Il calabrone ha perso le ali. Le piccole e medie imprese nella crisi
Vladimiro Giacché
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“In molti casi la leadership italiana a livello di
interscambio mondiale appare pressoché inattaccabile nel medio-lungo
termine. Ad esempio, nei tessuti di lana il saldo commerciale italiano è
quasi 10 volte superiore a quello del secondo paese esportatore netto.”
(M. Fortis, 1998)
“Sarebbe grave non accorgersi di quanto sta accadendo: in alcuni
distretti come Prato, Fermo, Barletta, Biella, Como, Cadore, Manzano, Livenza
e l’area Murgiana nel giro di pochi mesi sono a rischio decine di migliaia
di posti di lavoro”
(M. Fortis, 2003) [1]
1. C’era una volta...
“Il ronzio sordo del calabrone è un rumore assopente delle
nostre estati. Ma secondo alcuni il nero insetto non avrebbe dovuto né ronzare
né volare. Ne ammettevano l’esistenza, ohibò, ma a patto che zampettasse
sulla terraferma. Fisici ed entomologhi si sono interrogati per lungo tempo
sulla levitazione del calabrone: come diavolo faceva a reggersi in aria? Il suo
peso, in rapporto alla superficie alare, rendeva impossibile il volo. Per sua
fortuna, il goffo insetto ignora le leggi della fisica, e le vìola
inconsapevolmente e mirabilmente.
Ecco, abbiamo voluto dare all’economia italiana l’immagine
di un calabrone. Come diavolo ha fatto l’Italia a divenire il quinto Paese
industriale del mondo? Con quel retaggio di immaturità statuale e di
arretratezza contadina che ne appesantiva le ali? Ma malgrado tutto e contro
tutto, il calabrone ha volato...”
Con queste parole suggestive si apre la storia dell’economia
italiana del Novecento scritta qualche anno addietro da Fabrizio Galimberti e
Luca Paolazzi. [2] Sono parole appropriate. Non perché siano corrette (al contrario, proverò
a dimostrare che esse contengono un fondamentale errore di prospettiva). Ma
perché esprimono bene il tono dominante nella maggior parte delle
narrazioni che prendono ad oggetto l’economia italiana - ed in particolare l’economia
italiana del secondo dopoguerra. Questo tono, espresso emblematicamente dalla
bella metafora che abbiamo riportato, è un tono di fiaba: per una favola che si
pretende a lieto fine.
Ma proviamo ad analizzare più da vicino i contenuti concreti
della metafora del calabrone. La metafora, in verità, è doppia: il “calabrone”
è l’immagine dell’economia italiana, le “leggi della fisica” sono le
leggi dell’economia. Il calabrone italico sfida le leggi economiche - e vince.
Qui non dobbiamo farci trarre in inganno dagli accenni del testo all’“immaturità
statuale” ed all’“arretratezza contadina”. Il punto non è questo. Non
è in questo che il “calabrone” italico sfida le leggi economiche e
rappresenta un unicum vincente: non mancano, infatti, altre storie
economiche di successo avvenute a dispetto dell’immaturità ed arretratezza
istituzionale (si pensi anche solo alla Germania di fine Ottocento); quanto poi
all’“arretratezza contadina”, è poco più che tautologico affermare che tutte
le economie capitalistiche si sono sviluppate sulla base di una preesistente
economia a prevalenza agricola. No: il punto è un altro. Il calabrone dell’economia
italiana - questa la tesi - avrebbe sfidato con successo le leggi economiche
sotto un diverso profilo: infrangendo la legge per cui la crescita della
dimensione delle imprese (in termini di capitali impiegati, di mezzi di
produzione posti in opera e di lavoratori occupati) è un fattore determinante
per il successo economico in una economia capitalistica avanzata; o, se si
vuole, confutando la concezione marxista per cui la concentrazione e la
centralizzazione dei capitali rappresentano fondamentali tendenze immanenti allo
sviluppo del modo di produzione capitalistico. [3]
Tradotto in termini concreti, il punto di vista di Galimberti
e Paolazzi - e con loro di molti altri - è questo: sono le piccole e medie
imprese ad aver reso forte l’economia italiana. L’economia italiana è
forte non a dispetto delle modeste dimensioni della maggior parte delle sue
imprese, ma grazie a ciò: in questo consiste la assoluta particolarità
del caso italiano. Questo concetto è stato variamente espresso - non di rado
avvalendosi di definizioni a forte valenza metaforica ed evocativa: così, sin
dagli anni Settanta si è parlato di “Italia dei distretti industriali”
(Becattini), di “terza Italia” (Bagnasco), di “capitalismo molecolare”
(Bonomi).
