Il movimento dei lavoratori e la nozione storica di “egemonia”
Alessandro Mazzone
Fuoriuscita dal capitalismo e configurazione del soggetto di classe
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I. La nozione di “egemonia” entra nella discussione
del Movimento operaio all’inizio del secolo XX. Essa è legata strettamente
alla trasformazione imperialistica della borghesia, al fatto dell’imperialismo
moderno e al problema che esso poneva alla classe operaia, ai partiti
socialisti, ai sindacati, ma anche a tutti i democratici, sia nelle metropoli
imperiali che nei territori e Paesi dipendenti. Questo problema si può
riassumere in breve. Nella fase imperialistica le borghesie “centrali”,
metropolitane, tendono a diventare oligarchie che detengono il potere economico,
finanziario, politico-militare sul “loro” popolo e su quelli dipendenti. Non
ci si può aspettare che esse portino avanti (se non costrette) trasformazioni
democratiche, che oltretutto andrebbero a vantaggio della classe operaia
organizzata. Le borghesie “periferiche” sono in genere troppo deboli per
perseguire quelle trasformazioni, per attuare la “rivoluzione
democratico-borghese” nei loro Paesi. Così, l’epoca delle rivoluzioni
democratico-borghesi appare conclusa. Ma l’avanzamento democratico,
multiforme e vario che possa essere nel globo che l’imperialismo sta
unificando, è ben altro che formula politico-istituzionale! Senza la “democratizzazione
delle masse” (A. Labriola, 1895), senza le “condizioni fondamentali di
civiltà” (Lenin, 1921 e fino alla fine) non si può pensare a una prospettiva
socialista, o anche a un’alternativa all’oppressione e alla guerra che si
sta preparando. Alla base del problema della strategia, su cui si
scontrano e si dividono i socialisti europei all’inizio del secolo XX (“programma
massimo” o “programma minimo”, rivoluzionari e riformisti, ecc.), si
manifesta una questione più profonda, di orientamento nel mondo di oppressione,
militarismo, guerre che lo sviluppo imperialistico del capitale ha creato.
È un problema di continuità obiettiva delle trasformazioni
democratiche. Non si tratta solo dei “diritti”, ma soprattutto della
capacità di esercitarli, di farne vita effettiva di grandi masse, dalla
libertà di movimento ai diritti politici, dall’istruzione alla previdenza
sociale, alla sicurezza di vita per tutti i lavoratori. Solo con l’esercizio,
la pratica quotidiana e diffusa dei diritti in tutte le sfere di vita, e con l’acquisto
della cultura e della scienza e tecnica moderne, le plebi incolte e
superstiziose possono emanciparsi. Il 1914 mostra, anche e proprio nella “civilissima”
Europa: chi non è emancipato (e cosciente e organizzato abbastanza) diventa
carne da cannone, massacrerà i suoi fratelli di classe, e sarà massacrato.
Ma la questione è più generale e più profonda ancora. Lo
sviluppo complessivo della società pone le basi materiali della alta
produttività del lavoro (“fordismo”), dell’integrazione della scienza
nelle forze produttive, della cultura non più riservata a pochi. Nello stesso
tempo, si realizza quel “mercato mondiale”, forma capitalistica dell’unificazione
del genere umano immanente, secondo Marx, alla dinamica interna del Modo di
produzione capitalistico. Ma si realizza nella figura della spartizione
del globo in sfere d’influenza rivali, e di dominio violento e spietato sui
popoli “arretrati”, con forme varie di lavoro coatto, peonato, e massacri
sistematici, fino al genocidio (il Congo paga la “civiltà” portata dall’Europa
con la scomparsa di circa 3/4 dei suoi abitanti).
Ma chi potrà portare le conquiste della produzione di
ricchezza, della scienza, della cultura, alla loro destinazione divenuta
materialmente possibile, quella di essere fondamenti e strumenti dello
sviluppo democratico nel suo senso vero e pieno di sviluppo di capacità, di
potenzialità umane, per le masse lavoratrici, e in prospettiva, per tutti? Chi,
quale classe? Non certo più la borghesia, imperialista e oligarchica, o debole
e dipendente. Non la maggioranza contadina della popolazione, nelle “periferie”,
ma anche in alcuni Stati del “centro”, come la Russia e l’Italia, dispersa
nelle campagne e per lo più analfabeta, immobile nella ripetizione di modi di
vita secolari, o destinata presto o tardi all’espulsione dalla terra con lo
sviluppo dell’agricoltura capitalistica. Per la classe operaia, invece, la continuità
dello sviluppo democratico è non solo difesa, sindacale e anche politica,
delle sue condizioni di lavoro e di vita nelle varie fasi dello sviluppo
capitalistico (prima, durante e dopo il “fordismo”, NB!) - ma anche
tendenza alla realizzazione in lei stessa delle conquiste produttive, culturali,
scientifiche, in una parola, dell’elemento positivo della civiltà moderna. La
continuità dello sviluppo democratico non è qualcosa di formale, non è
solo questione politica, non si riduce alle forme istituzionali, anche se le
comprende. Essa è sviluppo di civiltà, e della sola forma di civiltà che il
capitalismo, diventato sistema imperialistico, ha insieme reso possibile
storicamente, e ora blocca. L’unità storica di democrazia e socialismo è -
all’inizio del ’900 - percepita da filosofi e sociologi conservatori (da
Pareto a Gentile, in Italia). Nietzsche aveva esteso la “rivolta delle masse”,
destinate per natura a esser schiave, fino comprendervi il Cristianesimo.
Fioriscono teorie dell’irrazionalismo e della violenza, il “progresso”
diventa oggetto di dileggio. Ma è al livello sostanziale che la violenza e la
negazione della democrazia, anche in Europa, vengono attuate su scala inaudita,
con la guerra del 1914-18.
Si dimentica troppo spesso che in questo modo, all’inizio
del secolo XX, erano poste del condizioni del dramma, che continua ancora ai
giorni nostri con la minaccia all’ecosistema, lo sterminio per fame e malattia
in un mondo di risorse abbondanti, la guerra come soluzione ricorrente, la
segmentazione della classe operaia, crescente di numero ma disorganizzata, la
trasformazione autoritaria delle forme politico-istituzionali, ecc. ecc. -
Recuperare la continuità dello sviluppo democratico, ricostituire un
soggetto che se ne faccia portatore, e che può solo essere un soggetto di
classe - in queste formule non si riassume forse il nostro problema, all’inizio
del secolo XXI? Ebbene, esso, considerato nel senso più ampio, è un problema
di egemonia, come si vedrà.
All’inizio del ’900, la nozione di egemonia è legata
alla presa di coscienza della trasformazione monopolistica del capitale, allora
soprattutto nella forma di “cartelli” e trusts nell’industria di
base. Questa nuova fase della produzione capitalistica portava con sé la
prevalenza dell’esportazione di capitali in Paesi “nuovi” sulla
esportazione di merci tipica della face precedente (l’Inghilterra “fabbrica
del mondo”, nella prima metà dell’800), e la trasformazione dei grandi
Stati-nazione in centri di dominio diretto e indiretto su tutto il resto del
globo. In pochi decenni, l’Africa viene spartita in colonie inglesi, francesi,
poi anche tedesche e belghe (il Congo), l’Asia sudorientale tra Francia, Gran
Bretagna e Olanda (che “modernizza” il vecchio impero commerciale in
Indonesia); si prepara lo smembramento e spartizione della Cina, gigantesco
bacino di mano d’opera a buon mercato; la Russia zarista conquista l’Asia
centrale, e si scontra (1905) con il nascente imperialismo nipponico. Meno
visibile sulle carte geografiche, ma determinante, è il passaggio dal
capitalismo di concorrenza ai grandi trusts industriali e bancari negli
USA, che fu più rapido che in qualunque altra parte del mondo. Poco più di
vent’anni dopo la guerra di secessione americana, e quando il sistema delle
piantagioni coltivate da schiavi durava ancora in Brasile e a Cuba, l’America
latina, tradizionale sfera d’influenza commerciale britannica, vide arrivare
in forze il nuovo dominatore yankee, che mette le mani direttamente su
Cuba, Portorico e le Filippine (guerra del 1898 contro la Spagna).
