Il calabrone ha perso le ali. Le piccole e medie imprese nella crisi
Vladimiro Giacché
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4. Piccole, brutte e cattive: la verità sulle PMI
4.1. Un popolo di subfornitori
L’“irresistibile ascesa” delle PMI italiane, come abbiamo visto,
comincia negli anni Settanta. Non inizia per la geniale capacità di seguire i
“bisogni del consumatore” snobbati dall’insensibilità della grande
industria. Inizia nella grande crisi di sovrapproduzione di quegli anni, che
colpisce severamente la grande industria. Quest’ultima, infatti, grazie all’accresciuta
forza e consapevolezza della classe operaia non può più adoperare la leva dei
bassi salari (che aveva rappresentato il grande punto di forza degli anni del
boom) e vede quindi ridursi drasticamente i margini di profitto. E reagisce
esternalizzando produzioni, per colpire il sindacato e la capacità di
contrattazione della classe operaia. La situazione viene così descritta da
Brusco e Paba, autori certo non sospetti di essere pregiudizialmente ostili alle
PMI: “fu, quella, la stagione del decentramento, dello spostamento di fasi
elementari di lavorazione dalla grande impresa a imprese minori. Migliaia di
tornitori o fresatori furono licenziati dalle grandi imprese, e ripresero a
lavorare come subfornitori per le stesse imprese da cui erano stati licenziati,
spesso con macchinari uguali a quelli usati in precedenza, talvolta proprio con
le stesse macchine.” Questo si tradusse, come fu ben presto denunciato dal
sindacato, in salari più bassi, straordinari più frequenti, diffusione del
lavoro nero, più in generale minori tutele per il lavoro. Del resto, i numeri
parlano da soli: posti pari a 100 i salari delle imprese maggiori, i salari
delle imprese da 20 a 50 addetti erano pari a 67 nel 1974-7 e pari a 71 ancora
alla fine degli anni Ottanta. [1]
Come ovvio risultato, la quota dei profitti lordi sul valore aggiunto risulta
più alta nelle piccole imprese che nelle grandi in tutto il periodo
considerato.
È essenziale notare che quel rapporto di subfornitura non è
cosa che le PMI italiane si siano lasciate alle spalle col passare del tempo.
Tutt’altro. Infatti, se prendiamo i dati della più recente indagine sulle
imprese manifatturiere condotta dall’“Osservatorio sulle piccole e medie
imprese” di Capitalia, scopriamo che le imprese che lavorano su commessa sono
il 68,7% del totale; che il cliente-impresa che acquista è per il 52,6% un’impresa
localizzata in un’altra regione italiana e per il 23,1% un’impresa estera.
Giustamente, gli autori della ricerca concludono che si tratta di dati che “confermano
il consolidamento della divisione del lavoro tra grandi imprese e PMI.
Secondo tale modello, le imprese piccole e medie sarebbero destinate a
soddisfare, attraverso accordi di subfornitura, quote crescenti di
produzione delle grandi imprese. Il risultato di queste politiche consentirebbe
alla grande dimensione di ridurre il costo del lavoro, nonché gli investimenti
in capitale circolante, favorendo l’allargamento delle funzioni commerciale e
finanziaria”. Ma non è tutto: perché anche per le imprese oltre i 500
addetti più del 56% del fatturato è stato realizzato vendendo ad altre imprese.
Scopriamo così che “l’industria manifatturiera italiana è un’industria
intermedia, inserita in una filiera, a cui a monte e a valle stanno altre
imprese”. [2] Altro che genio italico in grado di mandare in sollucchero
il consumatore più esigente! L’industria manifatturiera italiana nel suo
complesso è sempre più un’industria di subfornitura, che ha come
cliente altre imprese!
Dovremo prenderne nota ed aggiornare l’elenco delle
categorie che incarnano le virtù italiche: siamo un popolo di santi, eroi,
poeti, navigatori... e subfornitori.
4.2. Nani NON per caso
Ovviamente, il nanismo non è un destino. Il fatto di
essere prevalentemente subfornitrici non impedirebbe di per sé alle imprese di
crescere, dimensionalmente e dal punto di vista della focalizzazione di
business, realizzando economie di scala, magari per giungere (perché no?) a
presidiare direttamente i mercati di riferimento. E, ovviamente, talora questo
processo di crescita dimensionale si verifica realmente. Ma bisogna constatare
che la tendenza generale va nella direzione opposta: “la piccola
dimensione si è accentuata nella struttura industriale italiana negli anni 90.
