Un modello fondato sul "dumping sociale"
L’Italia del Sudest
Sergio Cararo
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Nell’area che comprende Puglia, Basilicata e Molise si
assiste alla crescita degli investimenti e alla nascita di distretti
industriali. Ma il prezzo pagato è: flessibilità, bassi salari e rilevanti
finanziamenti pubblici alle imprese private. Chi ci guadagna con la Taiwan
italiana?
Italia economica continua a trasformarsi. Se gli anni `90, quelli
dellagrande svalutazione competitiva e del boom dell’export, hanno
portatonell’agenda politica e nella geografia economica il modello del
Nordest, i prossimi anni potrebbero rivelarci un’altra realtà: il declino
del Nordest e il boom del Sudest.
Da un paio d’anni, la parte più meridionale del-la
dorsale adriatica, sta conoscendo uno sviluppo economico che la divarica
sempre più dal resto del Meridione. Al contrario, nel Nordest alcuni
indica-tori ci dicono che nulla sarà come prima. L’ultimo sondaggio
condotto dal/ Istituto Poster e dall’Associazione Industriali di Vicenza ci
conferma che l’anomalia politica del Nordest sta "rientrando nei
ranghi’’’. Il che dovrebbe presupporre una seria rettifica di analisi per
quei settori della politica (a destra e a sinistra) che proprio sulla
specificità del Nordest hanno tentato di costruire impropabili strategie.
1. E’ iniziato il declino del Nordest?
In un recente studio dell’Istituto Tagliacarne sulla
ricchezza prodotta nelle province italiane, tra le prime dieci (al 9° posto
con 1’1,9% del valore aggiunto di tutto il paese), troviamo ad esempio Bari ma
non troviamo alcuna provincia del `"ricco e laborioso" Triveneto .
Un’altro rapporto, questa volta dell’Istituto per la
Ricerca Sociale, commissionato dal Banco Ambrosiano-Veneto, rivela che la
redditività del 1997 delle 1.700 imprese del Nordest prese in esame, è
diminuita rispetto al 1995. Ma anche l’anno appena trascorso non è andato
meglio. Il noto leader degli industriali di Treviso, Tognana, sostiene che
"il terzo e il quarto trimestre del 1998 sono da dimentica-re . Il ROE
delle imprese del Nordest è sceso in tre anni dal 15% del 1995 al 7,2% del
1997 .
A soffrire si più questa nuova realtà - che mette in
evidenza la scarsa o debole autonomia finanziaria delle micro-imprese - sono
infatti i terzisti che di-pendono troppo strettamente da un unico committente
e dalle "decisioni altrui, non hanno un marchio proprio nè
un’organizzazione adeguata".
La crescente delocalizzazione produttiva nei paesi dell’Est
di grandi "case-madri" come Benetton e Stefanel, sta riducendo
pesantemente il numero di laboratori contoterzisti del Triveneto a queste
lega-ti con contratti di sub-fornitura. Si calcola che nel 1992 in Veneto vi
erano circa 20.000 laboratori. Due anni fa erano dimezzati e si prevede che
per il Due-mila saranno scesi a 5.000.
E’ certamente presto per affermare che il Sudest stia
superando il mito del Nordest, ma è altrettanto vero che se la sinistra e il
sindacato vogliono coglie-re i fattori dinamici della realtà sociale, non
posso-no limitarsi a guardare indietro ma devono guarda-re in avanti (non se
ne abbiano a male Massimo Cacciari o i centri sociali veneti). Soprattutto
occorre guardare, anticipare e interdire quei processi di subordinazione e
frammentazione del lavoro e dei lavoratori che stanno marciando speditamente
anche nel nostro paese.
2. Il Sudest: Florida o Taiwan?
Quando tre anni fa l’Ulivo vinse le elezioni, Pro-di e
Veltroni promisero di fare del Meridione una "nuova Florida".
