non più solo oscurantista e
anticulturale, ma di vera e propria paralisi e atrofia di capacità umane
primarie. Molto resta da fare. Ma conta tener fermo, qui, che continuano ad
operare, nel tardo capitalismo, le due radici dell’impossibilità di governare
come nel “buon tempo antico”. La produzione capitalistica continua più che
mai a rivoluzionare sé stessa e tutti i rapporti sociali. L’esperienza di due
secoli di lotte continua a vivere, benché obnubilata, e dà frutto quotidiano
nella intelligenza, ancorché mutilata e parziale, dei nuovi fenomeni, delle
nuove esperienze di chi lavora.
L’assurdo della fame, della guerra endemica, delle lotte
etnico-identitarie in un mondo in cui ormai, obiettivamente, ci sono
risorse per tutti gli uomini e c’è posto per tutti, non può essere
mascherato - occorre che non sia percepito (o percepito soltanto come
fatalità, o come incubo). L’irrazionalità crescente dell’ “ordine”
vigente, delle politiche dei suoi padroni e governanti, deve essere celata ad
ogni costo - e si può farlo, solo abolendo nei fatti quel “tribunale della
ragione umana”, cui la borghesia allora progressiva, tre secoli orsono, nella
fase illuministica, aveva proclamato doversi sottoporre ogni tesi, ogni
affermazione, ogni certezza dogmatica, ogni istituzione sociale. Di qui l’importanza
decisiva del “fronte culturale” nelle lotte di oggi. Perché il “tribunale
della ragione” non è più costituito da una minoranza illuminata di uomini
colti (i philosophes, allora), in mezzo a un mare di analfabeti, ma, proprio
grazie allo sviluppo del mondo borghese (e delle lotte operaie in esso)
quel “tribunale” si può ora allargare fino a diventare giudizio,
ragionevolezza, critica di massa. Questo (a mio parere) è l’oggetto della lotta
di classe, oggi, sul terreno culturale - che, come detto, non è
ormai soltanto quello del “sapere” (in ogni specificazione e dimensione),
ma, altresì, quello della sensibilità, della percezione, dello sviluppo - o
dell’avvizzimento - di tutte le facoltà potenzialmente presenti in ogni
bambino, ogni donna, ogni uomo.
2. La rappresentazione millenaria dell’ “alto”
e del “basso”, dei “servitori” e dei “padroni”, diffusa nelle
coscienze, onnipervasiva, presente nel linguaggio, e poi nei documenti e
monumenti giunti fino a noi, è essa stessa oggetto di ricerca storica -
linguistica, appunto, iconografica, di storia delle idee, e di qui di storia
letteraria, filosofica ecc. - È giusto che sia così, perché questa rappresentazione,
anzi le numerose e diverse forme di rappresentazione cosciente, religiosa,
ideologica, artistica ecc., di un fatto fondamentale della vita umana associata
come la divisione in classi, apre la via a intendere e conoscere la costituzione
interna, i modi di vita, e attraverso ciò, il rapporto tra le “idee” degli
uomini e il loro modo di produrre e riprodurre se stessi, nella natura, mediante
il lavoro [13].
Ma due cose sono evidenti.
Primo: per comprendere il tessuto di attività, produzioni,
idee, in cui nacque e si inserisce per noi un’opera passata (p. es.: le
strade romane, o la poesia di Orazio), devo avere un’ipotesi sul rapporto di
produzione fondamentale in cui, nel tempo dato, gli uomini producevano e
riproducevano sé stessi.
Secondo: la rappresentazione (millenaria, diffusa,
multiforme, onnipresente) delle classi è una cosa. Il concetto di
“classe sociale” è un’altra. Che ci siano “sempre stati” (nella storia
documentalmente tràdita) “alto” e “basso”, “signori” e “servi”,
ecc. ecc., non mi dice ancora nulla sulla maniera in cui la cosa
funzionava - nonostante fosse, come s’intuisce, fondamentale. (Anche “intuizione”
non è concetto!)