Tra il ’96 e il ’99 il peso della classe d’imprese composta da 1-2 addetti
è aumentato; quella con 100 dipendenti e oltre rappresentava meno di un quarto
dell’occupazione nelle industrie e nei servizi”. [3] Volendo
esprimere tutto questo in termini paradossali, si potrebbe dire che il
nanismo industriale italiano cresce. Si tratta però di capire il perché.
In verità, il nanismo è in primis la logica
conseguenza del controllo familiare delle imprese. E non è un caso che anche il
carattere familiare del capitalismo italiano si sia rafforzato negli ultimi
anni: la percentuale di persone fisiche residenti che detengono la proprietà o
il controllo diretto dell’impresa è infatti giunta all’89,9% del totale. [i] Il controllo
familiare di un’impresa ha precise implicazioni negative sia in termini di governance,
sia in termini di finanziamento.
Con riferimento al governo dell’impresa, è evidente che la
selezione del management su base familiare-dinastica (una base che oltretutto
col passare delle generazioni si amplia talora a dismisura, creando ovvi
problemi di ingovernabilità dell’impresa) si rivela nella maggior parte dei
casi inefficiente: essa risulta in generale inadeguata a gestire la crescita
aziendale e comunque a governare un’entità complessa qual è oggi l’impresa.
Ma il tema più delicato è quello del finanziamento: come
constata Fortis, “uno degli aspetti più critici del sistema delle PMI
italiane” è per l’appunto rappresentato dal fatto che esse, “essendo in
larga maggioranza ad azionariato famigliare, ormai presentano un livello
inadeguato di capitalizzazione”. Per logica conseguenza, le PMI sono in genere
molto indebitate, con una forte prevalenza del debito bancario e soprattutto di
quello a breve termine (nel caso delle imprese sino a 50 addetti, nel 2000 l’incidenza
dei debiti a breve termine superava il 70% del totale). Non solo: a differenza
di quanto le ricorrenti giaculatorie confindustriali indurrebbero a ritenere, i
prestiti bancari alle imprese sono in aumento. Basti pensare che il volume dei
prestiti alle imprese non finanziarie è salito del 70% nel periodo 1995-2002, e
del 4% nel solo 2002 (in quest’ultimo anno è cresciuto addirittura del 7,2%
il credito alle imprese con meno di 20 addetti). [4] Il punto è che, in assenza
di un’adeguata patrimonializzazione, i finanziamenti non servono a finanziare
investimenti, ma solo il circolante: in altri termini, consentono il
galleggiamento dell’impresa, non il suo sviluppo e la sua crescita.
Ma c’è di più: come ha rilevato Ciocca nell’intervento
già citato, “superata la recessione del 1992-93, la quota dei profitti sul
reddito nazionale, il saggio del profitto sul capitale investito, il rendimento
degli attivi d’impresa sono tendenzialmente aumentati”, situandosi “su
valori in media superiori a quelli degli anni precedenti la recessione”. [5] Ora, se questo è
vero una domanda sorge spontanea: dove sono finiti i profitti realizzati dalle
PMI? La risposta è obbligata: nel patrimonio personale dell’imprenditore
e della sua famiglia. La situazione è stata così descritta da Marcello De
Cecco in un suo illuminante saggio: “mediante lo svuotamento sistematico
dei bilanci, gli imprenditori italiani sono riusciti a costituirsi fortune
familiari che, sommate tra loro, raggiungono dimensioni totali veramente
ragguardevoli. Le loro imprese continuano ad essere indebitate con le
banche, mentre gli imprenditori appaiono come i migliori clienti potenziali per
le nuove attività di consulenza finanziaria che le banche hanno iniziato da
quando il Tesoro italiano ha cominciato, qualche anno fa, a remunerare a tassi
assai meno convenienti per gli investitori il proprio debito, che era parte
cospicua del patrimonio delle famiglie, anche di quelle degli imprenditori”.
[6]
Quindi, cospicui patrimoni personali e familiari a fronte di una scarsa
patrimonializzazione delle imprese, con quello che ne consegue: dimensioni
rachitiche e crescita asfittica delle imprese stesse (e oggi, all’orizzonte, l’uscita
dal mercato).