I fatti si sono incaricati di dirci che ne stanno piuttosto facendo una nuova
Taiwan ovvero un’area a bassi salari per la competizione sul mercato
internazionale del lavoro e l’attrazione di investimenti esteri. Nella stessa
direzione mi sembra che vadano le esternazioni del primo ministro D’Alema
sulla flessibilità del lavoro, e non si può affatto escludere che quando
lancia l’appello agli industriali ad investire al Meridione, abbia in mente
come modello proprio il suo "bacino elettorale" e cioè il Sudest.
Si ha la netta impressione che nella sfida della
ipercompetizione sul mercato mondiale, si punti alla costituzione del
Meridione italiano come una sorta di "periferia interna" in cui
concentrare investimenti esteri e nazionali creando le condizioni idonee.
Questa intuizione era già stata espressa alcuni anni
addietro in un seminario tenutosi a Bologna e dedicato al rapporto tra
capitalismo italiano e delocalizzazione. Nella relazione si indicava
chiaramente il progetto di "convertire il Meridione in un’area a bassi
salari non solo per fare pressione sui lavora-tori del Nord e del Centro che
già oggi hanno un costo del lavoro superiore, ma anche per competere con
l’Europa dell’Est o il Maghreb, scambiando un costo del lavoro un pò più
alto con i vantaggi derivanti dalla qualificazione della forza lavoro, dalla
vicinanza dei mercati ricchi e dalle agevolazioni fiscali che sta introducendo
il governo".
Tre anni fa, il prof. Viesti (università di Bari) oggi
collaboratore di Bassolino al Ministero del Lavoro e il dott. Bodo (dirigente
della formazione Fiat), scrissero apertamente che occorreva rendere il costo
del lavoro e la sua flessibilità nel Meridione "competitivi" con
gli altri paesi a basso salario per attirare investimenti nell’area’-.
Due studiosi della Banca d’Italia, L. Federico Signorini e
Ignazio Visco, hanno rilanciato questa te-si come soluzione ai problemi
storici del Mezzo-giorno italiano invocando la fine della contrattazione
nazionale e l’introduzione della contrattazione "locale in considerazione
delle circostanze speciali" del Sud. Succo di questa elaborazione nel
Meridione " si dovrebbe essere preparati ad accettare divari salariali
inizialmente anche ampi". I risultati prati-ci di questo progetto, sono
stati recentemente - e con orgoglio - ribaditi dal presidente del
Mediocre-dito centrale Gianfranco Imperatori "a dimostrazione che anche
nel Mezzogiorno è possibile, a determinate condizioni, attrarre investimenti
esteri diretti.
Il laboratorio di questa taiwanizzazione del Meridione
d’Italia sembra essere diventata la Puglia. Del resto, era stato proprio il
comprensorio a caval-lo tra Puglia e Basilicata ad essere scelto dalla Fiat
nei primi anni `90 per avviare la sperimentazione della fabbrica a
"qualità totale" ossia Melfi. Ed è in-fatti in un’area che
comprende Puglia, Basilicata e Molise che è in corso un’operazione che va
compre-sa a fondo.
Nel 1994, la Fiat affidò al Censis una ricerca sul
comprensorio di Melfi, un bacino di forze da lavoro per lo stabilimento SATA
che comprendeva le pro-vince di Avellino, Foggia, Bari e Potenza, per testa-re
l’attegiamento rispetto alla "innovazione" e al lavoro (ritenendo se
stessa portatrice sana di entrambi). I risultati - nonostante registrassero
nelle due province pugliesi le resistenze più forti al modello di innovazione
fatto proprio dalla Fiat, vennero ritenuti soddisfacenti ma insufficenti se
oltre alla Fiat non ci fosse stato "altro", in modo particolare gli
incentivi pubblici, l’imposizione di una cultura "innovativa" sul
lavoro alle comunità locali, la creazione di un ambiente idoneo alle
attività imprenditoriali. La "chiamata" della Fiat alle autorità
statali - come sappiamo - non è rimasta inevasa. Anzi, è diventata sempre
più necessario inserire forti dosi di `"altro" perchè l’illusione
della fabbrica a qualità totale si è ben presto esaurita.