Così dobbiamo abbandonare il lato per cui le “classi”
sono, e sono state presenti, evidenti, rappresentate, intuite, in forme e modi
diversissimi, nelle lingue, opere, monumenti a noi tramandati dai millenni -e
domandare che cosa intendiamo veramente quando parliamo di “classi” e di “rapporti
di produzione” [14]. Del resto,
il pregiudizio che le classi “si vedano” più o meno immediatamente, è, lui
sì, immediatamente confutato da uno sguardo anche superficiale alla società in
cui viviamo [15]. Al
massimo, “si vede” ancora e sempre l”alto” e il “basso”, il ricco e
il povero, il potente e chi è dominato. Una constatazione vecchia quanto il
mondo, e che non mi fa saper nulla di nuovo. [16]-----
3. Le “classi”: un tentativo di lettura. Per andare
al di là della mera constatazione, conviene passare dal luogo concettuale e
sistematico, nella teoria del Modo di produzione, in cui esse emergono
appunto come “classi”
Al livello della teoria del Modo di produzione capitalistico
[MPC] le “classi” non sono un dato, né una collezione di individui (con o
senza tuta, con o senza contratto di lavoro, nel doppio senso di “lavoratori
con partita IVA” o di caporalato e lavoro nero.) Le “classi” sono un
concetto, e anzi un universale. Possiamo dire, ricordando che le Forze
produttive [FP] [17]
non avrebbero esistenza senza i RP in cui operano e si sviluppano, che “classi”,
astrattamente preso, significa: modi di esistenza delle forze produttive nel
loro sviluppo.
Per avanzare oltre questa astrazione, dobbiamo tener presenti
i concetti di
- rapporto di produzione (v. nota 13); e di
- forma di movimento [18]
Nell’architettonica della teoria elaborata da Marx, il primo
rapporto di produzione è - il valore. Esso è già una forma di
movimento, quel moto che permette la deduzione del “denaro”, uguale a “circolazione
delle merci” (Titolo di Capitale I, cap. 3!)
Con questa forma di moto di producenti di merci, “privati,
autonomi e indipendenti” (non producono per se stessi, ma per vendere, vendono
per comprare ecc.), hai la prima determinazione concettuale del valore.
Rapporto di produzione tra quei (puramente ideali) producenti-di-merci, il valore
1. eguaglia i loro lavori;
2. scarta l’inutile o non comprato;
3. riduce permanentemente la quantità di lavoro al
socialmente necessario;
4. rialloca permanentemente il lavoro complessivo secondo gli
scambi effettivamente avvenuti (misurazione e “forma di prezzo”). Queste
funzioni del valore rimarranno, modificate e sussunte, nel “modello” della
produzione capitalistica. Ma qui, nella circolazione semplice, hai: 1. che
il lavoro di ciascuno è lavoro produttivo, sia di beni (valori d’uso di
merci), che di valore, misurabile e rimisurabile nei successivi scambi
[il loro lavoro è qui wertsetzend, cioè creatore di valore
quantitativamente misurato, mentre NON lo sarà quello dei salariati]; 2. che,
tuttavia, non c’è ancora, concettualmente, produzione. È
soltanto presupposto che i nostri individui “privati autonomi e indipendenti”
abbiano prodotto, ciascuno, la sua brava merce: noi però li “vediamo”, o
meglio, li concettualizziamo, solo mentre la portano a scambiare:
vendono, poi comprano quel che gli occorre, e se lo portano a casa, dove non c’è
più merce, ma solo un bene, consumato, o anche lasciato marcire.
Una volta che il denaro è sviluppato, è “signore”, compra tutto quello
che gli sta di fronte e possa esser comunque venduto, diventa pensabile
la “generalizzazione della circolazione delle merci” - ma a una condizione:
che la forza-lavoro, il “lavoro vivo” che è in potenza, e diventa in
atto unicamente entro il processo di capitale, sia separato dalle condizioni
di produzione (mezzi e oggetti di lavoro), e perciò - pena la morte - si offra
come merce [19].