Tutto questo implicava anche una nuova figura dei
rapporti di produzione capitalistici. Il rapporto di produzione fondamentale,
quello dello sfruttamento del lavoro salariato, naturalmente rimaneva. Ma, in
primo luogo, il tasso del profitto veniva sempre più a integrare i
profitti abbondanti tratti dall’investimento estero, dal saccheggio delle
colonie, dalle rendite finanziarie di prestiti privati e pubblici a Stati meno
“moderni” (la Russia, p. es.). In secondo luogo, non era più
necessario sfruttare all’osso (cioè mediante superlavoro, lavoro minorile
senza limiti, e fino alla riduzione pericolosa dell’aspettativa di vita
della massa della popolazione operaia, scesa al di sotto dei 30 anni in
Inghilterra verso il 1820) la popolazione lavoratrice metropolitana,
o almeno la sua parte più qualificata e “preziosa” per il funzionamento del
sistema. In terzo luogo, si veniva costituendo (già allora) un gerarchia
di Stati entro il sistema mondiale imperialistico. Si facevano via via più
stretti i legami tra le metropoli e le “periferie” o “semiperiferie”,
che allora erano colonie vere e proprie oppure territori a statualità
indipendente (America latina, soprattutto), ma dipendenti economicamente dal
capitale finanziario dominante l’intero sviluppo a partire dai centri
imperiali.
Il problema dello sviluppo economico in genere, ma anche
dello sviluppo politico, civile, e generalmente umano per l’immensa
maggioranza della popolazione del globo, si poneva ormai nell’ambito
complessivo del dominio universale dell’oligarchia capitalistico-finanziaria,
attraversata dalle rivalità interimperialistiche, ma anche dal conflitto tra
il dominio stesso e lo sviluppo della riproduzione sociale in forme moderne,
capitalistiche, che veniva esportata, col capitale, nei Paesi dipendenti.
Era il “risveglio” - attraverso la tragedia dello sfruttamento, dello
sradicamento, dell’oppressione - della stragrande maggioranza dell’umanità,
dall’India alla Cina al Messico all’Egitto ecc. - trascinata violentemente
nel mondo moderno, costretta ad uscire dalle forme statiche di riproduzione
sociale complessiva caratteristiche dei Modi di produzione precapitalistici.
Perché questo “risveglio” arrivasse a prender la forma
di lotte anticoloniali vittoriose, sarebbe occorso ancora un cinquantennio di
resistenza, rivolte, repressioni sanguinose e spesso ignorate, in tre
continenti. La crisi del dominio imperialistico durante prima guerra mondiale,
con la rivoluzione russa, la fondazione dell’Unione Sovietica, l’Internazionale
comunista, poi l’indebolimento degli imperi europei nella seconda guerra
mondiale, la sconfitta del nazifascismo - furono gli antecedenti dell’indipendenza
politica, conquistata o concessa nelle ex-colonie, e di un loro sviluppo
economico e civile - possibile, certo non garantito o senza intoppi. [1]
Ma già nel 1921, con il proclama di Baku e la parola d’ordine
dell’unità dei proletari di tutti i Paesi e dei popoli oppressi, la
concezione strategica generale - e nuova - era quella dell’ egemonia di
classe, su scala mondiale e Paese per Paese, nel quadro della teoria
leniniana dell’imperialismo.
Una volta avvenuta la spartizione delle risorse, dei mercati,
dei popoli del globo in sfere d’influenza del capitale finanziario e delle sue
metropoli imperiali, e realizzata quindi una rete di dipendenze dirette e
indirette delle borghesie locali dal mercato mondiale così configurato, non era
più pensabile che le borghesie dei Paesi colonizzati, assoggettati o “periferici”
potessero percorrere la via “classica” (olandese, inglese, francese) delle
rivoluzioni borghesi: prima, instaurazione di rapporti di produzione
capitalistici distruggendo quelli precedenti, e realizzando l’egemonia
borghese nelle strutture economiche, giuridiche, scientifiche della società
civile, poi, conquista del potere politico e costruzione di Stati
moderni. Le borghesie “periferiche” erano in genere deboli o subalterne [2] economicamente, povere di tradizioni democratiche, povere anche di
quadri intellettuali, professionali, scientifici. Culturalmente,
scientificamente, e per la tecnica, non potevano che guardare al “centro”,
alle metropoli imperiali.
All’inizio del XX secolo, la più numerosa di queste
borghesie “non classiche”era quella russa.
In Russia, il capitalismo si sviluppava rapidamente, anche se
forse l’80% della popolazione era ancora rurale. Ma nello stesso tempo, la
finanze e la grande industria russa (isola non grande, ma moderna, nel mare
contadino e artigiano) dipendevano da capitali stranieri (anche il bilancio
dello Stato russo era legato ai prestiti di banche britanniche e francesi). La
Russia degli zar era a sua volta un immenso impero, con più di 100 nazionalità
non-russe dominate; ed era una autocrazia, senza diritti politici, né diritti
civili, di fatto, per la stragrande maggioranza della popolazione. Da mezzo
secolo, la grande letteratura russa era - con poche eccezioni - patriottica,
cioè mirante a far riflettere i suoi lettori russi su se stessi e la loro
condizione, e ad aprire così le vie per una trasformazione, che doveva essere
emancipazione, e implicava l’abbattimento dell’ultimo e più dispotico ancien
régime.
Ma con la rivoluzione del 1905, e dopo di essa, la borghesia
russa aveva mostrato la sua incapacità di trasformazione rivoluzionaria. Il
decrepito e barbarico regime autocratico restava - e i capitalisti russi se ne
accomodavano tanto più facilmente, in quanto gli anni seguenti furono di
espansione economica, e di repressione poliziesca del movimento operaio.
Da questo nodo di sviluppi contraddittori, in un Paese che
era per metà “imperiale” e per metà “periferia”, epitome per un verso
dell’unificazione capitalistica del genere umano come sviluppo ineguale,
e unico per altro verso perché unico era l’insieme di contrasti, di
grandezza e miseria, di umanità e di barbarie, di arcaismi di massa e di
consapevolezza di minoranze illuminate che gli eran propri, nasce la
problematica dell’egemonia negli scritti di Lenin dal Che fare?
(1902), in poi.
Dapprima, riguardo alla Russia stessa. Solo il proletariato
avrebbe potuto prender la testa della lotta per l’emancipazione - cioè per la
democrazia, il suffragio universale, i diritti civili e politici, l’istruzione
obbligatoria universale e gratuita, la trasformazione della cultura di massa in
forme razionali e moderne, abbattendo le superstizioni diffuse, l’oscurantismo,
l’inerzia. Ossia: solo il proletariato, non più la borghesia, può prendere
la testa della rivoluzione democratico-borghese.
Questa è l’origine della teoria dell’egemonia. Essa si
sviluppa poi in Russia (la NEP), ma soprattutto nella teoria e nella pratica
della III Internazionale. In condizioni diversissime, dalla Cina al Messico al
Brasile [3], ma poi anche in
Europa con i fronti antifascisti (dal 1935), si pone il problema politico delle alleanze.
Ma queste alleanze hanno portata strategica, non tattica soltanto, e sono alleanze
di classe, con quelle frazioni della borghesia o della massa contadina che
sono disponibili alla difesa antifascista, alle conquiste democratiche, allo
sviluppo nazionale autonomo, e quindi, prima o poi, apertamente
antiimperialista. Dopo lo scioglimento della III Internazionale (1943), e la
vittoria sul fascismo, l’alleanza strategica con le “borghesie nazionali”
diventa questione centrale del movimento di liberazione delle colonie ed
ex-colonie, dall’Indonesia all’Iran, all’Egitto “nasseriano”, più
tardi ancora all’Etiopia. - Qui non possiamo discutere i limiti (e gli errori)
di queste politiche [4].