L’alternativa a tutto questo, ovviamente, ci sarebbe:
aprire l’azienda ad altri soci, ad investitori istituzionali o quotarla in
borsa. [7] Ma ovviamente questo
comporterebbe, per il nanocapitalista italico, il rischio di perdere il
controllo della società. E quindi si preferisce ricorrere esclusivamente (o
quasi) a prestiti bancari - e si resta nani. Vale però la pena di notare che l’alternativa
tra apertura del capitale a terzi e crescita patrimoniale da un lato, e stentata
sopravvivenza mantenendo il controllo familaire dell’impresa dall’altro,
rappresenta - prima o poi - un’alternativa secca, che non consente scappatoie
o “terze vie”. Infatti, come ricordava Marx, “con lo sviluppo del modo di
produzione capitalistico, cresce il volume minimo del capitale individuale,
necessario per far lavorare un’azienda nelle sue condizioni normali”, ossia
“aumenta il volume minimo di capitale che è necessario al capitalista
individuale per la messa in opera produttiva del lavoro”. [8] Per
capire come tutto questo si traduca in concreto nella situazione attuale, è
sufficiente rifarsi a un recente testo sui mercati finanziari europei: “l’omogeneizzazione
dei mercati mondiali ha determinato in molte industrie un sostanziale aumento
delle economie di scala e un incremento delle dimensioni minime di
investimento... Tutto ciò richiede di norma risorse finanziarie
eccedenti quelle aziendalmente disponibili per la crescita, e il mercato
internazionale dei capitali è pronto a fornirle purché si sia in grado di
dimostrare che dalla crescita, dalle fusioni e dalle acquisizioni deriveranno
guadagni adeguati al capitale investito. In tal modo il mercato
internazionale dei capitali diviene il vero giudice del merito e della
fattibilità delle strategie e dei progetti di impresa. Per l’Europa
continentale ciò significa sottrarre il giudizio sulla condotta delle imprese
ai gruppi di controllo che l’avevano tradizionalmente esercitato in modo
esclusivo.” [9] Qui ci si riferisce
alle grandi imprese: ma è un discorso che ovviamente vale a maggior ragione
per le piccole e medie. Insomma: al processo di concentrazione e
centralizzazione dei capitali non è possibile sottrarsi - se non al prezzo di
sopravvivere in nicchie limitate; o in una relazione di indipendenza formale,
ma dipendenza sostanziale - caratterizzata da una precarietà di
fondo - dal grande capitale (come avviene nel caso del rapporto di
subfornitura).
4.3. La concorrenza di prezzo e le sue basi (insostenibili)
Si può essere tentati di reagire a quanto ora argomentato
con una certa dose di scetticismo: se la situazione è così fosca, come
è possibile che così tante piccole e medie imprese italiane stiano ancora in
piedi? Come è stato possibile per così tante imprese sopravvivere così a
lungo normalmente, facendo non pochi profitti? La risposta è molto semplice: è
stato possibile grazie ad un insieme ben determinato di fattori che hanno
consentito alle imprese italiane di vendere le loro merci a prezzi relativamente
convenienti. Tali fattori hanno però caratteristiche piuttosto inquietanti (a
volte più d’una assieme): o non sono più riproponibili nella situazione
attuale, o sono una sorta di doping che ha effetti benefici nel breve ma
distruttivi nel lungo periodo, o consistono in puri e semplici comportamenti
illegali. E veniamo all’esame di questi fattori:
1) I salari bassi. Bassi - si intende - non soltanto
in relazione alle grandi imprese, ma anche alle imprese concorrenti degli altri
Paesi industrialmente avanzati. Non stiamo parlando di eventi lontani nel tempo:
come ci ricorda Ciocca, negli anni Novanta “la dinamica delle retribuzioni in
termini reali si è attenuata anche rispetto a quella della produttività”.
Nonostante il gergo un po’ criptico, è facile capire cosa il testo appena
citato significhi; tant’è vero che lo stesso autore subito dopo aggiunge: “il
salario non è fra i principali problemi presenti dell’economia italiana”.