3. Melfi: una smentita del post-fordismo?
Una inchiesta condotta nel luglio ’95 da Luca Queirolo
Palmas, fa notare come il luogo comune del post-fordismo venga messo a dura
prova in una realtà produttiva nata all’insegna della qualità totale come
Melfi. In realtà la catena di montaggio, le sue funzioni e l’alienazione che
produce è sempre la stessa mentre le modifiche si realizzano nella funzione
del-le figure intermedie. Indicativo è anche il fatto che, rispetto alle
previsioni iniziali, la Fiat abbia in realtà allargato le assunzioni tra gli
operai di linea e ridotto quelle tra i quadri tecnici ed intermedi.
Queirolo Palmas non nega di essersi avvicinato al campo di ricerca con un
impianto teorico di tipo post-fordista " Melfi d’altra parte ha il
fascino di rappresentare la via italiana al post-fordismo, il fio-re
all’occhiello dell’impresa nella pubblicizzazione della nuova organizzazione
del lavoro". hautore - per cercare di individuare i tratti salienti
del modello Melfi - ha intervistato decine di dipendenti a cominciare dai
managers per finire agli operai di linea. Il risultato della sua indagine, si
è incaricato di smentire ogni semplicioneria post-fordista.
Dai dati emerge infatti che la fabbrica integrata di Melfi
si regge su una stragrande maggioranza di operai generici che la Fiat ha
assunto in numero superiore al progetto originario. Mentre operai
professionali, quadri e impiegati sono in numero estrema-mente ridotto
rispetto alle previsioni. Anche ad occhio emerge come la "qualità
totale" si regga so-stanzialmente sul lavoro vivo’.
4. La Puglia: quasi un laender tedesco
"Qual nuovo Land chiamato Puglia" titolava Affari e
Finanza di qualche mese fa dedicando un’intera pagina al
"sorprendente"arrivo di investimenti industriali tedeschi nella
regione . "Il capoluogo pugliese è diventato il primo distretto di
industrie tedesche in Italia.Per numero di addetti, fatturato e presenze, la
zona industriale barese ha ormai superato Verona e il mitico Nordest "
annunciava l’inserto economico della "Repubblica"8.
Dei 38 casi di Investimenti Diretti Esteri (IDE) avvenuti
nel Meridione negli "anni dell’Ulivo" (’96-’98), la maggior parte -
18 per l’esattezza - sono sta-ti realizzati in Puglia, 8 in Campania, 7 in
Sicilia e Sardegna e 5 in Abruzzo. Più delle metà sono multinazionali
provenienti da paesi dell’Unione Europea, Germania soprattutto. Del resto
"l’arrivo dei te-deschi" era stato sollecitato dai due leader
"germanofili" dell’Ulivo, Prodi e Ciampi.
Effettivamente, negli ultimi due anni, i tedeschi sono
arrivati. La Getrag, il colosso che produce cambi per automobili (ma non per
le Fiat) si è insediato con un nuovo impianto che - a regime - dovrebbe
occupare 850 lavoratori.
Ci sono poi la Linde (carrelli elevatori) che ha acquisito
la vecchia Om Fiat; la Bosch che ha rilevato l’impianto della Allied Signal
(apparati frenanti per auto); la Bilfingher Berger (costruzioni) che sta
costruendo un impianto per la decoibentazione. Da anni è inoltre attiva la
produzione di lampade fluorescenti della Osram. Ma sono arrivati anche gli
americani della Owen Illinois (vetro) che hanno rilevato la Avir, la
statunitense Eds (che ha visto Bari "battere" Barcellona e Praga
come sede per l’investimento) e i cinesi/taiwanesi del colosso Evergreen (gli
stessi che hanno messo le mani sul porto di Gioia Tauro) che vogliono
investire 250 milioni di dollari sul porto di Taranto`’.
Come mai questo boom di investimenti esteri in Puglia? Non
ci avevano sempre minacciato che "gli stranieri se ne vanno o non vengono
ad investire in Italia"? In realtà la micidiale combinazione di
flessibilità lavorativa introdotta dalle nuove leggi sul lavoro, bassi salari
e finanziamenti pubblici, consente alle piccole e grandi multinazionali di
trovare un ambiente ideale per i propri investimenti.