La concezione, e anche la percezione della realtà, dello sviluppo economico,
civile, umano, che era a lor fondamento, rimase, almeno fin verso il 1970,
quella della strategia di classe, della promozione dello sviluppo civilizzatorio
che il capitalismo porta con sé, ma, dovunque possibile, con la classe operaia
alla sua testa, e quindi come instaurazione, a lungo termine, di un confronto di
egemonia con l’imperialismo.-----
Noi sappiamo che l’imperialismo ha contrattacato e vinto in
gran parte. Nelle metropoli (riduzione delle garanzie sociali, smantellamento
del c.d. “Stato del benessere”, svuotamento delle istituzioni politiche
democratiche, mutamento della funzione dello Stato [5]) e nelle periferie assoggettate o ricolonizzate in forme nuove.
Vuol dire questo che si è perduta una battaglia nella lotta egemoniale
per lo sviluppo democratico complessivo, (per la
democrazia-che-sbocca-nel-socialismo, in termini un po’ obsoleti)? O che si è
entrati in una fase storica completamente, qualitativamente nuova? E come
lavorare per la ricostituzione di un soggetto democratico, progressivo, o forse
rivoluzionario, nel tempo nostro?
Queste, come tutti sappiamo, sono questioni pratiche,
brucianti, presenti. Formularle in modo adeguato, però, significa né più né
meno che orientarsi nel mondo di oggi. Si sosterrà qui che si tratta di
questioni di egemonia, e di lotta tra egemonie, cominciata con la fase
imperialistica dello sviluppo capitalistico, e che dura tuttora, anche se,
ovviamente, in condizioni mutate. Cominciamo col ricapitolare la nozione teorica
di “egemonia” (riprendendo il filo dal massimo teorico dell’egemonia come
rapporto di classe, Antonio Gramsci).
II. La nozione di “egemonia” riguarda il processo
della vita sociale in tutti i suoi aspetti, cioè tutta la riproduzione
sociale complessiva. La produzione e riproduzione degli uomini associati è
bensì determinata dal rapporto di produzione fondamentale (nel Modo di
produzione capitalistico, quello di sfruttamento, cioè del rapporto
Capitale/Lavoro), ma è attuata attraverso tutte le attività
vitali degli uomini associati - attività lavorative non solo, ma anche di
educazione, insegnamento e apprendimento, di cura del corpo e della mente
(igiene, sanità, sport, riposo), di produzione culturale, scientifica,
artistica ecc. (E, naturalmente, la attività biotica, compresa la riproduzione
sessuata, che è sempre storicamente determinata.)
In una società di classe, questo complesso di attività può
tendere a riprodurre, e dunque a perpetuare, il rapporto fondamentale di classe
nel mondo moderno, capitalistico, il rapporto Capitale/Lavoro - oppure, al
contrario, a metterlo in crisi, a superarlo, quando la Riproduzione sociale
complessiva e il suo fondamento, la riproduzione materiale del corpo sociale
mediante il lavoro, entra in conflitto con il rapporto di produzione
fondamentale, e quindi con la configurazione di classe della società in
questione.
Ma va tenuto presente che si tratta di processi storici:
in altre parole, che stiamo parlando di forme di vita e di autoattuazione, o
si può dire, di manifestazioni “umane”, complessivamente
considerate, e via via divenute possibili. Operai, capitalisti, ma
anche ingegneri e Istituti politecnici per produrli, scienziati specialisti,
tecnici specializzati e Istituti tecnici o apprendistato per produrli, medicina
sperimentale, ecc. ecc. non sono pensabili al di fuori o “prima”
della produzione capitalistica. E così non lo sarebbe la scuola di base
obbligatoria e universale, che diventa indispensabile quando la popolazione
lavoratrice deve almeno saper leggere, scrivere e far di conto. Neppure avrebbe
senso immaginare una società feudale, o schiavistica, con diritti civili
(libertà di movimento, di contratto, di compravendita) per tutti, o
addirittura diritti politici, “volontà popolare”, suffragio universale e
via dicendo. Tutto questo divenne pensabile, e poi possibile, in società
plasmate dal Modo di produzione capitalistico e dal suo sviluppo - nel mondo
moderno, appunto.
In secondo luogo, va tenuto presente che egemonia è
un processo, anzi una figura determinata del processo sociale complessivo: non
uno stato immobile, e neppure un equilibrio stabile. Perciò essa importa sempre
una tensione, una tendenza, e un contrasto. Il contrasto può essere con
resistenze alla penetrazione del rapporto di produzione dominante, e quindi dei
modi di vita che esso viene plasmando - come nel caso delle masse contadine nell’Europa
dell’800 e di parte del ’900, che non si oppongono attivamente al
capitalismo, ma tendono a conservare forme economiche, e forme di lavoro e di
vita, ai margini del mercato [6]. Oppure può trattarsi di
contrasto attivo, di lotta tra classi dominanti, o di lotta per affermare la
loro egemonia su quelle subalterne. O, ancora, di lotta “dal basso”, che ha
la prospettiva di nuovi rapporti di produzione e riproduzione complessiva, e
quindi di una nuova egemonia. Una egemonia (anche plurisecolare, come quella
della borghesia inglese o francese) non è mai immobile.
Fatte queste osservazioni, possiamo fissare preliminarmente
una nozione astratta di “egemonia”. Egemonia è un rapporto di
classe. In quanto in tutti i rapporti sociali (ossia nella produzione e
riproduzione di concreti esseri umani, dunque anche nelle istituzioni in cui
questi operano ed esistono) prevale l’instaurazione, il perfezionamento, la
riproduzione, la perpetuazione del rapporto di classe fondamentale
(Capitale/Lavoro nel nostro caso), la classe egemone vede attuate e
conservate le condizioni della sua esistenza come classe, del suo sviluppo, e,
se vi è rapporto di sfruttamento, dello sfruttamento del lavoro delle classi
subalterne. Nel quadro di questo sviluppo, si attuano, conservano e modificano
anche le condizioni dell’esercizio del potere politico, culturale, ideale
della classe egemone, esercitato in tutto il corpo sociale.
Questa nozione di “egemonia” è astratta, come si
è detto (e data qui preliminarmente, appunto per fissare le idee da sviluppare
di seguito, e i termini indispensabili [7]).
Lo è, perché necessariamente tralascia i processi storici concreti, in
cui una egemonia di classe si realizza, in rapporto e scontro con altre classi,
e ogni volta in contesti economici, politici, culturali, istituzionali ben
determinati (p. es., nella Rivoluzione francese, nel Risorgimento italiano;
nello sviluppo prima commerciale, poi industriale, poi imperiale dell’Inghilterra
tra ’600 e primo ’900; ecc.). In quanto nozione del rapporto e processo di classi,
“egemonia” è prima di tutto una nozione storica, non immediatamente
politica.
Da questo discendono alcune conseguenze.
1. “Egemonia” non si riduce a “potere”, anche se
implica potere, anzi molte forme di potere: quello che si esercita come
costrizione, con la violenza pubblica [8], quello che è “costrizione
silenziosa” (economica); quello che è influenzare, sì, ma nel senso
più lato e inevitabile (poiché ogni educazione, ogni creazione e offerta di
orizzonti di esperienza e di pensiero, influenza gli allevati, educati,
promossi, aiutati, nel bene e nel male); e che è diverso dal potere che opera
come propaganda, e oggi, manipolazione e anticultura sistematica; ecc.
Ora: arrivare a detenere il potere (politico, di Stato) è un
risultato di lotte (di classe, cioè egemoniali); detenerlo ed
esercitarlo, è normalmente una parte dell’attuazione o dell’esercizio
dell’egemonia.