Non importa da dove vengano questi “lavoratori liberi”
[20]. Essi sono “lavoro senza oggettività”, che può
estrinsecarsi soltanto in quanto “fuoco del lavoro vivo” sul morto, i mezzi
e oggetti di lavoro - i quali hanno ora, però, la forma di capitale.
Questo lavoro vivo è dunque integrato nel processo di capitale. E lo è materialmente
[stofflich], come concreta attività specifica, di volta in volta,
di questo lavoratore, con questi mezzi di lavoro ecc., su questi
oggetti che elabora; e nello stesso tempo, valoralmente, poiché è solo
grazie al lavoro vivo che il capitale (non già “cosa”, ma rapporto e
processo) può valorizzarsi. [21]
Qui c’è del nuovo. Entriamo in un modo di produzione peculiare, e
dunque in un nuovo RP. Resta fermo che abbiamo producenti di merci, e che merce
è solo quello che viene prodotto per esser venduto. Dunque, una sfera della
circolazione (“ovvero...denaro”, ricordiamo) che ora anzi precede e segue
ogni atto di produzione, e che tende a generalizzarsi, estendendosi non
solo a sempre nuovi rami o settori, ma a ogni sfera di vita che sia riducibile a
produzione-e-vendita di merci, ossia “mercificabile” [22]. Con ciò resta fermo anche, per l’esposizione del modello
concettuale più astratto del MPC (“processo di produzione del capitale”,
accumulazione, circolazione del capitale” [23]), l’assioma-base di ogni teoria dello scambio di
merci, quello che si scambino equivalenti. Ma con una limitazione decisiva.
Per clausola di astrazione, e “poiché i veri produttori di merci” prodotte
capitalisticamente sono “i capitalisti” [24], si continua per ora a presupporre che acquisti e vendite dei
produttori-capitalisti avvengano “normalmente”, ossia che ogni capitale
realizzi sempre il valore e plusvalore prodotto (“scambio delle merci al
valore” [25]). Ma, fin d’ora, ciò non
vale affatto per l’apparente scambio tra lavoro e capitale, espresso nel “salario”.
Non si tratta affatto, almeno per Marx, di una semplice questione quantitativa.
No! lo “scambio” stesso è apparente, “si tratta di tutt’altra
categoria!” [26] Nella circolazione di
merci, il “valore d’uso” della merce acquistata è dell’acquirente,
certo, che ne fa quel che vuole, lo consuma o distrugge a suo piacere - il bene
consumato o distrutto è fuori dalla circolazione e dalla produzione.
Nell’acquisto di mezzi di produzione (da parte del “vero produttore di merci”,
il capitalista) hai che il valore di quelli (che compare nel calcolo
aziendale come elemento dei “costi di produzione”),viene trasferito pro
tanto nell’unità di merce prodotta, (rispettivamente: deve essere
calcolato come costo unitario senza cambiamento quantitativo.) [27] Orbene: in superficie, sembra un normale scambio: denaro
contro merce (forza lavoro), e l’uso della merce è del compratore. Ma il “valore
d’uso” di questa merce è - il lavoro - il “fuoco del lavoro vivo”
che solo permette ai prodotti passati, al “lavoro morto”, qualunque forma
abbiano, di tornare in società come ingredienti della produzione, invece
che andarsene in natura come rottami, rifiuti e ruggine. Quel lavoro, nei
termini marxiani, che appunto produce neovalore - una sola parte del
quale è equivalente alla sussistenza storica media del lavoratore. Non c’è
scambio, né qualitativamente, né quantitativamente (nel senso del postulato
dello scambio di equivalenti, inerente allo scambio di merci.)
E allora? Allora, il salario è una figura di parvenza.
Parvenza necessaria, si noti: non è concepibile riproduzione umana in forma
capitalistica senza acquisto di mezzi di produzione e di lavoro salariato
(comunque fissato in forme legali, o “nere”, o camuffato). E parvenza nella
quale sono “impigliati tutti gli agenti della produzione di merci” [28]. Alla fin fine, la lotta per la (grandezza del)
salario o per la sua riduzione, per una parte “giusta” del costante
incremento di produttività, per il salario globale e differito, per i connessi
aspetti normativi e legislativi, è stata (ed è) una lotta per istanze di
civiltà, entro il MPC. Riguarda l’aspetto quantitativo? Sì. Ma, posto
il rapporto di capitale, è inevitabile che vi sia anche questo aspetto.