Prendiamo ad esempio il caso della Getrag. Sui 373 miliardi
di investimenti per il nuovo impianto (450 se verrà costruito anche il centro
ricerche) inaugurato il 18 novembre alla presenza del ministro Ciampi, la
metà sono finanziamenti pubblici, il che non è irrilevante.
Inoltre il presidente della Getrag, Tobias Oegenmayer ci ha
tenuto a sottolineare che ci sono anche altri fattori convenienti: "dalle
infrastrutture (auto-strade, areoporto, ferrovia) all’abbondanza di manodopera
qualificata. Solo i porti lasciano a desiderare".
Ma c’è dell’altro. Gli impianti pugliesi funzionano 24 ore
su 24 e i dipendenti lavorano su quattro turni di sei ore per sei giorni la
settimana. In Germania il massimo sono tre turni spalmati su cinque giorni1’’.
Inoltre le deroghe ai contratti nazionali di lavoro previste con i contratti
d’area, i patti territoriali, i contratti di emersione etc., consentono alle
imprese straniere di utilizzare tutti gli strumenti della flessibilità del
lavoro: contratti formazione-lavoro; part time; contratti week end; contratti
a termine. Il risultato è una riduzione del costo del lavo ro fino al 30/35%
rispetto ai livelli nazionali. Gli sgravi contributivi introdotti dalla Legge
Finanzia-ria abbassano ulteriormente questi costi. Ma non è un privilegio
consentito solo agli investitori esteri, per la SATA (Fiat) di Melfi è così
da sempre. I lavoratori di Melfi percepiscono infatti sin dall’inizio un
salario inferiore a quello dei lavoratori Fiat degli altri stabilimenti. Ed è
stata questa "condizione" a convincere l’industriale Miroglio ad
aprire due stabilimenti in Puglia "invece di andare ad aprirli in
Cina".
Parallelamente a questa crescita di investimenti nel
Sudest, si sta verificando anche un adeguamento dei servizi finanziari e
infrastrutturali. Nel setto-re bancario, la concentrazione avanza a ritmi
note-voli.
Dai dati della Banca d’Italia, emerge che nel 1989 in
Puglia operavano 80 banche, nel 1997 era-no ridotte a 59 di cui 35 con sede
legale nella regio-ne. In compenso gli sportelli - tra il `97 e il `98
- sono passati da 1.095 a 1.122.
La banca principale resta la Banca del Salento i cui
ex-dirigenti appaiono abbastanza "integrati" con l’attuale governo
ed in cui sono andati a ricoprire incarichi di rilievo. La Banca del Salento
ha resistito finora a qualsiasi tentativo di acquisizione da par-te di altre
banche italiane. Mentre la più nota Cari-Puglia è stata assorbita da Banca
Intesa; la Banca Popolare Pugliese si è fusa con la Banca di Credito
Cooperativo e il Credito Emiliano ha lanciato un’OPA sulla Banca Popolare di
Andria (commissariata dalla Banca d’Italia).
Ma non sono solo i servizi finanziari a subire le
conseguenze di questa ridefinizione del modello del Sudest. Ad esempio i due
porti di Bari e di Brindisi, nononostante le lagnanze di qualche industriale
tedesco, hanno visto crescere il loro ruolo strategico di snodi portuali verso
i Balcani ed anche il movimento merci del `98 rispetto all’anno precedente.
5. Anche nel Sudest si sta imponendo il modello dei
distretti industriali
Ma la novità economica del Sudest non è solo quella del
ritorno degli investimenti diretti esteri. Infatti da alcuni anni intorno ad
alcuni poli produttivi di nicchia ed a basso valore aggiunto, si sono andati
aggregando dei veri e propri distretti industria-li del tutto simili a quelli
del centro-nord. Anzi, stiamo assistendo ad un fenomeno di delocalizzazione
"interna" con imprese del Nord e del Nordest che in-vestono nel
Sudest ed a una delocalizzazione "esterna" con una crescente
integrazione di filiera tra imprese del Nord, del Sudest e le loro filiali in
Albania, in Romania e nei Balcani soprattutto nel settore del tessile e delle
calzature. Risultato: all’abbattimento rilevante del costo del lavoro,
corrisponde un notevolissimo boom dei fatturati.