Tuttavia: non si dirà che una classe è “egemone” perché
“ha il potere”! [9] Questa espressione è priva di senso. Prima di tutto, il
potere, politico o di Stato p. es., non è esercitato da una classe, ma
attraverso istituzioni, gestite da individui in carne ed ossa. Questi operano,
coscientemente o no, per conto, e talvolta anche in nome, di una classe. La
classe come tale non è affatto una somma di individui, ma una totalità di
rapporti, un “insieme di rapporti sociali” [10].
Tra questi rapporti ve ne è uno fondamentale, il
rapporto di produzione. Si sa bene che, nel mondo moderno, questo è il rapporto
di Capitale/Lavoro. Ma molte discussioni astruse sarebbero evitate, e si
avrebbero più chiare le idee, ricordando che quel rapporto è fondamentale
semplicemente perché esso concerne il fondamento - la produzione di “beni”
(in forma di merci cariche di plusvalore, e in cui il capitale si realizza,
certo): e che senza questi “beni” non ci sarebbe società né vita di
uomini. [11] Ricordato questo, allora,
2. la corretta comprensione di “egemonia” permette di evitare l’ economicismo.
Tutta l’annosa discussione sulla misura o il modo in cui la
base” determina la “sovrastruttura” è viziata fin dall’inizio da un
fraintendimento della teoria marxiana. Se dico che “base” è “forze
produttive + rapporti di produzione” - e infatti le forze produttive, “umane”
e “naturali”, ma mediate dal lavoro umano, non esisterebbero al di fuori dei
rapporti di produzione entro cui operano e si trasformano - ho già detto che il
rapporto di produzione fondamentale può venire sorretto, garantito, bloccato,
modificato da quelle “altre” attività umane, in cui si realizza la
Riproduzione sociale complessiva, e che costituirebbero la “sovrastruttura”.
La quale non può prodursi né esistere e operare se non c’è... quel fondamento,
che se proprio vi piace, potete anche chiamare “base”, purché la
metafora edilizia (o geologica) non vi induca a immaginare che la “base” e
la “sovrastruttura”, nei suoi vari “strati” o “piani”, sian cose
ferme, ognuna per sé, o agenti separatamente l’una sull’altra, a “strati”.
Questo è proprio impossibile. [12]
3. Si dice spesso che un partito, o talvolta un gruppo, o
anche un’ideologia o un modo di vita, è “egemone” in una condizione o in
una determinata società [13]: si
vuol dire che quel partito, o gruppo, o modo di pensare ecc., è prevalente, ed
esercita un potere, o anche una funzione di guida, su altri gruppi, partiti,
modi di vita ecc. - È compresa in questo l’idea di un contrasto, di una
competizione, e del prevalere di una parte su altre. Fin qui, bene - ma
soltanto fin qui. La nozione di modo di produzione, e quindi quella di
classi e di egemonia di classe, è logicamente a monte dei processi politici,
culturali ecc., che si instaurano nelle società di classe e attuano (o mettono
in forse) l’egemonia. Questa si realizza storicamente, configurando in
un processo lungo, per lo più secolare, tutta la vita associata, e dunque
creando un tipo di società. [14] - In quanto rapporto e processo di classe, la
nozione di egemonia è assai più vasta della sfera politica, culturale ecc..
Essa riguarda il complesso delle attività attraverso cui gli uomini di una
determinata società producono e riproducono la loro vita nell’ambiente
non-umano, ovvero “natura”, e quindi fondamentalmente, ma non
esclusivamente, mediante il lavoro produttivo in senso stretto. Con tutte queste
attività gli uomini associati producono e riproducono, in definitiva, sé
stessi. Perciò “egemonia” è categoria storica. Essa riguarda la
Riproduzione sociale complessiva, e in essa si esercita. Si attua dunque in una Formazione
economico-sociale (nella terminologia che risale a Marx), o in un segmento
di essa - come le singole nazioni o Stati sono oggi, nel mondo capitalistico,
segmenti, diversamente sviluppati e interconnessi, dell’unica Formazione
economico-sociale borghese, capitalistica.
4. Ma l’egemonia di una classe sfruttatrice non significa oppressione
della maggioranza sfruttata? Questo è un punto da trattare con attenzione. Si
sa che il sentimento dell’oppressione subita, se resta solo sentimento,
dà luogo a impulsi di ribellione e tendenze anarcoidi [15]. Ma di fatto, l’oppressione è percepita; e, quel che più conta,
esiste realmente. E allora?-----
Il sentimento dell’oppressione non si risolve nello “invidioso
confronto” con i più fortunati (J.M. Keynes), non è “risentimento” per
la propria sorte (M. Scheler), non si spiega col fatto che, a differenza di
quanto avveniva nella società tradizionale, preborghese, la massa della
popolazione è in grado di confrontare continuamente la propria condizione con
altre (B. Russell). Queste teorizzazioni appartengono al sociologismo povero,
che parte da astratti “individui” come dati, e poi li riferisce gli
uni agli altri - quasi che gli “individui” fossero pensabili prima e al di
fuori del processo sociale di cui sono, essi sì, i luoghi dell’azione.
Il “confronto”, caso mai, è tra le possibilità umane che, in una
data fase dello sviluppo storico, sono obiettivamente aperte e pensabili,
e solo perciò diventano anche più o meno confusamente, immaginabili.16
Queste possibilità umane esistono obiettivamente. Il problema non è se
esse siano attuabili “per tutti” (“tutti ingegneri”, “tutti medici”,
ma anche “tutti operai” è evidentemente fuori questione.) Ciò che ad esse
è comune obiettivamente è la realizzabilità materiale: p. es., oggi,
sarebbe possibile (in un Paese avanzato) ridurre drasticamente la giornata
lavorativa, garantire alloggio, istruzione, assistenza sanitaria. (Ci si torna
più avanti.) La realizzabilità materiale (le “risorse”, non solo
economiche ma anche di capacità, abilità soggettive) non è ancora,
beninteso, realizzabilità sociale, o politica - ma quella è condizione di
questa, è ciò che la rende possibile. Questo possibile obiettivamente
inerente a un dato grado di sviluppo umano, cioè sociale, è quello che G.
Lukàcs chiama “genericità” o “adeguatezza allo sviluppo del genere umano”
[16]:
adeguatezza che può realizzarsi, una volta raggiunta, con la
produttività del lavoro, la realizzabilità materiale, ma solo attraverso tutta
la vita sociale, dunque attraverso le lotte sociali, politiche, culturali, che -
in una società di classe - sono, nel loro complesso, come unità in
movimento, lotte egemoniali per la l’affermazione di quei rapporti di
produzione e di riproduzione sociale complessiva (di produzione e riproduzione
di uomini) che siano adeguati e conformi alla riproduzione e al potere della
classe che si pone come egemone, o che lo è già diventata.
Non si tratta dunque di negare o svalutare il sentimento dell’oppressione,
ma sì di intendere ciò che esso è. Come sentimento, esso è nell’animo dei
singoli; e non è ancora chiaro pensiero, né azione razionale. Confusamente, c’è
in lui la percezione del non attuarsi, in sé o in chi è prossimo, di quello
che “sarebbe umanamente possibile, se... le cose stessero altrimenti, se... l’oppressione
cessasse, se...”. Finché resta chiuso nel sentire, questo “se” può
arrivare al triste “dovrebbe essere” della coscienza morale, che si sa nel
giusto (“dovrebbe essere così, ma non è”) e contemporaneamente nell’impotenza
(“non è, anche se dovrebbe essere”) [17]. Ma
non esce dal “qui ed ora”, non diventa processo, pensiero-azione. Il
pensiero razionale e l’agire che è a lui adeguato, ed è suo, sono sempre
collettivi; diventano esperienza della contraddizione obiettiva, del lavoro e
della lotta per superare quel “sarebbe giusto, ma...” in cui la
coscienza astratta si blocca. Il pensiero, a differenza del mero sentire,
non può restar chiuso nell’animo mio, o uscirne come semplice grido e impulso
di rivolta. Esso esce fuori nel mondo degli uomini, è comunicazione e
linguaggio per definizione, si misura con gli altri (“discussione”), e con
le cose: è ragione che conosce e modifica il mondo. È, in generale, la forma
in cui si muove il mondo degli uomini, e perciò è obiettivo, e
storico [18].