In effetti, i dati confermano la centralità delle PMI nel
tessuto economico italiano. Con riferimento specifico ai “distretti
industriali” (quindi un sottoinsieme delle PMI), Sebastiano Brusco e Sergio
Paba qualche anno fa hanno potuto affermare che “i sistemi produttivi in cui
hanno un ruolo preminente le imprese micro, piccole e medie assorbono in Italia
una quota di addetti all’industria manifatturiera che va dal 35 al 40 per
cento del totale... Questi sistemi, presi tutti insieme, sono un pezzo molto
rilevante del sistema produttivo italiano, più grosso di Fiat più Eni più Iri”.
[4] Del resto, le imprese con meno di 50 addetti, ancora nel 1991,
rappresentavano il 58% dell’intera forza-lavoro occupata in imprese
manifatturiere; tale percentuale saliva ad oltre il 71% considerando le imprese
con meno di 250 addetti. Non solo: nello stesso anno, prendendo a riferimento i
soli settori di punta dell’export italiano (il cosiddetto “made in Italy”,
ossia i settori del “sistema moda”, dell’alimentazione, dei prodotti per
la casa e l’arredo, ma anche del macchinario strumentale), la percentuale di
occupati presso imprese con meno di 200 addetti risultava pari addirittura all’84%
del totale. [5]
Non meno significative appaiono le linee di tendenza.
Se infatti si abbraccia il periodo che va dagli anni Cinquanta agli anni
Novanta, ci si avvede di un duplice movimento.
Nei primi due decenni assistiamo ad un importante fenomeno di
concentrazione industriale, conseguente a due processi: in primo luogo la
creazione di un mercato nazionale, che comporta un forte ridimensionamento delle
attività artigianali tradizionali e più in generale l’uscita dal mercato di
numerose piccole imprese a dimensione locale-regionale (entrambi i fenomeni sono
particolarmente evidenti nel Mezzogiorno): cosicché il peso delle piccolissime
imprese (quelle con meno di 10 addetti) passa in vent’anni da un terzo (1951)
ad un quinto (1971) dell’occupazione manifatturiera totale; in secondo luogo,
l’integrazione economica europea, che impone una ristrutturazione dell’apparato
produttivo nei settori più esposti alla concorrenza internazionale.
Dopo il 1971, però, lo scenario cambia. Riprende a crescere
l’occupazione nelle imprese sotto i 50 addetti: dal 42% del 1971 si passa al
48% del 1981, per giungere, come abbiamo visto sopra, al 58% del 1991. Il
processo opposto si registra nella media e grande impresa: quest’ultima, ossia
le imprese con più di 500 addetti, vede scendere la percentuale relativa di
forza-lavoro occupata di ben 11 punti dal 1971 al 1991. Ancora più eclatante
quanto accade alle imprese con più di 1000 dipendenti: se dal 1961 alla fine
del decennio l’occupazione in queste imprese era cresciuta del 34,7% (a fronte
di una crescita dell’occupazione nell’industria del 17,6%), negli anni
Settanta il percorso si inverte: dal 1971 al 1980 si ha un calo del 9,7% nella
grande industria (a fronte di una crescita dell’occupazione del 12%); [6] il calo dell’occupazione nella
grande industria continuerà per tutto il ventennio successivo (per avere un’idea
della situazione, si pensi anche solo alle vicende della Fiat, che proprio dal
1980 imbocca con decisione la strada dell’espulsione della forza-lavoro dalle
fabbriche).