[10] Ora, a ben vedere i problemi nascono proprio di qui. E
sono di due ordini. Il primo è che dopo l’attacco ai salari degli ultimi
decenni, ed in particolare alla luce del furibondo carovita che imperversa
attualmente nel nostro Paese, le buste paga non appaiono ulteriormente
comprimibili. Si tratta quindi di un fattore non riproponibile (o, se si vuole,
ormai “anelastico”). Il secondo problema è che l’utilizzo esclusivo o
preminente della leva del costo della forza-lavoro come fattore di
competitività è un disincentivo all’innovazione di processo (è in certo
qual modo regressivo, risospingendo indietro la frontiera dei profitti, dal
plusvalore relativo al plusvalore assoluto), [11] e spinge ad una
competizione basata esclusivamente sul prezzo dei prodotti e non
sulla loro qualità (contenuto tecnologico, innovazione, ecc.). Cosicché si
finisce, naturalmente, per competere con imprese dei Paesi cosiddetti
emergenti, le quali comunque si giovano di un costo della forza-lavoro molto
inferiore a quello italiano e quindi, dalla competizione su questo terreno,
hanno tutto da guadagnare. Quindi, si tratta anche di un fattore che dà
benefici nel breve ma ha effetti distruttivi nel lungo periodo.
2) Le svalutazioni competitive. Per decenni la
competitività delle imprese italiane è stata “dopata” per mezzo di
svalutazioni competitive della lira (le quali, giova ricordarlo, rappresentano
una delle più classiche forme di politica di classe e socializzazione delle
perdite, oltreché di ingiusto privilegio attribuito ai debitori nei confronti
dei creditori). Per avere un’idea delle dimensioni di questo “doping”
basterà ricordare che “tra il 1971 e il 1993 la diminuzione del tasso di
cambio nominale, nei confronti delle principali monete, è stata prossima al 70
per cento”. [i] Piccolo
problema: con l’euro questa storia è finita, anche se la svalutazione dell’euro
nei confronti del dollaro (durata sino all’inizio del 2002) può aver dato l’illusione
che le cose non fossero granché cambiate. Non aver capito che questo nuovo
vincolo costringeva a cambiare gioco costituisce uno dei più gravi
errori strategici compiuti dall’imprenditoria italiana.
3) Un’evasione fiscale spropositata. Che l’evasione
fiscale e contributiva (grazie all’evasione in senso stretto ed al lavoro
nero) abbia costituito nel corso degli anni uno dei maggiori (indebiti) vantaggi
competitivi per le piccole e medie imprese è così poco un mistero, che alcuni
autori ne parlano in premessa dei loro ragionamenti su piccole imprese e
distretti industriali. [12] Del
resto, persino Antonio Fazio, che difficilmente potrebbe essere considerato un
acceso giacobino, ha potuto parlare di “abnorme estensione del lavoro
irregolare”. [13] Ed è
il meno che si possa dire, in presenza di dati come questi: una media italiana
di lavoro irregolare pari al 14,5% delle unità lavorative totali nel
2000, che diventa il 22% nel Mezzogiorno (con punte del 29, 25 e 24% in
Calabria, Campania e Sicilia) ma che anche nella regione più “virtuosa” (il
Piemonte) è comunque superiore al 10%; il che, tradotto in cifre assolute, fa
oltre 3 milioni e mezzo di lavoratori al nero secondo le elaborazioni condotte
dalla Banca d’Italia su dati Istat. Ma secondo l’Eurispes nel 2003 le cose
stanno ancora peggio: la percentuale sul totale dovrebbe oscillare addirittura
tra il 30% e il 48% del totale, e le cifre assolute assommare a qualcosa tra i 7
e gli 11 milioni di lavoratori in nero; in tal caso l’economia sommersa (che
sfugge del tutto al fisco) varrebbe non meno di 317 miliardi di euro (il 27%
dell’intero prodotto interno lordo!). [14] Alla luce di questi dati, davvero
non sorprende che l’Agenzia delle Entrate stimi l’ammontare totale dell’evasione
fiscale annua come superiore a 200 miliardi di euro...