La Filanto, azienda tradizionale calzaturiera del
Salentino, nel 1992 ha aperto uno stabilimento in Albania con 700 dipendenti
in fabbrica e 3.000 a domicilio (tra cui come denunciato da un servizio del
"CorrierEconomia", manodopera infantile).
Obietivo del "patròn" Antonio Filograna è di
arrivare a 3.000 dipendenti a Tirana e dintorni. Nel 1993 i salari erano di
5.000 lek (circa 70.000 lire). Non siamo in grado di fornire i dati aggiornati
su a quanto corrispondano oggi i salari dei lavoratori Filanto oltre il Canale
d’Otranto.
Il meccanismo delle filiere è cresciuto notevolmente in
tutti gli anni `90 attraverso il boom della delocalizzazione estera delle
imprese italiane. Se fino a dieci anni erano soprattutto le grandi imprese ad
essere "internazionalizzate", l’apertura della frontiera dell’Europa
dell’Est ha portato migliaia di piccole e medie imprese a delocalizzare buona
parte delle proprie lavorazioni a minore valore aggiunto ed a integrarle nel
proprio sistema tramite un’organizzazione su filiere notevolmente sviluppata
negli ultimi anni.
L’ultimo Rapporto della Svi.Mez (curato dal Cer) sostiene
che questo processo "ha investito le regioni adriatiche più che quelle
tirreniche" e che la realtà emersa è quella di una
"specializzazione in settori a basso o medio valore aggiunto ma con
do-manda mondiale in crescita: abbigliamento, cuoio e calzature, mobili,
prodotti in plastica e, tra i settori a medio-alto valore aggiunto, produzione
di mac chinari e autoveicoli".
Dai dati di Prometeia emerge la notevole crescita del
valore aggiunto sulle esportazioni delle pro-vince del Sudest (esclusa l’area
foggiana) . L’integrazione di questa area nel sistema di filiere produttive ha
fatto sì che l’export non sia più un monopolio del Nordest e del Nordovest
del paese.
Secondo alcuni osservatori, in un distretto in crescita
come il Salentino convivono ormai due modelli: "il primo, consolidato
ma in via di esaurimento perchè fondato sulla figura dell’imprenditore
faida-te. La figura del padre-padrone come Antonio Filograna (il padrone della
Filanto); il secondo vero modello di svilupposi sta costruendo attorno
a piccole e medie imprese tessili e meccaniche che sono gioiellini tecnologici
e che stanno conquistando fette importanti di mercato in Italia e
all’estero" 11
Questi nuovi distretti industriali del Sudest si sono
andati costituendo all’inizio intorno ai "poli del divano" delle
Murge e di Santeramo-Matera che hanno tolto alla Brianza la palma di patria
del salotto; intorno al polo calzaturiero del Salentino e a quello più
piccolo di Barletta; al polo meccanico di Bari, al distretto della maglieria
di Andria-Corato-Canosa.
Fiori all’occhiello di questo modello di sviluppo del
Sudest sono le capofila di una filiera ormai consolidatasi nei distretti di
Santeramo e Modugno ovvero Natuzzi e Softline passate alla notorietà per la
loro collocazione nelle Borse di Wall Street e Londra rispettivamente. Ma
anche nel Molise c’è chi guarda ormai alla quotazione in Borsa della GTR di
Isernia (tessile/abbigliamento ma ora anche con attività nel settore
agro-alimentare). Il Gruppo Tessi-le Riunito sta infatti pensando di andarsi a
colloca-re nella Borsa di Milano ma non esclude quella di Wall Street entro il
2002. E’ chiaro che non siamo più in presenza dei padroni di dieci anni fa ma
di un capitalismo industriale sempre più legato al capita-le finanziario.