Tutto questo va bene (dirà forse qualcuno). Ma (ecco l’obiezione)
questo pensiero razionale, collettivo, obiettivo, storico, hai appena detto
che diventa lotta per attuarsi, per costruire un mondo adeguato. E questa
lotta, che appunto non ha da essere sogno o mera rivolta - che
possibilità ha, in pratica?
5. A questa obiezione, una volta fatta, non si sfugge. E non
si può neppure cercar di aggirarla, predisponendo “in teoria” le condizioni
di un processo, che appunto è di lotta, e lotta storica, e non uno schema, o un
meccanismo ripetitivo. E allora? Allora - c’è l’ esperienza,
collettiva anche lei (manco a dirlo), che non permette di predire l’andamento
di questa lotta qui, ma ha insegnato e insegna. E qualche
conclusione teorica, sì, la permette.
Rivolta, si sa, non è rivoluzione. E non è neppure
transizione. “Transizione” a un’ altra formazione sociale vuol dire
transizione a un’altra situazione egemonica, all’egemonia di un’altra
classe, a rapporti di produzione diversi; e quindi, nel tempo, a modi nuovi
di produzione e di vita, per tutti i membri della società. Queste transizioni,
nella storia a noi nota, sono avvenute per lo più tramite rivoluzioni e cicli
di rivoluzioni, costituendo e ricostituendo nuovi blocchi storici [19], o
unità-in-movimento, più o meno stabili, di classi egemoni e classi subalterne.
Ma qualunque forma abbiano avuto quelle lotte, esse furono, in quanto capaci di
portare alla transizione, lotte egemoniali [20], che portavano a
instaurare una nuova egemonia di classe. Oppure non arrivarono a tanto - quando
si cercò di rompere l’egemonia della classe dominante, la si costrinse in
alcuni casi a un compromesso, la si spinse a modificare il blocco storico con le
classi subalterne, (come avvenne nelle fasi di crescita della borghesia prima e
poi del movimento operaio): e si trattò allora di conflitto tra un’egemonia
sussistente e una potenziale, o soltanto in fieri.
Opera qui un’altra distinzione gramsciana importante,
quella tra classe dirigente e classe dominante. Il primo termine
vale per una classe capace, nell’attuare le sue istanze, di realizzare anche
istanze di altre classi, pur subalterne - così la borghesia nella fase
espansiva e rivoluzionaria. Il secondo vale per una classe che è dominante
ancora, ma non più espansiva, non più capace di assimilare segmenti di altre
classi alleate o subalterne, e che tende a trasformarsi in gruppo privilegiato o
in oligarchia [21].
Si è detto che “egemonia” è una categoria storica.
Nelle rivoluzioni borghesi classiche (come l’ olandese e l’ inglese nel ’600,
la americana e più la francese nel ’700) le rivendicazioni antiassolutistiche
e antifeudali della borghesia si presentavano come affermazioni di diritti.
Diritti civili, tra cui: libertà di compravendita e di iniziativa per tutti,
che implicava distruzione dei vincoli corporativi e proprietà immobiliare
piena, cioè fine dei diritti-doveri di signore e servo sulla terra; libertà di
movimento delle persone, cioè instaurazione di un diritto inerente a-priori all’individuo,
indipendente dalla concessione di privilegi da parte dei detentori di
autorità [22], e distruzione dei privilegi stessi; con
questo, uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, e distruzione delle
giurisdizioni privilegiarie, d’ordine o di ceto. - Diritti politici: libertà
di religione, di manifestazione del pensiero, di stampa, di associazione;
diritto elettorale, ma non suffragio universale [23].
Facendo trionfare in tutto o in parte queste rivendicazioni,
che si presentavano come ideali “umani”, come “diritti dell’uomo”, la
borghesia apriva di fatto nuove vie di sviluppo e di autorealizzazione
anche ad elementi o frazioni delle classi subalterne [24]. L’accesso alla
proprietà borghese, cioè all’artigianato, alla piccola industria, al
commercio, collegati all’urbanizzazione, è stato per generazioni uno stimolo
potente di integrazione di frazioni consistenti di popolazione, e ciò in senso
obiettivo, cioè economico, e anche soggettivo. L’espansione economica
complessiva, portato della produzione capitalistica, permetteva ed esigeva nuove
imprese, nel commercio, nei trasporti, meno spesso nell’industria vera e
propria: se era ridicolo predicare agli operai “Diventate capitalisti!” (ma
lo si predicò), non pochi piccoli capitalisti, nell’’800 e ancora in parte
nel ’900, ebbero un nonno operaio. (Si parla sempre, qui, dei Paesi borghesi
“classici”, diventati poi metropoli imperialiste.) - Ancora: l’istruzione
pubblica apriva la via delle professioni a una minoranza di “capaci e
meritevoli”, che venivano integrati, talvolta nel corso di due-tre
generazioni, nel ceto medio borghese. Ancora, e più in generale: il capitale
non crea la scienza, ma la usa, e quindi la esige: la scienza è infinita, crea
linguaggi universali, e può (non: deve necessariamente)
contribuire a creare forme di linguaggio e coscienza universalmente umane.
In breve: la borghesia “classica” era una classe espansiva,
capace di integrare in sé elementi di altre classi, e di assimilarli. E fu,
nella fase pre-imperialistica, una classe progressiva: nel senso primario
e obiettivo, che lo sviluppo indefinito della produzione capitalistica aveva una
funzione civilizzatoria [25]: la generalizzazione della produzione di merci rompeva l’idiotismo
localistico, metteva gli uomini in contatto con un mondo più vasto, li spingeva
a cercare strade sempre nuove -sebbene queste strade, per i più, fossero poi
quelle dello sfruttamento spietato, ma nello sviluppo della produttività del
lavoro sociale. E nelle vicende politiche, fin verso il 1870: finché le
rivendicazioni antifeudali e di libertà abbattevano ostacoli all’espansione
capitalistica e all’egemonia borghese in tutte le sfere della società, e
non aprivano la porta, nella loro “contaminazione” con esigenze
democratiche, p. es. il suffragio universale, l’istruzione generale e
gratuita, al proletariato e alle nuove classi subalterne, la borghesia in
generale le portò avanti, le sostenne, e spinse il “popolo” a battersi per
esse.
6. Ma l’obiezione, giustamente, ritorna. E allora? - si
dirà. Tutto questo è acqua passata. Queste lotte egemoniali, i blocchi storici
che la borghesia ha costruito e rimodellato quando minacciavano di rompersi,
sono storia di ieri. Noi ne veniamo, e perciò è bene studiarle e capirle. Ma
ora? Quali prospettive può avere una lottaegemonialechenonmiria
instaurare l’egemonia della borghesia (progressiva in altri tempi, ma ora no
davvero...), ma rapporti di produzione e di vita che vadano al di là del
capitalismo in quanto fondamento dell’ egemonia borghese?
Qui la considerazione teorica, concettuale, può fare ancora
una deduzione, e un rimando.