Il problema per quest’ultimo “fattore competitivo” è
ovviamente in primo luogo se questa forma di - chiamiamola così -
incentivazione sottobanco sia nel lungo periodo sostenibile per il nostro “sistema
Paese”: e la risposta non può che essere negativa. Ma è anche un altro: il
fatto cioè che questo enorme gettito mancato si traduce inevitabilmente in
esternalità negative fortemente percepite (e a gran voce denunciate) dalle
stesse imprese: servizi pubblici inefficienti, inadeguata spesa per l’istruzione
(siamo al 4,9% del PIL, contro una media OCSE del 5,9%), un bassissimo tasso di
laureati (pari a un terzo rispetto a molti Paesi europei ed al Giappone, e a
poco meno di un quarto rispetto agli USA), carenze infrastrutturali croniche,
ecc. ecc.
(Ai tre fattori ora citati andrebbero probabilmente aggiunte
le agevolazioni pubbliche. Al riguardo è necessaria una certa cautela,
soprattutto in assenza di un quadro comparato delle incentivazioni adottate
dagli altri Paesi dell’Unione Europea, dal Giappone e dagli USA. È però senz’altro
possibile quantomeno sfatare la ricorrente geremiade circa la “mancata
attenzione” dello Stato italiano nei confronti delle imprese. In effetti, se
tale “mancata attenzione” - come abbiamo visto sopra - è reale al momento
della riscossione delle imposte, non lo è affatto per quanto riguarda l’erogazione
di contributi pubblici. Un dato per tutti: sul totale delle imprese campionate
per l’indagine sull’industria manifatturiera sul triennio 1998-2000,
risultano aver fatto ricorso ad agevolazioni creditizie e fiscali il 38% delle
imprese, con una crescita in quasi tutte le classi dimensionali rispetto al
triennio precedente. [15])
4.4. L’innovazione, questa sconosciuta
Nel suo Capitalisti d’Italia, Ugo Bertone racconta
con nostalgia della mitica macchina da scrivere Lettera 22 della Olivetti, “disegnata
da Marcello Nizzoli, colorata in tinte pastello”. E aggiunge subito: “i
profitti di questi prodotti (la vera new economy del tempo) consentono di
destinare 1500 lavoratori, il 10 per cento della forza lavoro, all’attività
di ricerca e sviluppo”. [16]
Quando si parla di innovazione, si parla di questo: non di
“colpi di genio”, ma degli investimenti - talora ingentissimi - che sono
necessari per la ricerca e la creazione di nuovi prodotti e la messa a punto di
nuovi processi produttivi. Da questo punto di vista, il panorama italiano
attuale è decisamente sconfortante, e giustifica la nostalgia di Bertone. La
spesa complessiva in ricerca e sviluppo tecnologico, che era all’1,3% del
prodotto interno lordo nel 1990, dal 1995 è scesa all’1%. Si tratta di un
dato grave e preoccupante per tre ordini di motivi.
Il primo motivo attiene alla volontà, da parte del governo e
del padronato italiano, di mantenere gli impegni presi: basti ricordare che tra
quanto stabilito nel patto del luglio 1993 vi era nientemeno che il raddoppio
della quota di spese in ricerca e sviluppo tecnologico!
Il secondo motivo è che i Paesi capitalistici più avanzati
si attestano su grandezze molto lontane da queste cifre: gli USA nel 2001 erano
al 2,8%, il Giappone al 3%, il Regno Unito “appena” l’1,9%.
Il terzo motivo è nascosto dentro queste cifre, e riguarda
la proporzione tra spesa pubblica e spesa privata. Come ha dimostrato Riccardo
Faini, a differenza di quanto generalmente si pensa, la spesa pubblica italiana
in R&S non è sostanzialmente inferiore a quella degli altri Paesi
industrialmente avanzati: infatti “la spesa del settore pubblico, incluse le
università, è pari in Italia allo 0,55 per cento del Pil, negli Stati Uniti
allo 0,56 per cento e nel Regno Unito allo 0,61 per cento. Germania e Francia si
collocano su livelli un poco più alti, 0,75 per cento e 0,78 per cento”.
Conclusione: “il divario di spesa in R&S fra l’Italia e gli altri Paesi
industrializzati non può quindi, se non in minima parte, essere attribuito al
settore pubblico”. È invece “il settore privato, in particolare quello
manifatturiero, il vero responsabile della scarsa propensione a investire in
R&S. Una volta tanto, le cifre sono eloquenti. In proporzione del valore
aggiunto manifatturiero, l’Italia spende solo il 2 per cento in R&S,
quattro volte meno di Stati Uniti e Giappone e tre volte meno di Francia,
Germania e Regno Unito”.