Sulla stessa lunghezza d’onda si sta muovendo Gioia del
Colle che tramite il Consorzio Sei, sta attivando un’area industriale per
attirare gli investi-menti e qualcosa (aziende come Eventi, Airplast. Aris)
sta già arrivando.
Infine occorre sottolineare la realtà rappresentata dai
contratti d’area (Manfredonia soprattutto) e dai Patti territoriali (Brindisi,
Taranto, Lecce, Foggia, Bari Nord-Ofanto, Murgia, Martina Franca).
In questi casi, il travaso di fondi pubblici a imprese
private comincia ad essere notevole e non corrispondente alla creazione di
nuova occupazione nella quantità e qualità necessari.
Il Contratto d’area di Manfredonia ad esempio, ha assorbito
già molti dei finanziamenti pubblici messi a disposizione (188 miliardi sui
334 previsti) di cui ben 175 sono stati consegnati a solo sei aziende - tre
del Nordest e tre foggiane - per avviare in-vestimenti occupazionali per 840
lavoratori "flessibili".
Il rilevante finanziamento pubblico alle imprese private,
getta un’ombra sui progetti governativi per il Meridione e per il sudest in
particolare. Ancora una volta si è scelto di finanziare il capitale e di
rendere subalterno il lavoro, anzi è la maggiore subalternità di questo
secondo in una situazione di elevata disoccupazione e frammentazione sociale
come il Mezzogiorno, a permettere alle imprese di ottenere un doppio
risultato: soldi pubblici, sgravi fiscali e contributivi e contemporaneamente
costo del lavoro inferiore e massima flessibilità della manodopera.
Il processo avviato con i contratti d’area, i patti
territoriali e i contratti di riallineamento, mira esplicitamente a
stabilizzare questa realtà.
6. Puglia: Sudest o "Far East"?
In questa euforia da investimenti nel Sudest, pochi o
nessuno sottolineano le condizioni di lavoro per i "beneficiati"
dalla nuova occupazione. Non è un caso che proprio la Puglia sia stata in
questi ultimi due anni il laboratorio dei "contratti di emersione"
cioè la legalizzazione del lavoro nero e sottopagato.
A novembre dello scorso anno, attraverso i "con-tratti
di riallineamento" che prevedono la legittimazione dei minimi salariali e
la sanatoria contributi-va per le imprese che decidono di uscire
dall’illegalità, in Puglia erano emerse circa 600 imprese del settore
tessile-abbigliamento (per un totale di 14.000 lavoratori) .
Una ricerca condotta dall’IRES per conto del CNEL, per il
settore tessile si è concentrata nel di-stretto di Lecce. La direttrice
dell’IRES ammette che "ad emergere sono state quelle aziende - di
piccola-media dimensione - che erano già in grado di sostenere salari non
troppo distanti da quelli previsti dagli accordi di riallineamento (più bassi
di quel-li previsti dal contratto nazionale, NdR). Viceversa" sostiene
ancora Giovanna Altieri "questo strumento non è stato fin qui capace di
far emergere imprese totalmente sommerse, cioè posizionate agli estremi della
catena produttiva del contoterzismo"13.
Due mesi dopo, un rapporto del Censis rivela che i
contratti di riallineamento hanno portato allo scoperto "solo" il
15% delle aziende dell’economia sommersa. Le altre - sostiene il Censis -
saranno costrette a chiudere o a ripristinare pratiche di illegalità. Ad
usufruire di questi contratti "sono state in realtà aziende non sommerse
ma che hannp approftittato della disciplina per sanare alcune irregolarità e
beneficiare del minore costo del lavoro" sostiene Maria Pia Camussi che
ha diretto l’inchiesta.