La deduzione è questa: se, e nella misura in cui, le
lotte attuali e future prossime riusciranno a essere lotte per l’egemonia,
cioè per trasformare la realizzabilità materiale di nuovi rapporti di
produzione e di vita (che c’è, sostanzialmente), in prospettiva effettiva
dell’attuazione di questi rapporti (e dunque sia nelle cose, nelle
istituzioni economiche, civili, politiche, della formazione, che negli uomini,
nel loro modo di essere, di pensare sé stessi e gli altri, di agire
collettivamente) - allora queste lotte, e tutto quello che le prepara
nella conoscenza e nell’organizzazione, non saranno soltanto rivolta, o
resistenza nobile ma residuale, e simili, ma avvio alla transizione. Quanto
questo avvio sarà lungo, tortuoso, con quali processi rivoluzionari, e altri,
la deduzione concettuale non può dire. [26]-----
In secondo luogo, il rimando all’esperienza. C’è stata
una lotta egemoniale, non per l’instaurazione dell’egemonia borghese,
ma per il suo superamento, nel passato recente, in vari Paesi, e anche in
Italia? Certo che c’è stata, e si chiamava comunemente (fino agli anni ’70
circa) lotta per l’egemonia della classe operaia, nel secondo blocco
storico italiano recente, quello uscito dalla lotta antifascista,dal “Secondo
Risorgimento”, e dal compromesso di classe (solo e vero compromesso “storico”)
iscritto nella Costituzione della nostra Repubblica (Art. 1: “Repubblica
democratica fondata sul lavoro”).
L’Italia uscita dalla seconda guerra mondiale era un’epitome
del mondo di allora (come la Russia, mutatis mutandis, lo era stata all’inizio
del ’900). Era innanzitutto un Paese industriale, con un capitalismo avanzato,
ma con una semicolonia interna, il Mezzogiorno. Era poi un Paese in cui
la borghesia aveva abbandonato la sua funzione nazionale, perseguendo un
progetto di imperialismo subalterno (lo “imperialismo straccione” dell’inizio
del secolo, fino al c.d. “intervento” del 1915, e all’insensata “guerra
parallela” del 1940). Un Paese a sovranità limitata dal 1938, e la cui
sovranità era stata restaurata, in parte, grazie all’azione della classe
operaia nella Resistenza. Un Paese la cui borghesia cercò e trovò, dopo il ’45,
una nicchia nel nuovo mercato mondiale configurato dalla prevalenza industriale
e monetaria statunitense, basandosi prevalentemente sui bassi salari, piuttosto
che sulla ricerca e l’innovazione, salvo quella importata. E dove però la
borghesia, con il forte sviluppo industriale degli anni ’50 e ’60, e pur
continuando l’emigrazione di massa, seppe dare una grande risposta di classe
alla sfida della “unità degli operai dei contadini”, del Nord e del Sud,
svuotando le campagne e introducendo, entro certi limiti, un regime di alti
consumi e di protezione sociale. Quando questo regime fu di nuovo sfidato, alla
fine degli anni ’60, da lotte che si proponevano l’instaurazione di diritti sociali
per la sanità, l’alloggio, i trasporti, la previdenza, l’istruzione
pubblica e generale fino alle scuole superiori, insomma per una sicurezza di
vita di ogni lavoratore nella “Repubblica fondata sul lavoro”, e dunque per
l’apertura di prospettive di sviluppo umano quanto meno per chi volesse
e sapesse perseguirle [27] - quando, dico, queste
rivendicazioni furono poste e sembrarono per qualche tempo attuabili, vi fu chi
parlò di “introduzione di elementi di socialismo” nella vita della nostra
Repubblica, pur Paese capitalista (e imperialista-subalterno). Sbagliava?
Qui si tratta solo, per noi, di sviluppare la nozione di
egemonia e di lotta egemoniale [28]. La lotta politica può
modificare comportamenti collettivi, e ottenere cambiamenti nell’ordinamento,
nelle istituzioni pubbliche. Sancire dei diritti sociali non significa
ancora realizzarli nella vita di tutti e di ciascuno (come sappiamo anche troppo
bene): occorre per questo una grande forza politica, organizzativa, morale,
capace di indurre un cambiamento molecolare nella vita pubblica, una volontà di
servizio pubblico negli addetti, in alto e in basso, e uno spirito
pubblico democratico nell’ educazione, nella formazione specifica, nella
stampa, nei c.d. media, ecc. Supponiamo, per ipotesi, che anche a questo
si potesse giungere, nella fase di avanzamento democratico che sembrava aprirsi
verso il 1970 [29].
Questa ipotesi non si scontra senz’altro con i limiti che, continuando il Modo
di produzione capitalistico, sono posti in generale alla realizzazione di
diritti sociali. La borghesia ha potuto essere indotta a questa sorta di compromessi
storici, per es. in alcuni Paesi europei, nella fase c.d. “fordista”, e
della presenza di un sistema concorrente, il “campo socialista” (che si
presentava come uno dei “tre reparti” del movimento democratico mondiale,
gli altri due essendo la classe operaia dei Paesi industrializzati, e il
movimento di liberazione dei Paesi “periferici”). Ma certamente la
instaurazione piena dei diritti sociali, che appunto non sono, per la
forma della loro realizzazione, assimilabili ai “diritti civili” e “politici”
delle rivoluzioni democratico-borghesi classiche, non poteva non urtarsi, da un
lato con le esigenze del capitale in genere, dall’altro con tutte le forme
giuridiche, amministrative, di vita associata, che l’egemonia borghese aveva
instaurato, in modi diversi, nei singoli blocchi storici, cioè nelle
nazioni e Stati borghesi moderne.
Questa è la questione di egemonia - cioè dei rapporti di
forza tra le classi, che naturalmente si pongono e modificano non solo nei
singoli Paesi, ma ormai in tutta la Formazione economico-sociale, di cui i
singoli Paesi, nella fase imperialistica, sono segmenti. L’ipotesi fatta qui
sopra avrebbe implicato una lotta egemoniale, condotta dal movimento di
classe e democratico del periodo in questione, e capace di far valere diritti
sociali, che - se realizzati fino in fondo, a cominciare dal diritto al
lavoro - vanno al di là dell’orizzonte borghese.
Ma resta vero che oggi, in un Paese avanzato, si potrebbe
ridurre drasticamente la giornata lavorativa, garantire reddito di lavoro per
tutti, istruzione previdenza sanità alloggio per tutti, ecc.? In astratto,
certo, resta vero. Però: la realizzabilità materiale, appunto, non
è ancora realizzabilità concreta (ne è la condizione di possibilità,
come abbiamo visto.)
E tuttavia, la realizzabilità materiale dei diritti
sociali non è scomparsa.. È vero: trent’anni dopo, in presenza delle rovine
di quei diritti sociali, e della nuova tappa dell’imperialismo [30], si tratta innanzitutto di vedere come la borghesia,
essa stessa mutata, non più espansiva ma oligarchica, modifica il suo blocco
storico di classi subalterne, e di popoli subalterni nella “periferia”
ricapitalistizzata e ricolonizzata. E, senza dubbio, si tratta di ricominciare
dopo una grande sconfitta. Ma chiunque affermi seriamente che l’orizzonte, non
importa quanto lontano, è quello di una fuoruscita dal Modo di produzione
capitalistico, pone una questione di lotta egemoniale, e ha obbligo di
pensare conseguentemente, e indicare, come ritiene possa configurarsi un soggetto
di classe di questa lotta.
Non importa qui se tale soggetto sia pensato come tutto da
ricostruirsi in un lavoro e una lotta assai lunga, ecc. - La questione è un’altra:
chi afferma (come Hardt e Negri, ma non solo) che la transizione non avrà più
un soggetto di classe, afferma con ciò stesso di pensare a una
transizione (rivoluzionaria??) diversa nel genere, imparagonabile a tutte
le transizioni e trasformazioni sociali del mondo moderno, borghesi o socialiste
che fossero. Anche questo è lecito, beninteso. Ma ha alcune conseguenze. Non si
tratta solo dei mezzi politici (non violenza, Gandhismo, movimentismo ecc.). Si
tratta di fondare e argomentare razionalmente un progetto storico senza
precedenti storici, e senza riscontri nella costituzione di classe che è
pur quella del presente. Se se ne è capaci, lo si faccia. Ma qui non valgono le
frasi (“situazione inedita”, “postmodernità” “fine della
storia”, “fine del lavoro” e via vaticinando [31]).