A questo punto è lecito chiedersi da cosa nasca questa bassa
propensione dei nostri imprenditori a investire nel proprio futuro: la risposta
di Faini (tratta, abbastanza ironicamente, da uno studio della Confindustria) è
che “le nostre imprese non investono in R&S perché sono troppo piccole
e soprattutto perché operano in settori a basso contenuto tecnologico”.
[17] Il nesso tra la dimensione delle
imprese e la scarsa innovazione è posto in luce anche da De Cecco, il quale
afferma che “la ridotta dimensione obbliga le imprese ad affollarsi in settori
a bassa intensità innovativa, e la bassa intensità innovativa induce la
limitata crescita della produttività.” Non si tratta di opinioni campate per
aria: l’indagine sulle imprese manifatturiere già più volte citata pone in
luce come negli ultimi anni il numero delle piccole e medie imprese che hanno
fatto innovazioni di prodotto e di processo sia diminuito, mentre è
aumentato il numero di imprese sopra i 250 addetti (medio-grandi e grandi) che
hanno realizzato tale tipo di attività innovativa. Alla luce di questi dati,
appare quindi pienamente condivisibile l’affermazione del governatore della
Banca d’Italia secondo cui “il modesto sviluppo della produttività è da
riconnettere, in misura non secondaria, alla frammentazione del nostro tessuto
produttivo”, ed anche la conclusione che ne trae: “una nuova fase di
sviluppo richiede un riassetto dell’apparato produttivo e un aumento della
dimensione delle imprese.” [18]
5. Conclusioni: al capolinea?
Che conclusioni trarre da quanto abbiamo visto? Certamente,
è difficile esprimere giudizi improntati all’ottimismo. E si può capire
anche il de profundis intonato da De Cecco sull’“Italia dei piccoli”:
“è probabile che si concluda assai malinconicamente la fase dello sviluppo
dal basso che ha sostituito quella dello sviluppo dall’alto nella vicenda
storica del capitalismo italiano. Quel che tanti economisti, storici,
politologi, sociologi non solo italiani hanno visto come una fortunata ’terza
via’ va infatti rivelandosi per quello che alcuni hanno sempre saputo e detto
in questi anni: un binario morto, magari più lungo del temuto, ma il cui
termine sembra, nella impossibilità attuale e futura di svalutare nei confronti
delle altre monete europee e di tenere il settore finanziario sigillato alla
concorrenza straniera, ormai vicino”. Ma De Cecco non si limita a queste
osservazioni, ed aggiunge alcune notazioni decisamente interessanti sulle strade
che “saranno in tutta probabilità tentate” per tenere comunque in piedi una
baracca sempre più traballante: ulteriore riduzione della tassazione delle
imprese, attacco allo stato sociale, e infine la “soluzione più importante”,
quella di “tenere bassi i salari”.
Come è evidente, non si tratta di previsioni astratte, ma di
descrizioni concrete di quanto sta accadendo. Infatti questa, e non
altra, è la “politica industriale” del governo Berlusconi: abbattere le
tasse per le imprese (premiando evasori e “pirati della lira”), distruggere
lo stato sociale privatizzandolo di fatto e di diritto, comprimere i salari
(inclusi quelli differiti, ossia tfr e pensioni). Per quanto riguarda in
particolare l’attacco al salario, osservando che si tratta di una realtà già
in atto, De Cecco nota: “ora che i cambi sono fissi e ancor più a partire dal
primo gennaio 2002, è possibile vedere che i salari italiani sono a livello
assoluto assai inferiori di quelli francesi e specialmente tedeschi”. [19] Si
può aggiungere che questa affermazione è stata confermata e superata dai
fatti: una ricerca pubblicata dalla banca svizzera UBS nel gennaio 2004 ha
infatti mostrato che il potere d’acquisto delle buste paga italiane si colloca
invariabilmente agli ultimi posti delle classifiche della zona euro, seguita
soltanto dal Portogallo e (in qualche caso) dalla Grecia.