Secondo il Censis, il 70% dei contratti di riallineamento
è stato sottoscritto in Puglia (il 51% solo a Lecce), perchè in questa
regione "ci si trova di fronte a forme di distretto in cui le aziende
lavora-no per conto terzi in situazione di semi-sommerso con difficoltà di
distribuzione del prodotto e di aggancio ai mercati internazionali"14
Ma su questo strumento dei contratti di emersione- assai
discutibile nel merito e nel metodo - era intervenuto il veto della
Commissione Europea e del Commissario Van Miert che aveva accusato l’Italia di
"sussidiare le imprese" introducendo fattori sleali nella
concorrenza (sic!). Ovvero i salari da fame sono regolari purchè questi non
vengano regolarizzati dal governo e sanciscano una realtà di dumping sociale
che possa "distorcere" la competizione tra imprese. Essendo i
contratti di emersione corrispondenti alle regole dell’Unione Europea, il veto
di van Miert è stato ritirato a marzo.
7. Un "dettaglio" non trascurabile dell’economia sommersa
Il progetto di legittimare la "secessione reale"
tra il Meridione e il resto del paese nella condizione contrattuale e
normativa dei lavoratori, vorrebbe introdurre degli elementi di
"regolazione" in una situazione di illegalità diffusa sul piano
normativo, salariale, fiscale, contributivo. A questo progetto - che non ci
convince per le conseguenze che produce sul-la forza lavoro in Italia - si
contrappongono i modelli di "deregulation" confindustriale e
dell’Unione Europea. Il primo pretende dallo Stato "tutto e subito"
sul piano delle agevolazioni fiscali, contributive e sindacali, la seconda
appare interessata esclusiva-mente a non introdurre elementi distorsivi della
concorrenza delle imprese (al contrario è favorevolissima alla concorrenza
nel mercato del lavoro).
Questa apologia della deregulation confligge forte-mente
con una tesi - che ci sentiamo di condividere - sostenuta da un economista
come Giovanni Balcet quando sostiene che "L’esaltazione dell’anarchia del
mercato, conseguenza tipica della comune diffidenza in Italia nei confronti
dello Stato e di ogni regolamentazione, finisce paradossalmente per favorire
l’espansione delle rendite di monopolio di tipo mafioso. Il risultato ultimo
di una deregolamentazione incon trollata, in tale contesto, rischia di essere
non tanto una situazione di "meno Stato più mercato", ma piuttosto,
di "meno Stato, meno mercato, più mafie"’s
Un recentissimo rapporto della Lega delle Autonomie Locali
conferma per un verso quanto sostenuto da Balcet ma dall’altro rivela
pienamente la stretta connessione tra economia criminale e economia
capitalista denunciata da uno studioso svizzero come Jean Ziegler o da
studiosi italiani (costretti ad insegnare all’estero) come Vincenzo Ruggiero.
"La delinquenza segue lo sviluppo" commenta una
analisi del rapporto della LAL, comparsa sul So-le 24 Ore. Dal rapporto emerge
infatti che l’attività criminale cresce lì dove cresce la ricchezza e non
viceversa. Non è allora casuale che la Puglia abbia strappato la palma della
"criminalità" ad altre regioni meridionali meno in crescita’6.
Questa stretta connessione tra economia illegale e crescita
economica di una regione, si evince anche dal rapporto curato da Prometeia da
cui emerge che in questi anni la crescita dei consumi nelle città pugliesi
sia stata in realtà superiore alla crescita dei redditi, nonostante che i
redditi ufficiali superino i consumi, cioè esistono redditi
"sommersi" che con-sentono consumi più alti. La componente
extra-legale di questa connessione è elevata.
8. Un modello fondato sul dumping sociale
In questi mesi il vero dato che sta emergendo è da un lato
il tentativo di legittimare l’introduzione delle gabbie salariali utilizzando
pretestuosamente la situazione "di fatto" esistente nel Meridione,
dal-l’altro quello di procedere dopo la sanatoria concessa agli
"imprenditori neri emersi" ad una sorta di dumping contributivo e
fiscale definitivo per chi opera nel Meridione.