Resta però l’altro aspetto, quello qualitativo. Fin qui,
non avevamo ancora il processo di produzione nel suo movimento specifico, “nel
suo nesso complessivo... cioè come riproduzione” e accumulazione del
capitale. Basta sviluppare questo nesso, per vedere che i lavoratori non sono
pagati affatto. Essi ricevono dei “buoni, sotto forma di salario”, su
una parte del valore, e del prodotto (valore d’uso di merci) già
creato dal loro lavoro (I, 21). Perciò è corretto parlare di “schiavitù
salariata”, e ricordare che ogni conquista del movimento operaio, da una parte
resta “solo un acconto” rispetto all’autogoverno del corpo collettivo,
o sociale, secondo razionalità e libertà, dall’altra non è
definitiva mai, ma soggetta all’andamento alterno dei rapporti di forza.
Ma ora: il “lavoro” esiste sempre di nuovo in potenza,
negli esseri umani che lavoreranno, se e in quanto il capitale li
metterà all’opera, secondo le sue esigenze di valorizzazione. Questo in
potenza è non solo corporeità, ma anche abilità, e capacità
dei lavoratori, in ogni istante. Essi si producono e riproducono in un ciclo
vitale che è inseparabilmente ciclo sociale - questo ciclo ogni
volta, in questa società, con questo grado di sviluppo sociale
complessivo, di cultura ecc. - Non lo fanno “grazie” al salario e alle merci
che mediante il denaro-salario possono comprare! Non si mangia (beve, veste,
studia...) salario! Si mangia (veste, studia, socializza, sviluppa sé
stessi...) medianteuesyta società
beni, questo sì, che in generale sono tutti prodotti di
lavoro umano (“materiali” o “immateriali” che siano: per es., sanità,
istruzione, ecc.). Ma, in quanto hanno forma di merci, i beni esistono solo
per la domanda solvente. Perciò la ricchezza (= capacità di
soddisfare bisogni umani, e sviluppo di questi, non “materiale” ma
storico-sociale) viene costantemente prodotta, sì, ed è tutta frutto di
lavoro. Ma il rapporto proporzionale tra questa reale ricchezza e la
valorizzazione del capitale è via via decrescente, e tende a scomparire, con lo
sviluppo storico, epocale, del MPC. Di qui, non solo il conflitto tra “capitale
e lavoro”, ma anche e soprattutto l’evoluzione tendenziale della base del
conflitto. Astrattamente, esso ha sempre per oggetto la modalità della
riproduzione associata di uomini. Ma per non restare nella cattiva astrazione,
che è cieca di fronte allo sviluppo delle cose e del processo sociale, dovremo
vedere (a grandissime linee) come questa riproduzione associata si sviluppi,
nelle forme e configurazioni del MPC, attraverso tutto il corso del suo
sviluppo generale, epocale, fino ad oggi.
4. Ma non anticipiamo. È qui, quando abbiamo il MPC che
si muove secondo la sua legalità interna, e pone sempre di nuovo le sue stesse
condizioni [29], che abbiamo gli elementi per pensare concettualmente, non solo la esistenza
in genere delle due classi fondamentali, capitalisti e lavoratori salariati, ma il
modo in cui esse producono e riproducono sé stesse. “Modo di esistenza di
forze produttive”, si è detto, sono le “classi” astrattamente. Qui
l’astrazione può finalmente concretizzarsi: le due classi-base producono e
riproducono sé stesse come forme di esistenza del processo di produzione
capitalistico - cioè specifico, quello e non un altro, con le sue proprie leggi
interne, il suo sviluppo epocale, le sue forme di movimento.