Verrebbe da chiedersi se è tutto qui, il “miracolo
italiano” di Berlusconi & Soci. In verità, c’è ben poco da aggiungere,
se non ricordare la farsa del protezionismo “alla Tremonti” - con tanto di
denuncia isterica del “pericolo giallo”. Intendiamoci: il fatto stesso che
risorgano queste tentazioni è la migliore denuncia della gravità della
situazione in cui versa un sistema industriale che, dopo essersi impiccato a
settori nei quali domina l’effetto prezzo, ha scoperto (con stupefacente
stupore) che al mondo c’è qualcuno che su prodotti maturi riesce a praticare
prezzi ancora più bassi dei suoi. E poche cose esprimono la triste parabola del
“made in Italy” come la raffica di articoli di contenuto
sostanzialmente protezionistico sfornati in pochi mesi da uno dei suoi più
appassionati esegeti. [20] Il punto però è che
il protezionismo anticinese non rappresenta soltanto un rimedio peggiore del
male, ma anche una strada concretamente impossibile a praticarsi, visto che
ormai da decenni nessuno Stato dell’odierna Unione Europea può decidere da
solo la politica commerciale nei confronti di un paese terzo. [21] Né va dimenticato che altri Paesi europei, dotati di classi
dominanti più lungimiranti delle nostre (e forti di specializzazioni produttive
più avanzate), vedono nella Cina principalmente una grande riserva di domanda
mondiale, anziché un pericolo dal lato dell’offerta di beni.
E allora viene il sospetto che agitare demagogicamente questo
tema (così come del resto l’“affaire Parmalat”) sia nulla più che
un ennesimo tentativo di distrarre l’opinione pubblica e i lavoratori dalle
cose importanti. Cioè dai disastri di questo governo, dal fatto che invece del
“miracolo” promesso sta prendendo forma una vera e propria catastrofe
industriale e sociale, e - soprattutto - dal fatto che il conto di tutto questo,
ancora una volta, si tenta di farlo pagare ai lavoratori.
A questo riguardo la partita è ancora aperta. Ma almeno due
punti fermi possiamo fissarli. Il primo: se c’è una cosa che la “favola
senza lieto fine” delle PMI ci ha insegnato, è proprio il fatto che la
compressione dei salari, la “flessibilità del lavoro” come ricetta
universale, non solo non hanno giovato all’economia italiana, ma hanno
contribuito a spingerla nel vicolo cieco di un modello competitivo perdente
(scoraggiando l’innovazione, la conquista di posizioni nei settori di
avanguardia, ecc.). Il secondo: poche cose sono certe come il fatto che in tutti
questi anni il coperchio sulla pentola dei salari è stato tenuto fin troppo
premuto.
Alla luce di quanto si è provato ad argomentare in queste
pagine, si può affermare che oggi è importante, anzi essenziale, che quel
coperchio salti. È certamente essenziale per i lavoratori. Ma è essenziale
anche al fine di evitare l’ulteriore degrado del sistema industriale e
produttivo del nostro Paese.
[1] S. Brusco, S. Paba, op.cit., pp. 324 e
308. Gli autori notano inoltre che i differenziali sono certamente più alti
ancora, in quanto non si hanno dati relativamente alle imprese sino a 20
addetti, pur aggiungendo che “molti indizi inducono a pensare che nei
distretti industriali i differenziali salariali siano nettamente più bassi”.
[2] Osservatorio sulle piccole e medie imprese, Indagine sulle
imprese manifatturiere. Ottavo rapporto sull’industria italiana e la politica
industriale, Roma, Capitalia, dicembre 2002, pp. 22-3, 31 [alcuni corsivi
sono redazionali].
[3] M. Sarcinelli, “Imprese,
la sfida di essere grandi”, il Sole 24-Ore, 22 febbraio 2003.
[i] Indagine
sulle imprese manifatturiere, cit., p. 7. Del pari significativo che
le uniche imprese a fare eccezione siano proprio quelle grandi.
[4] Vedi: M. Fortis, cit., p.
74; Indagine sulle imprese manifatturiere, cit., p. 34; Relazione
sull’esercizio 2002, cit., pp. 260, 268. Considerazioni ulteriori
meriterebbero le modalità di erogazione del credito, che in Italia avvengono
attraverso il “multiaffidamento” (ossia il rapporto contemporaneo con più
banche, al fine di poter operare in maniera meno trasparente), ed alle
prospettive derivanti dall’adozione dei nuovi requisiti patrimoniali previsti
dall’accordo internazionale che va sotto il nome di “Basilea II”: i due
temi sono legati tra loro, nel senso che l’accordo, basando in misura maggiore
la valutazione del merito di credito su elementi oggettivi (ossia quantitativi),
rafforza l’esigenza di una maggiore trasparenza dei bilanci delle imprese. Precisamente
per questo motivo esso è così avversato in Italia dalle PMI e dal
commercialista che le rappresenta al governo.