Dentro questo "spazio" si sono gettate anche le
agenzie del lavoro interinale che, se fino ad oggi si erano limitate a gestire
il mercato del lavoro in affitto soprattutto nel Centro-Nord, adesso si stanno
impiantando anche nel Meridione con un attenzione particolare alla
Campania....e alla Puglia. Il "caporalato legale" introdotto dal
Pacchetto Treu potrà così cornpetere con il "caporalato illegale e
tradizionale" che caratterizza da decenni il Meridione ed in particolare
il Sud-Est.
Per Attilio Donadoni, presidente dell’agenzia Italia Lavora
" il Mezzogiorno potrebbe diventare in un fu-turo non troppo lontano un
secondo Nord-Est". Maura Nobili, direttore generale della agenzia
Manpower è esplicita: "Campania e Puglia sono andate ben oltre le
previsioni. A Bari abbiamo registrato punte di 400 avviamenti al giorno...è
che al Sud siamo pieni di con-tratti week end e va molto forte il part
time".
Entusiasta della Puglia è anche Deborah Penco,
responsabile della selezione per l’agenzia Adecco " A Bari, città dove
abbiamo al momento 250 lavoratori in missione (sic!) c’è una forte richiesta
di operai specializzati che non sempre si riesce a soddisfare, per questo
motivo partirà a giorni nelle aule del Politecnico un nostro progetto di
assunzione e formazione"’7
Una volta legittimata questa situazione, si è messo in
moto un meccanismo che non conosce più li-miti. Questo - ad esempio - quanto
si evince dalle parole di Francesco Rosario Averna, del direttivo della
Confindustria quando chiede di "sperimenta-re" - proprio nel
Mezzogiorno - "dove i tassi di disoccupazione sono tripli rispetto al
resto del paese e dove il sommerso accoglie forme di flessibilità ben più
gravi e inaccettabili, una normativa più elastica sui licenziamenti
individuali....che possa essere estesa a tutto il paese"’8.
Il progetto è quello di mettere in competizione il costo
del lavoro del Meridione con quello delle altre zone a basso salario a livello
internazionale ma anche con il costo del lavoro nel resto del paese. Lo stesso
ministro Bassolino si è sentito in dovere di sottolineare che il modello di
sviluppo per il Meridione non può essere quello della "Romania o
del-I’Albania"9.
Il Sole 24 Ore, segnala infatti con ammirazione
l’atteggiamento degli amministratori di Andria, il centro del nuovo distretto
della maglieria " Da tempo, le autorità politiche della città stanno
cercando di creare un consorzio che dia più visibilità a questa parte
dell’industria pugliese che esporta in tutto il mondo e i cui costi sono
propabilmente paragonibili a quelli del Far East (quello asiatico,
Sic!)""
Dunque la tesi secondo cui il Sudest italiano poteva
entrare in competizione con le aree a schiavitù industriale dell’Asia trova
sostenitori nella pratica. Ma non c’è solo questo. Le nuove norme sul mercato
del lavoro, consentono infatti di sperimentare nel Meridione tutto il
ventaglio delle "flessibilità possibili" sul piano lavorativo e
salariale senza alcuna opposizione da parte del sindacato. Lo prevede per tre
anni la legge che ha introdotto i "con-tratti d’area" ma lo rivela
la cultura che è stata fatta propria anche dai responsabili sindacali del
Sudest trasformatisi in veri e propri "sindacalisti asiatici" (ma
non certo come quelli combattivi della KCTU coreana, del KMU filippino o del
Zenroren giapponese).
"Discutiamo di ogni forma di flessibilità, ragioniamo
sui salari, anche a costo di rischiare l’impopolarità" dichiara il
segretario della CGIL leccese Sergio Tolomeo "ma a condizione che chi
vuole essere imprenditore deve farlo seriamente, muovendosi sul mercato nel
rispetto delle regole"21. Ma se le regole consentono orari di lavoro più
lunghi, sa-lari inferiori, flessibilità delle mansioni, divieto di
contrattazione sindacale per tre anni, cosa rimane da "contrattare"?
E se le condizioni sono queste perchè, delocalizzare nelle turbolente
Albania e Romania o nella lontana Asia? Il Sudest italiano, novella Taiwan del
Mediterraneo, ha raggiunto la soglia della competitività.