Resta da vedere ancora non poco:
a) come le due classi-base si modifichino e risentano del
moto del capitale sempre ancora nel semplice “processo di produzione
del capitale”:
- attrazione e repulsione di lavoratori, creazione
permanente di una sovrappopolazione lavoratrice, “esercito industriale di
riserva”, disoccupazione ed esclusione - dalla parte dei lavoratori;
- concentrazione e centralizzazione del capitale, tendenza
all’oligopolio - dalla parte del capitale stesso e delle sue “maschere
caratteristiche” (i capitalisti, semplici “agenti”, “personificazioni”
del moto del capitale stesso - secondo Marx);
b) come si producano le “figure di superficie”: salario
come “prezzo del lavoro”, poi lo stesso profitto, nelle quali restano
“impigliati tutti gli agenti della produzione di merci” (Capitale I,1,§4);
c) come le classi in lotta agiscano sullo stesso Modo di
produzione, attraverso l’imposizione di leggi (“volontà politica”, Stato)
che regolano in parte il moto “spontaneo” della produzione capitalistica
(qui Marx espone, naturalmente, fenomeni dell’età sua).
Ma prima di sospendere, gettiamo ancora uno sguardo al
cammino percorso. Il concetto di classe, a rigore, pur elaborato e svolto
nei predecessori di Marx (e in particolare nell’Economia politica classica,
tra ‘700 e primo ‘800), nasce con il Capitale. Esso è secondo,
concettualmente, rispetto a quello di Modo di produzione. Tutta la teoria
marxiana è - si può dire - teoria dei modi di produzione, e in
particolare del Modo di produzione moderno, capitalistico. Per questo essa è
“critica dell’economia politica” - e con lei, critica dell’enciclopedia
borghese delle scienze sociali, che affianca, in dipartimenti separati,
economia, sociologia, storiografia ecc. ecc. Ed è in fondo per questo che essa
parla a noi, oggi: la teoria del processo storico-sociale in quanto concezione
di uno sviluppo epocale, nelle sue forme di movimento peculiari,
rende possibile (ma soltanto possibile!) portare avanti l’impresa
avviata dalla ragione illuministica: intendere il processo in cui gli uomini
associati producono e riproducono sé stessi, le loro forme di vita, le loro
istituzioni, anzi anche le loro abilità, capacità, facoltà.
Per questa via, tornerà possibile anche progettare
razionalmente una “politica saggia e illuminata” che serva a migliorare, con
le nostre condizioni di vita, noi stessi e i nostri figli. Ma non senza la
diffusione della ragione nelle c.d. “classi subalterne”. Non senza, certo,
un lavoro lungo e lotte difficili. La teoria delle classi è parte essenziale
di tutto questo.
[1] La schiavitù
era tanto ovvia, che è anzi documento della grandezza filosofica di
Aristotele il fatto che essa diventi per lui problema: egli si chiede se
schiavitù sia “per natura” o “per convenzione”, senza decidere la
questione.
[2] La storia delle rivolte e insurrezioni si estende nei
secoli. Qualche grande episodio è ricordato generalmente: dalla crocifissione
dei combattenti di Spartaco lungo la via Appia nell’ 71 a. C., alle jaqueries
periodiche dei servi della gleba in Francia e Inghilterra fino a tutto il ‘300,
alla Guerra dei Contadini in Germania (1525-6), alla rivolta di Pugaciov in
Russia sotto la zarina Caterina II (1773-4).
[3] P. es.
con la storiografia: G.B. Vico, Montesquieu,Voltaire, Gibbon, Ferguson, Hume
mettono fuori gioco definitivamente, nel ‘700, la “storia” come “storia”
dei re, delle loro battaglie e conquiste, ecc., per una storia delle “nazioni”,
dei loro costumi, istituzioni, modi di vita.
[4] È il termine italiano in cui
tutto questo si riassume, oggetto delle ricerche del maestro di Melchiorre Gioia
e Carlo Cattaneo, a cavallo tra ‘700 e Risorgimento, G.D. Romagnosi
(1751-1835) - un termine che già di per sé contiene la nozione di un processo
e di un avanzamento, e che vale la pena di rimettere in uso!