[1] 1947
indipendenza dell’India; 1949 proclamazione della Repubblica Popolare Cinese;
indipendenza dell’Indonesia, ma controffensiva coloniale britannica in
Malacca, francese in Indocina. Primo Stato indipendente africano è il Ghana nel
1957, quasi tutti gli altri - salvo le colonie portoghesi - nel ’60; vittoria
nella guerra di liberazione algerina: 1962.
[2] Non
tutte erano borghesie compradoras, semplici appendici locali dei capitali
d’oltremare: ma nessuna poteva aspirare alla piena sovranità economica del
“suo” Paese. Del resto, val la pena di ricordare che già nell’’800, e
in Europa, le rivoluzioni delle “nazioni ritardate” (Italia, Germania) erano
state in parte preparate da una “rivoluzione passiva” (regime napoleonico,
Prussia), e si conclusero con un “compromesso storico” con le vecchie classi
dominanti.
[3] V. in “Proteo” 2-3/2003, p. 93 ss., il saggio di BRASILIA CARLOS
FERREIRA, Le traiettorie del sindacalismo brasiliano.
[4] Una politica viene decisa, e la decisione
avviene mediando le forze in gioco. Perciò può cambiar di segno e di natura
secondo le forze, palesi e non, che la determinano. Così andrà ripresa la
discussione sugli “aiuti” dei Paesi del blocco socialista alle rivoluzioni
del “3° Mondo”, che furono anche di sostegno militare, e fino all’intervento
sovietico in Afganistan nel 1979. Si trattava ancora di alleanza di classe?
[5] V. M. CASADIO, J. PETRAS, L.
VASAPOLLO, Clash! Scontro tra potenze, Milano, Jaca Book 2004, in
particolare la Parte I, Centralità dello Stato imperiale nella competizione
globale.
[6] E quindi ai margini della cultura delle città. Si
tratta talora di processi plurisecolari. “Cittadinesco” significa civile,
raffinato, non rozzo nell’italiano del ’300; ruvidi nei modi e nel parlare,
plebei sono gli uomini e le donne della campagna - per es. nel Decamerone.
Ce ne sono ancora tracce, dopo più di sei secoli...
[7] Scrivo sforzandomi di citare il meno
possibile. Alcuni richiami di luoghi “classici” di Marx, Lenin, Gramsci sono
accennati tra parentesi, altri si intendono, altri sono soltanto impliciti. Chi
scrive dichiara qui di sapere bene, arrivato a 70 anni, di avere certamente dei
“padri” - i filosofi, con cui ha scelto di percorrere il cammino della vita,
e poi i maestri, i compagni con cui ha vissuto e vive, e ha imparato vivendo con
loro. E gli sembra anche che per chiunque sia così (anche se a molti è data
soltanto una scelta obbligata, o tra padri di scarto, mediatici o
stolidificanti). E che non possa essere diversamente, a guardar bene. Per cui l’affermazione
recente di un noto politico, sul “non aver padri”, appare davvero singolare,
anche a tener conto delle esigenze a breve scadenza, elettorali o altre...
[8] Viene qui a proposito la nozione di “monopolio
della violenza”, che secondo M. Weber definirebbe il potere di Stato. Ma sono
le classi che, nel realizzare la loro egemonia, si danno partiti,
organizzazioni, istituzioni e anche Stati.
[9] Lo si sente dire. Ma chi parla così non intende la
nozione di “classe” (che non significa, e non ha mai significato un “insieme
di individui” - né in Marx né nei suoi antecedenti e fonti, Ferguson, A.
Smith e la “storia filosofica” del tardo illuminismo inglese e francese; poi
l’economia politica classica, e naturalmente Hegel). E inoltre, chi parla
così è spesso affetto da quel miope politicismo, che vede gli eventi politici
giorno per giorno, e si immagina che la storia sia una serie di “giorni”,
come quelli che entrano nel suo orizzonte, e che lui percepisce. Oggi, poi, sono
legate a quella miopia politicistica, e alle sue delusioni, molte favole
reazionarie, a cominciare dalle chiacchiere filosofeggianti sulla “fine” -
della storia, del lavoro, dello Stato, delle classi, e chi più ne ha più ne
metta.
[10] Come Marx dice dell’ “uomo”
in generale, che non è un’essenza astratta insidente in tutti gli elementi
dell’insieme “uomini”, ma sempre, in concreto, una totalità di rapporti
sociali.
[11] “Nessuna società potrebbe vivere, se il lavoro cessasse” -
scrive Marx introducendo il concetto di “riproduzione” in Capitale I, sez.
VII, proprio all’inizio. Al livello di astrazione di Capitale I, “lavoro”
è “lavoro produttivo” in genere, purché valorizzante il capitale che lo
impiega. Ma è interessante che Marx, contro il suo solito, faccia qui un’affermazione
così generale. Essa riguarda infatti quel fondamento elementare, che è
implicito in ogni ragionamento sulle società umane. Anzi: quando dici “società”,
hai già detto produzione e riproduzione di uomini, mediante il lavoro - e resta
da vedere in quali, ben determinati rapporti degli uomini tra loro, e con
la natura ambiente.
[12] Per una diversa impostazione, si può vedere il
contributo di Hans Heinz HOLZ, presentato al convegno napoletano del novembre
2003 sui problemi della Transizione, e pubblicato in anteprima in “Aginform”,
n° 38, gennaio 2004, col titolo Il testamento filosofico e politico di
Stalin.
[13] Cfr. anche GRAMSCI, Quaderni del carcere,
ed. critica (Torino 1975), in particolare nel Quaderno 19, sul
Risorgimento italiano, per la egemonia esercitata dai moderati sui democratici
nel periodo decisivo, tra il 1848 e la fondazione dello Stato unitario.
[14] Le nazioni europee moderne ne sono un buon
esempio. Esse sono “nazioni borghesi”, nel senso che l’insorgere e poi lo
sviluppo della borghesia (in Italia: dai Comuni medievali in poi, con la “pausa”
regressiva della “crisi italiana” dal ’500 al ’700, e poi col
Risorgimento), con i nuovi rapporti di produzione, le nuove figure sociali
possibili, la nuova cultura corrispondente, vengono a costituire grado a grado,
e attraverso una lunga serie di figure e scontri politici, un corpo, che
si chiama “Nazione” (e ha comune una lingua? Ma quanti Italiani parlavano la
lingua italiana nel 1861?)
[15] D’altra parte, l’oppressione
realissima oggi, quando un pugno di superricchi su scala mondiale tiene in mano
le sorti dei popoli, riposa anche sull’ottundimento del sentimento dell’oppressione
(che si manifesta in rassegnazione, disinteresse, rinuncia all’impegno vestita
da “disgusto per la politica” ecc.). Su questo bisognerà tornare nell’analisi,
ancora in buona parte da fare, della concreta egemonia esercitata oggi, nella
fase presente, e nuova, dell’imperialismo. Nei lunghi secoli dell’oppressione
“tradizionale”, schiavista e feudale, le rivolte non furono la normalità.
Normalità fu l’acconciarsi allo stato di cose esistente, la rassegnazione, l’ammirazione
per i semidei ricchi e potenti, per i segni e i simboli del loro potere. Solo la
classe operaia moderna ha potuto dire “Non siam più, laggiù nell’ officina
/ sulla terra, nei campi, al mar / la plebe sempre all’opra china /
senza ideale in cui sperar”. Il ritorno a quella “normalità”, mutatis
mutandis, è oggi l’obiettivo di un’azione sistematica tendente a
trasformare le masse lavoratrici, cioè l’immensa maggioranza, in una neoplebe
incapace di rappresentarsi il contesto delle sue condizioni, di ricavarne
conseguenze razionali, o anche solo di immaginare quell’ “altro mondo
possibile”, e necessario, che, se non vagheggiato, ma voluto con chiarezza di
intelletto e spirito di sacrificio, sarebbe veramente possibile. -
Ma di questo non possiamo occuparci qui. Il tema è vasto, e merita trattazione
a parte.