E oggi? Tali processi si sono ulteriormente accentuati: se ai
censimenti del 1981 e 1991 la dimensione media in termini di addetti delle
aziende italiane risultava pari a 4,5, essa nel 2001 è scesa a 3,9. Non solo:
le imprese con più di 500 addetti - “grandi” - erano 1.265 (con il 18,8%
degli addetti, 2,4 milioni) nel 1981; 1.173 (con il 18,1% degli addetti, 2,6
milioni) nel 1991; 1.061 (con il 16,2% degli addetti, 2,2 milioni) nel 1996. Il
95 per cento delle aziende ha meno di 10 dipendenti; anche nell’industria la
dimensione media è appena di 6,5 addetti. [7]
2. “Piccolo è bello”: il nanismo e i suoi perché (presunti)
Fin qui le cifre. Come si spiegano? I cantori della gesta
delle PMI rispondono essenzialmente con quattro argomenti, tra loro connessi:
a) La crisi del fordismo. Secondo questo argomento,
di fronte alla perdita di importanza della produzione standardizzata di massa,
la grande industria si sarebbe dimostrata incapace di seguire i bisogni sempre
più sofisticati e personalizzati del consumatore. Viceversa, la piccola
impresa sarebbe per sua natura più flessibile, innovativa e capace di
cogliere le esigenze della clientela. Per rafforzare questo argomento, si fa
in genere riferimento alle specifiche nicchie di specializzazione delle
imprese italiane, che riguardano tra l’altro la cura della persona, l’arredo-casa,
la moda. Tutti settori, si argomenta, in cui l’inventiva e la
personalizzazione del prodotto giocano un ruolo fondamentale.
b) La relativa importanza delle economie di scala.
Secondo questo argomento, le economie di scala nella produzione non sono l’unico,
né il principale fattore competitivo. Sooprattutto, se si considerano non le
PMI isolate, ma i “sistemi di piccole imprese” che caratterizzano i “distretti
industriali”: questi ultimi - così la tesi - riescono a raggiungere lo
stesso risultato delle economie di scala della grande impresa (ossia la
riduzione dei costi di produzione) mettendo in comune servizi, informazioni,
rapporti con i fornitori ecc.
c) La grande importanza delle innovazioni incrementali.
Questo argomento punta a sminuire l’importanza delle attività di ricerca e
sviluppo tecnologico, che solo le grandi imprese possono permettersi e che
danno luogo a nuovi prodotti (poniamo, la scoperta di nuovi polimeri che
consente alla Montecatini di produrre il moplen, o la scoperta del nailon),
enfatizzando per contro le innovazioni incrementali: quelle innovazioni,
cioè, che affinano prodotti già esistenti, variandoli in misura lieve ma
significativa, personalizzandoli e facendone qualcosa di nuovo (ad esempio,
così Brusco e Paba, la realizzazione di “una mischia equilibrata di lana
cachemire e lana merinos, con una dose minima di fiocco di nailon”, tale da
“produrre un tessuto leggero, morbidissimo e resistente”). [8]
d) La libertà dai “lacci e lacciuoli” che avvincono
la grande industria. Secondo quest’ultimo argomento, le PMI, proprio a
motivo della loro ridotta dimensione, patirebbero meno delle grandi imprese
vincoli regolamentari, fiscali e sindacali. Non è difficile capire di cosa
stiamo parlando: sarà sufficiente ricordare il tenore della campagna contro l’estensione
dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori anche alle imprese al di sotto dei
15 dipendenti...
A queste argomentazioni si può rispondere in molti modi,
tanto sotto un profilo metodologico quanto da un punto di vista più
strettamente fattuale.
a) Ad esempio, con riferimento all’argomento “postfordista”
si può argomentare che la produzione standardizzata di massa non ha perso per
nulla la sua importanza (se non per pochi prodotti realmente di nicchia, che
in ogni caso coprono una porzione minima anche della produzione italiana), e
che comunque le grandi imprese sono oggi in grado di dare ai loro prodotti
quel tanto di “aura personale” in grado di incontrare il gusto del
consumatore (le cui raffinate esigenze, sia detto per inciso, non sono che il
prodotto della maturità di alcuni mercati di sbocco - ossia di una situazione
di endemica sovrapproduzione che dura ormai da decenni). Comunque sia, non
sembra che alcuni dei settori in cui l’export italiano è tradizionalmente
forte, come quello della meccanica strumentale, siano particolarmente
sensibili alla “personalizzazione dell’offerta”...
b) Quanto alle economie di scala “aggirate” dalle
cooperazioni a carattere consortile presenti nei cosiddetti “distretti
industriali”, va rilevato che si tratta di discorsi piuttosto generici e
perlopiù privi di sufficienti specificazioni e di dati quantitativi a
supporto. Del resto, non è fuori luogo ricordare che anche solo sulla definizione
di “distretti industriali” non esiste alcun accordo tra gli studiosi -
tanto che le stime sul loro stesso numero variano in misura considerevole da
un autore all’altro. [9]
c) Quanto all’argomento delle innovazioni incrementali
(su cui tornerò più avanti) basterà dire che la sua stessa impostazione
presuppone proprio ciò che pretenderebbe di negare: ossia la necessità
della grande industria. In effetti, perché io possa pensare di unire il
nailon ad altre fibre, è quantomeno necessario che qualcuno abbia prima
inventato il nailon. Che è come dire che lo sviluppo delle PMI non è
autosostenuto, ma presuppone l’esistenza di una grande impresa (pubblica o
privata) che fa ricerca applicata e innovazione di prodotto.
d) Infine, l’argomento dei “lacci e lacciuoli”. È
certamente valido - anche troppo, come vedremo.