[5] E (non a caso)
nello stesso periodo nasce la economia politica come scienza della Ricchezza
delle Nazioni, della sua origine (nel lavoro senz’altro - Adamo
Smith, 1776), del suo sviluppo, del suo possibile incremento grazie a una politica
economica saggia e illuminata.
[6] L’uguaglianza, nella Rivoluzione Francese come
nella Costituzione della Repubblica italiana, non è una “verità
immediatamente evidente” (preambolo della Dichiarazione d’
Indipendenza americana, 1776), ma un dover essere: un obiettivo da
realizzare attraverso tutte le istituzioni della vita sociale, ovvero un “compito
della Repubblica”.
[7] Ma che è ripresa con spirito di sistema nel maggior teorico della
neorazzista “identità culturale”, il francese A. de Benoist, a partire dall’opera
Vue de droite, 1977, tradotta in più lingue.
[8] Quel che più
conta non sono, qui, le teorizzazioni di intellettuali che riescono a “sfondare”,
ma la cosa di cui essi si fanno più o meno malinconici cantori: cioè, la
manipolazione di massa, la spoliazione fin della sensibilità più elementare
(acustica, visiva, emotiva), l’invasione e occupazione delle menti e dei cuori
con una diffusa e in-traguardabile, permanente alluvie di “messaggi” sempre
indifferenti, perché sempre di nuovo immediati, e perciò
non-elaborabili, impermeabili allo sforzo di dare un senso alle proprie
esperienze, ai propri rapporti, alla propria vita - questa è la messa in
pratica grandiosa, su scala quasi planetaria, della produzione di dominio
mediante una sorta di assenso muto, inarticolato e inarticolabile, e però di
massa, in quelle parti del mondo capitalisticamente unificato in cui i
lavoratori si sono già una volta organizzati, riconosciuti come classe, e hanno
posta la questione dell’ egemonia - e potrebbero tornare a farlo,
elaborando una strategia adeguata alla figura attuale del potere
imperialista.
[9] K. MARX, F.
ENGELS, Manifesto del partito comunista, Londra 1848.[Cito dalla tr. di
P. Togliatti, Roma 1949, p. 31].
[10] Ibidem.
[11] Come ha mostrato tra
gli altri Th. METSCHER, da ultimo nello studio Società civile e coscienza
postmoderna, in: AA.VV. Gescheiterte Moderne?[Sull’ideologia del
Postmodernismo], Edition Marxistische Blätter, Essen 2002.
[12] Rimando per questo al mio saggio Conoscere l’imperialismo
moderno, e agli altri studi apparsi nel vol. Il piano inclinato del
capitale. JacaBook, Milano, 2003. V. ora anche E. DAL BOSCO, La favola
della globalizzazione, Bollati Boringhieri, Torino 2004; J. ARRIOLA e L.
VASAPOLLO, La dolce maschera dell’Europa, JacaBook, Milano 2004.
[13] Un corpo collettivo umano si riproduce anche bioticamente, s’intende:
riproduzione sessuata. Questa esso ha in comune con buona parte del regno
animale. Gli enti che chiamiamo comunemente “uomini” sono perciò biplanari:
entrano nella vita e nella società, con la sua precedente storia, alla
nascita, e d escono da entrambe solo con la morte. La loro attività sociale
lascia però tracce indelebili - piccole o grandi (non foss’altro per il modo
in cui hanno trasmesso ai figli tipi di attività lavorativa, di linguaggio,
ecc.).
[14] Una volta per tutte. Chiamiamo “Rapporti di produzione”
[RP] i rapporti di e tra uomini in quell’attività peculiare loro (il lavoro),
con cui, producendo oggetti qualisivogliano (“materiali” o no), in
definitiva riproducono la loro vita, e dunque sé stessi.
[15] Che un certo signor B., a tutti noto, sia straricco e assai
potente, si “vede” immediatamente - e non porta da nessuna parte...
[16] Mi sbaglio! Perfino questa
banalità si vorrebbe obliterare “linguisticamente”. Così è denominata “gerarchia
piatta” (un bell’ossimoro) quella vigente in certi oligopoli, dove è norma
darsi tutti del “tu” e chiamarsi col nome di battesimo - e, vigendo per lo
più rapporto di lavoro precario, si è poi messi fuori senza complimenti da un
“gerarca piatto” che decide al riguardo.