[16] Nella Ontologia dell’essere sociale, e nei postumi Prolegomeni all’ontologia
dell’essere sociale. Tr. it. Milano, Guerini & associati, 1990.
[17] Quasi 200 anni fà, di fronte al
primo romanticismo, G.W. F. HEGEL mostrava come questa coscienza morale astratta
si sviluppasse in moralismo, ironia “disincantata”, e ipocrisia. (Cfr. p.
es. Fenomenologia, 1807, cap. IV; Filosofia del diritto, 1821, §
140: quest’ultimo testo è ben leggibile anche per i non specialisti.) - I
pensatori “postmoderni” oggi di moda spargono a piene mani quel “disincanto”
e quella ipocrisia. Certo, io mangio e bevo, so bene che intanto migliaia
muoiono di fame e di sete, e, come individuo privato e isolato, non posso farci
nulla. Questa consapevolezza è intollerabile, il pensatore “postmoderno” mi
spiega come posso toglierla di mezzo col “disincanto” e la imperturbalità -
e così non vado avanti, non penso che, essendoci in verità le “risorse”,
la realizzabilità materiale, il superamento di quella morte per inedia e in
verità sterminio è oggi possibilità reale; la quale può diventare
possibilità concreta attraverso una lotta egemoniale, certo non breve, per
condizioni di riproduzione degli uomini che vadano al di là del capitalismo
imperialistico. Il risultato “postmoderno” è che non penso
razionalmente, praticamente, e non agisco collettivamente, con
altri uomini, in organizzazioni, strutture, istituzioni che sono appunto e sole
quelle dell’effettivo agire. (Mentre per la coscienza morale astratta e il suo
sentire, doloroso o indifferente e disincantato, basta la privata
interiorità, l’immediato sentire, che può essere condiviso qui ed ora con
altri, diventare magari vampata di ribellione, ma non processo collettivo,
duraturo, conscio di cause ed effetti, costruzione di una alternativa.)
[18] Qui devo chieder venia al paziente lettore. Sì, si tratta di
concetti filosofici, bisogna fare uno sforzo per ripensarli in proprio. Anche se
chi scrive ha fatto il suo lavoro per bene, ha mostrato la via passo passo (che
non è detto), quello sforzo di ripensare in proprio non si lascia togliere. Si
rifletta a questo. Un pensiero politico che non è azione è... un ferro di
legno. Se è pensiero, riflessione razionale, esso non influisce solo su coloro
a cui viene comunicato, ma prima di tutto su chi lo pensa. Faccio
una riflessione politica vera (non un piagnisteo generico sulla
malvagità o l’ignavia umana...), ho mutato la mia percezione del corpo
sociale di cui sono elemento. Ma con ciò ho cambiato me stesso, di tanto o
poco, nel mio rapporto col mondo: agisco, a partire da ora, con altri e sul
mondo, in modo diverso da prima. Questa è - in vitro - “unità di
teoria e prassi”.
Ma si tratta, qui, anche di capire perché l’avversario di
classe, la tirannide moderna NON voglia che noi pensiamo, che usciamo dal
vago e ribelle sentire l’oppressione e l’ingiustizia, e pensandone
invece le modalità, il fondamento, la struttura, ci attrezziamo per
combatterle.
[19] Nozione
e termine che risalgono ai Quaderni del carcere di A. GRAMSCI. Così per
il blocco storico che risulta dal Risorgimento italiano nell’’800: la
borghesia come classe egemone alleata alla proprietà terriera semifeudale,
attraverso un compromesso che escludeva trasformazioni democratiche; quindi la
piccola borghesia commerciale e artigiana, e la classe operaia e i contadini,
cioè la grande maggioranza della popolazione, in vario grado di subalternità.
Tutto questo non esaurisce il carattere progressivo della rivoluzione borghese
in Italia: qualcosa cambia anche per frazioni importanti delle classi
subalterne. Ma nel breve corso di una generazione, già a fine ’800, avremo lo
scontro diretto tra reazione e primo movimento operaio.
[20] Sembra opportuno distinguere
tra questo tipo di lotte storiche, e l’esercizio quotidiano dell’egemonia
nelle varie sfere della vita sociale. Per quest’ultimo si usa, e mantengo, l’aggettivo
“egemonico”. Così il rapporto di capitale è egemonico, è
fondamento dell’ egemonia borghese, e via dicendo.
[21] Questo valeva per le borghesie dominanti al tempo di Gramsci. E
sembra valere ancor di più per l’attuale oligarchia
economico-politico-finanziaria.
[22] Tali erano i “diritti” di corporazioni, città, o anche singoli,
che il Medioevo conosceva: così le varie carte, statuti, ecc., i cui
documenti erano gelosamente conservati, e che risalivano ad atti d’autorità
regia o, in subordine, feudale.
[23] I diritti politici non
furono mai riconosciuti pienamente alle classi subalterne dalle
rivoluzioni borghesi. Anche con la Rivoluzione francese, la famosa legge Le
Chapelier (1791) vietava le associazioni operaie. La libertà di religione
trovò limiti in Europa: nella “questione ebraica”, ossia della
emancipazione degli israeliti. Solo la Costituzione giacobina (1793), mai
attuata, previde il suffragio universale - lo si ebbe poi nel 1848, ma solo per
affossare la Seconda Repubblica (e non per caso Marx analizzò questo
svolgimento nelle Lotte di Classe in Francia e nel 18 Brumaio di Luigi
Buonaparte); quanto al suffragio femminile, bisognerà attendere il XX
secolo. - Per i grandi classici del pensiero liberale, a cominciare da J. Locke,
il suffragio universale, che in linea di principio darebbe alla maggioranza dei
non-possidenti il potere sui possidenti, è un’assurdità.
[24] Caso tipico, la
liberazione dei contadini - cioè dell’immensa maggioranza della popolazione -
dalle servitù feudali; e la possibilità, aperta ai più agiati di loro, di
accedere alla proprietà della terra. In Francia, questi nuovi piccoli
proprietari furono poi soldati e sostenitori di Napoleone I.
[25] Anche questo è un tema su cui Marx ritorna più
volte, tanto in Capitale III, sez. VII, quanto nei 3 grandi manoscritti
preparatori.
[26] Questa deduzione non è che l’esplicazione
del concetto di egemonia e di lotta di egemonie - in questo senso può dirsi che
essa, poste le premesse, è tautologica.
[27] C’è bisogno di dire che il c.d. “tempo libero” sta
alle prospettive di sviluppo umano al massimo come condizione necessaria, non
sufficiente, poiché può essere riempito di qualunque cosa, essendo appunto
“libero” in quanto vuoto, semplice “tempo di non-lavoro”? Più
sostanziale, in quella fase, era la rivendicazione “la Costituzione non solo
fuori, ma anche dentro i luoghi di lavoro”.
[28] La opportunità politica delle varie posizioni
di allora è, ovviamente, un discorso a parte.
[29] Si avviava invece allora, come oggi sappiamo, la grande
controffensiva del capitale su scala mondiale, che tuttora mostra i suoi
effetti. La nostra ipotesi è dunque, come si dice, controfattuale.
[30] Cfr. G.
GATTEI, Tre maniere dell’imperialismo, nel vol. Il piano inclinato
del capitale. Crisi, competizione globale e guerre, a cura di L. VASAPOLLO.
Milano, Jaca Book, 2003.
[31] Si può anche affermare che
la classe operaia, cioè il capitale, il rapporto di produzione fondamentale, il
Modo di produzione capitalistico, non esistono più. Ci si dica allora,
ma non a frasi, non a brandelli di mode “filosofiche” e di “analisi”
politicistiche, che cosa esiste, e in che mondo viviamo.