Quanto sopra - e molto altro - si potrebbe dire. Ed è
stato detto da parte di non pochi autori. Ai quali per molti anni è stato
risposto... con la metafora del calabrone. Ossia esibendo i successi ottenuti
dal “made in Italy” nel mondo, e confrontandoli con i disastri della
chimica, dell’auto e di altri settori di pertinenza della (fu) grande
industria italiana. Atteggiamento comprensibile: il successo, in un certo senso,
si autogiustifica, si spiega da sé. È la sconfitta che richiede di essere
spiegata, analizzata, capita.
Sennonché, da qualche tempo in qua, cresce il bisogno di
spiegare, analizzare, capire. Perché al nostro calabrone il successo non arride
più. Anzi.
3. La forza del declino
Nella relazione del Governatore della Banca d’Italia del 31
maggio 2003 si poteva leggere quanto segue:
“In cinque anni, tra il 1997 e il 2002, la produzione
industriale ha segnato in Italia un aumento del 3 per cento. In Francia l’incremento
è stato intorno all’11, in Germania del 12; nell’area dell’euro,
escludendo l’Italia, si situa al 14 per cento...
La quota delle esportazioni italiane nel mercato mondiale era
progressivamente salita, tra gli anni cinquanta e gli anni ottanta, dal 2 al 4,5
per cento...
Dalla metà degli anni novanta è iniziato un declino della
competitività che ha riportato la partecipazione italiana agli scambi mondiali
al livello raggiunto alla metà degli anni sessanta. A prezzi costanti, la quota
di mercato è diminuita dal 4,5 per cento nel 1995 al 3,6 nel 2002. La perdita
è diffusa in tutti i mercati.” [i]
“Nel 2002 le esportazioni di beni e servizi sono diminuite
in Italia dell’1% a prezzi costanti, per la prima volta negli ultimi dieci
anni... Nel complesso dell’anno il ristagno delle esportazioni di beni si
confronta con una crescita del commercio mondiale nell’ordine del 3%...
Nel 2002 quasi tutti i principali settori di specializzazione
hanno registrato una diminuzione delle esportazioni in valore: apparecchi
elettrici e di precisione (-10,8%), cuoio e calzature (-8,7%), prodotti tessili
dell’abbigliamento (- 4,7%), mobili (-3,5%) e macchine e apparecchi meccanici
(-2,8%)”. Uniche eccezioni: “le esportazioni di prodotti alimentari, bevande
e tabacco (+5,7%), di prodotti chimici (+ 3,8%) e di mezzi di trasporto (+ 2,2%,
nonostante una caduta del 5% nel comparto degli autoveicoli)”. [i]
Se poi prendiamo i dati Istat relativi ai primi 11 mesi del
2003, assistiamo ad un vero e proprio crollo, guidato da cuoio e prodotti in
cuoio (- 21,2%) e legno (- 19,1%), e seguito dal tessile-abbigliamento (-12,3%),
dalla meccanica (- 8,4%), dai mezzi di trasporto (- 8,4%) e dagli alimentari (-
7,4%). Si salvano soltanto i prodotti petroliferi raffinati (+ 28,2%) e la
chimica (+ 2,5%). E comunque il saldo è negativo: esportazioni in calo del 4,4%
su base annua. [10]
Comprensibilmente, tra i passatempi preferiti degli arcoriani
al governo (e degli “intellettuali” al seguito) vi è l’escogitazione di
trucchetti dialettici per coprire e mistificare questa realtà allarmante.
Lasciando da parte per carità di patria i più risibili (del tipo: “è tutta
colpa dell’11 settembre”), uno dei più gettonati è il seguente: “guardate
che la Germania sta peggio di noi”. Falso. Perché, se è vero che nel 2002 (e
nel 2003) la produzione ha ristagnato sia in Germania che in Italia, le cause
sono ben diverse: nel primo caso il motivo è la debolezza della domanda
interna, nel secondo è il crollo dell’export.