[17] La “forza produttiva” primaria sono sempre gli esseri
umani: che lavorino con la cazzuola o col computer, dipende dalla “base
tecnica” raggiunta in un determinato stadio del Modo di produzione. Ma questi
stadi sono interni al MP stesso (capitalistico,nel nostro caso), e modalità
del suo sviluppo intrinseco, della sua peculiare forma di movimento.
[18] La forma di movimento più
semplice è quella meccanica (il moto dei corpi celesti, la caduta dei gravi,
ecc.); più complesse sono quelle chimiche, organiche, e finalmente quelle dei
corpi sociali. Tutti questi sono processi, (non: “cose”), e hanno
leggi interne del loro insorgere, svilupparsi, estinguersi. In quanto queste
leggi sono peculiari, specifiche di un processo o di un tipo di processi,
parliamo di rispettive forme di movimento (o forme di moto). La
produzione di valore e plusvalore è la forma di movimento specifica,
fondamentale, del MPC (“produzione” significa già “processo”!) Di lei
sono poi fenomeni, p. es., il salario, il profitto, l’interesse del
capitale, ecc. (Un’analogia, per quello che può valere: i “segni” di
buon funzionamento - “salute”, o cattivo - “malattia”, che la
semiotica medica riconosce e classifica, sono aspetti fenomenici delle forme
di movimento proprie di quel sistema di sistemi che è l’organismo
vivente.)
[19] Pena la morte, sì: perché non puoi pensare produzione e
riproduzione umana, sociale, se non hai uomini vivi, e per esser vivi,
concettualmente, devono mangiare. “L’uomo si nutre “ è una determinazione
universale astratta, un momento del concetto “uomo”, comune per questo lato
a tutti i viventi. Che poi Alessandro Mazzone, per esempio, crepi di fame, non
cambia nulla alla determinazione concettuale, che resta vera, sebbene
universale-astratta.
Invece la proposizione “tutti gli uomini possono
ormai esser nutriti, allevati ecc., grazie allo sviluppo epocale della
produzione in forma capitalistica” - se la dimostro, cioè concettualizzo
quello sviluppo epocale nella sua dinamica propria, e di lì tiro le
conseguenze, esprime un universale concreto, una possibilità reale
apertasi nel processo [nella “realtà in atto”], che ha per noi la
forma del dover-essere, ma non è semplice aspirazione soggettiva, bensì
obiettiva possibilità.
[20] Nel capitolo sulla cosiddetta “Accumulazione originaria” Marx dà larga
documentazione storica dei metodi extraeconomici, violenti, con cui
contadini e artigiani vennero “separati” dai loro mezzi di produzione,
durante quattro secoli. Ma questo, se fu una precondizione della produzione
capitalistica e operò poi nel suo espandersi, non è modello concettuale sussunto
nel più ampio e concreto modello successivo - quello del MPC come produzione e
accumulazione “immediata”. È altro, descrizione di pre-condizioni, appunto,
anteriori e logicamente distinte dal “modo di produzione capitalistico
vero e proprio”, quello in cui il capitale (con la “produzione del
plusvalore relativo”), pone esso stessoisuoipresupposti,ecamminasulle
sueproprie gambe.
[21] Questo punto - essenziale - non solo è e
indifferente al capitalista, il quale “vede” solo il prezzo di costo e l’incremento
da aggiungervi in base al tasso del profitto medio, che per lui è un dato
(base, ancor oggi, del calcolo economico aziendale). Ma è “scomparso” agli
occhi di tutti gli “agenti della produzione capitalistica”, i quali - per un
lato almeno - vedono e non possono non vedere sé stessi che come “individui
dello scambio”. Anche i lavoratori? Certo! “Io ti do il mio lavoro-merce, tu
mi dai in cambio il salario, con quello - altro scambio di denaro/merci - mi
compro quel che posso pagare, ecc.. Certo, i lavoratori sono “doppi”, come
vedremo: “individui dello scambio”, o “persone” nel senso liberale e
borghese - fino all’attimo in cui entrano in produzione, e dopo che ne
sono usciti. Dentro la produzione (qui non importa proprio se “materiale”
o “immateriale”) NON vige la “proprietà, libertà, uguaglianza...” del
mondo della circolazione semplice, ma il comando dispotico sul lavoro altrui, e
la appropriazione dei frutti di quello. (I lavoratori poi sono “doppi” anche
in un secondo senso, v. infra.)