[5] P.
Ciocca, L’economia italiana, cit., p. 4.
[6] M. De Cecco, “Piccole imprese, banche, commercialisti. Note sui
protagonisti della seconda industrializzazione italiana”, relazione al
convegno L’economia italiana e l’Europa. Vent’anni di trasformazioni,
crisi e opportunità, Urbino, 14 marzo 2003, p. 11 (vedi anche pp. 5-6).
[7] L’apertura di un’impresa italiana ad investitori istituzionali è
evento così raro che merita articoli (tra l’ammirato ed il perplesso) sui
giornali. Si veda ad esempio F. De Rosa, “Ai fondi i tesori del made in
Italy”, il Corriere della Sera, 10 novembre 2003.
[8] K. Marx, Il
Capitale, l. III, cap. 15, cit., p. 303. Coerentemente, Marx vedeva
nelle “imprese azionarie capitalistiche” una forma superiore di
configurazione societaria rispetto alle imprese di proprietà di un singolo
capitalista: v. Il Capitale, l. III, cap. 27, partic. pp. 522-3.
[9] G.M. Gros-Pietro, E. Reviglio, A. Torrisi, Assetti
proprietari e mercati finanziari europei, Bologna, Il Mulino, 2001, p. 347
[corsivi redazionali]. È appena il caso di notare come il passo citato riprenda
di fatto (consapevolmente o meno) l’analisi marxiana.
[10] P. Ciocca, L’economia italiana, cit., p. 6. A fugare ogni
dubbio al riguardo basterebbero i dati riportati dall’autore alla nota n. 18
della sua relazione.
[11] Questo e non altro è il
significato concreto di quanto si legge in un passo della Relazione sul 2002:
“La moderazione salariale e la maggiore flessibilità dei rapporti di
lavoro sono da alcuni anni all’origine della crescita del numero di
occupati, sebbene soprattutto in attività caratterizzate da bassi livelli di
produttività” (p. 94; corsivo redazionale).
[i] Considerazioni finali, cit., p. 15.
[12] S. Brusco, S. Paba, op.cit., p. 265.
[13] Nelle Considerazioni finali, cit., p. 20.
[14] Vedi Relazione sul 2002, cit., pp.
139-40, 149; S. Tamburello, “Economia sommersa a quota 317 miliardi nel
2003”, Corriere della Sera, 25 agosto 2003. Cfr. anche F. Schneider - D.H.
Ernste, “Shadow Economics: Size, Causes and Consequences”, in Journal
of Economic Literature, 2000, p. 104.
[15] Unica eccezione, le imprese dagli 11 ai 20 addetti, in
flessione ad “appena” il 27,6% del totale: vedi, anche per ulteriori dati, l’Indagine
sulle imprese manifatturiere, cit., pp. 26-7.
[16] U. Bertone, Capitalisti d’Italia, cit.,
p. 75.
[17] R. Faini, “Ma il pubblico non ha colpe”, 1° luglio 2003 (l’articolo
è scaricabile dal sito www.lavoce.info).
[18] Vedi, rispettivamente: M. De Cecco, “Piccole
imprese, banche, commercialisti”, cit., p. 10; Considerazioni finali,
cit., pp. 20-21.
[19] M. De
Cecco, “Piccole imprese, banche, commercialisti”, cit., p. 12.
[20] Mi riferisco ad alcuni articoli di M. Fortis: “Le
difese possibili” (con A. Quadrio Curzio); “Un allarme sottovalutato”,
“La Cina affonda il made in Italy”, usciti su il Sole 24-Ore rispettivamente
il 3 settembre, il 19 settembre ed il 3 dicembre 2003.
[21] Vale inoltre la
pena di ricordare che le posizioni di mercato italiane,ad es. in Germania, sono
minacciate da vicino anche e soprattutto da produttori dell’Est europeo (ormai
di fatto membri dell’Unione Europea): in proposito vedi Relazione, cit., pp.
90, 116-7.