E non si tratta di una tendenza di breve periodo. Come ha
evidenziato il vicedirettore generale della Banca d’Italia, Pierluigi Ciocca,
nell’ottobre scorso, “dal primo trimestre del 2001 al terzo del 2003 l’espansione
dell’attività produttiva è stata pressoché nulla: la più lunga fase di
ristagno in mezzo secolo”. Ecco la realtà del “miracolo italiano”
promesso da Berlusconi & Soci. Ma ecco anche - ed è questo che qui
interessa rilevare - la situazione di un tessuto produttivo imperniato sulle
piccole e medie imprese. Leggiamo ancora Ciocca: “il limite del made in
Italy è nei prezzi alti. Ma anche nella qualità, nella composizione
merceologica, nel vecchio pertinace modello di specializzazione”. Ed è
proprio la ridotta dimensione delle imprese che “congela quel modello,
restringe l’investimento all’estero, limita le esportazioni”. [11]
Quali che siano le cause, una cosa è certa: il quadro che
abbiamo di fronte oggi è drammaticamente diverso anche solo da quello della
fine degli anni Novanta. L’“invincibile armata” dei piccoli sembra in
rotta. Apparentemente, di invincibile c’è solo la forza del declino. Il
declino di un modello di specializzazione, di un modello dimensionale, in ultima
analisi di un modello di capitalismo. È una situazione che può spingere l’Italia
inesorabilmente ai margini dell’economia europea, consegnandole un ruolo
periferico nella divisione internazionale del lavoro. Ma che ha almeno un
merito: quello di fare giustizia del mito dell’“unicità del caso italiano e
delle PMI”, creato dalla pubblicistica economica nei lontani anni Settanta e
riprodottosi per decenni, grazie soprattutto ad alcune fortunate circostanze ed
al suo comodo carattere ideologico e consolatorio. Sì, perché la crisi di oggi
è in grado di farci comprendere la verità sulla “terza Italia”: essa ci
rivela infatti quali fossero la ragion d’essere ed i vantaggi competitivi
(quelli veri) delle piccole e medie imprese italiane - e lo fa nel preciso
momento in cui cominciano a perdere di significato e di efficacia. Vediamo.
[1] Le due citazioni sono tratte da: M. Fortis, Il made
in Italy, Bologna, Il Mulino, 1998, p. 37; “La Cina affonda il made
in Italy”, il Sole 24-Ore, 3 dicembre 2003.
[2] F. Galimberti, L. Paolazzi, Il volo del calabrone. Breve
storia dell’economia italiana nel Novecento, Firenze, Le Monnier, 1998, p.
1.
[3] Al riguardo vedi almeno K.
Marx, Il Capitale, libro III, cap. 13 e e cap. 15 (tr. it. di M. L.
Boggeri, Roma, Editori Riuniti, 1968, p. 267 e 303).
[4] S. Brusco, S. Paba, “Per una storia dei distretti industriali italiani
dal secondo dopoguerra agli anni novanta”, in F. Barca (a cura di), Storia
del capitalismo italiano dal dopoguerra ad oggi, Roma, Donzelli, 1997, p.
320.
[5] Cfr. rispettivamente F. Galimberti, L. Paolazzi, op. cit., p.
280; S. Brusco, S. Paba, op.cit., pp. 268 sg.; M. Fortis, Il made in
Italy, cit., p. 44.
[6] Dati
riportati in S. Brusco, S. Paba, op.cit., pp. 271; U. Bertone, Capitalisti
d’Italia, Novara, Boroli, 2003, p. 113.
[7] P. Ciocca, L’economia
italiana: un problema di crescita, relazione letta alla Società Italiana
degli Economisti, Salerno, 25 ottobre 2003, n. 25.
[8] Vedi S.
Brusco, S. Paba, op.cit., pp. 298-9.
[9] Per un eloquente esempio di queste difficoltà si
vedano le pagine 272-279 del già citato saggio di Brusco e Paba, e i dubbi
che onestamente i due autori si pongono a p. 293.
[i] Considerazioni finali del governatore
della Banca d’Italia, 31 maggio 2003, pp. 15-16.
[i] Relazione
del governatore sull’esercizio 2002, maggio 2003, pp. 181, 114. Si veda
anche la tabella sul grado di utilizzo degli impianti nei diversi comparti,
riportata nell’Appendice statistica alla relazione, p. 65.
[10] V. Chierchia, E. Pagnotta, “Il made in Italy soffre ancora”,
il Sole 24-Ore, 23 gennaio 2004.
[11] P. Ciocca,
L’economia italiana, cit., pp. 1, 3, 8.