[22] Oggi, alla produzione
di uomini anche in senso stretto, biologico-sociale. Dalla c.d. “procreazione
assistita”, fenomeno per ora di scarsa diffusione, alla nutrizione dei nuovi
nati, alla produzione del loro mondo attuativo (giochi) e immaginativo, alla “privatizzazione”
dell’insegnamento ecc. - Queste novità non devono tuttavia distrarre dal
carattere essenziale della Riproduzione sociale complessiva, che è sempre
produzione e riproduzione di esseri umani, in ogni Modo di produzione: e
nel MPC, mediante prodotti di attività umana che hanno forma di merce,
mentre l’attività acquista progressivamente la forma di lavoro
salariato.
[23] Nell’esposizione tràdita: il I
e II libro del Capitale di Marx, dove la doppia clausola di astrazione
stabilita esplicitamente all’inizio di Capitale I, sez. VII, (“in un
primo momento consideriamo l’accumulazione astrattamente... come
semplice momento del processo immediato di produzione... [e] presupponiamo che
il capitale percorra il suo processo di circolazione in maniera normale”)
permetterà intanto di esporre le determinazioni dell’accumulazione e
concentrazione del capitale, poi la “influenza che l’aumento del capitale
esercita sulle sorti della classe operaia”; poi, nel secondo libro,
dove hai una molteplicità di capitali interconnessi tra loro, anche i
cicli del capitale, la rotazione e la sua azione sulla composizione organica,
gli schemi di riproduzione complessiva. Ma molteplicità non è ancora interazione
attiva di enti individuali, ciascuno dei quali opera di fronte a e su tutti gli
altri secondo le leggi della sua interna costituzione. Per trattare questo, le
clausole di astrazione dovranno esser levate, e ciò avviene nel Capitale
III, dove si tratterà di una “media ideale” del “processo complessivo
della produzione capitalistica”.
Non però ancora, come dichiara esplicitamente l’Autore, del “moto reale
della concorrenza”, cioè delle varie vicende della produzione capitalistica
nel corso del tempo.
[24] L’espressione virgolettata è in
Capitale III, prima pagina. Per la clausola di astrazione, v. nota
prec.
[25] Per una lucidissima esposizione della portata di queste clausole di
astrazione, e del significato dell’espressione “scambio di merci al valore”
nei tre Libri tràditi del Capitale, cfr. R. FINESCHI, Ripartire
da Marx. Napoli, Città del Sole, 2001.
[26] È nel Manoscritto 1857-8 [Grundrisse], che Marx “scopre”,
sotto la parvenza della circolazione di merci, l’insostenibilità del c.d. “scambio”
tra capitale e lavoro, e prorompe nell’espressione ricordata. L.cit., p. 22
del Quad. II, = p. 186 dell’ed. in MEW, vol. 42.
[27] Marx non si fa
certo illusioni sulla probità delle “maschere caratteristiche” dei rapporti
economici. Ma non trovo, nella teoria del MPC come tale, l’arte di falsificare
i bilanci...
[28] I,1,4
(Feticismo della merce); ma cfr. il più ampio e complesso feticismo del
capitale in III, 48 e 49.
[29] “Il processo di produzione capitalistico, considerato nel suo
nesso complessivo, cioè considerato come processo di riproduzione
(corsivo mio), non produce...solo merce, non produce... solo plusvalore, ma
produce e riproduce il rapporto capitalistico stesso: da una parte il capitalista,
dall’altra il lavoratore salariato.” (Capitale I, cap. 21, in
fine)