Sul lavoro atipico in America Latina
Jacob Carlos Lima
La “nova informalidade” e i lavoratori: più guadagno (?), meno diritti
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Considerazioni generali [1]
Nei dibattiti degli anni ’60 e ’70 il lavoro atipico era
stato sinonimo del problema della disoccupazione, del lavoro dequalificato e
della disoccupazione nascosta, caratteristico dei paesi periferici al sistema
capitalista, o delle comunità d’emigranti nei paesi al centro del sistema.
Negli anni ’80, l’aumento di questo problema, sia nella periferia sia al
centro del sistema capitalista, aveva posto il dibattito in termini nuovi: il
risanamento economico, la disoccupazione strutturale, il funzionamento dello
Stato e la flessibilità del lavoro. Un nuovo contesto, un nuovo “regime d’accumulazione”
nel quale l’informalidade sarebbe stata la risposta ai cambiamenti
imposti al sistema.
Il concetto è molto ampio e forte di carica polemica, e pur
avendo come obiettivo iniziale quello di spiegare le dinamiche della piccola
impresa e del lavoro in proprio in paesi in via di sviluppo, include anche il
lavoro nell’ambito familiare in piccoli laboratori, il lavoro nero, il lavoro
sottopagato, quello in cooperative e associazioni autonome ed infine un’enormità
di situazioni caratterizzate dall’assenza di contratti formali o non
standardizzati. Per autori come De Soto (1986), che analizzano il caso
peruviano, la presenza e il continuo crescere di questo fenomeno si
rifletterebbe in una dinamica economica positiva per i paesi cosiddetti
periferici: coloro che lavorano per proprio conto sarebbero considerati piccoli
imprenditori in contrapposizione ad uno Stato regolatore in mani oligarchiche.
Sarebbe come approssimarsi ad una condizione di distretti industriali di piccoli
imprenditori, inseriti in un’economia competitiva nella quale il lavoratore
avrebbe più possibilità [2].
Sotto diversi aspetti, la crescita del lavoro atipico
rappresenterebbe, per eccellenza, la flessibilità nella produzione e nei
rapporti di lavoro, riflettendo il risanamento economico in termini più
globali: l’incorporazione dei nuovi territori allo sviluppo capitalista, la
deindustrializzazione di aree tradizionali e l’industrializzazione di altre,
le nuove tecnologie per la produzione e quelle per l’organizzazione, la
disoccupazione strutturale e la necessità di trovare nuove opzioni per l’occupazione
al di fuori dei parametri dei rapporti salariali. Informalidade significa
anche lavoratori meno organizzati, con minor potere contrattuale, ma maggior “guadagno”
(?), ossia la possibilità, in questo modo, di un minor controllo del capitale
sulla fornitura del lavoro e di una maggiore quantità di nuovi investimenti in
una regione o nell’intero paese. Tendenzialmente ciò risponderebbe sia alle
necessità dettate dalla competizione mondiale e dai rapidi mutamenti, frutto
dell’impiego di nuove tecnologie per la produzione, sia alla ricerca
incessante da parte delle imprese della riduzione dei costi [3].
In una distinta prospettiva ideologica, sindacati, ong e
movimenti sociali propongono il recupero di varianti di lavoro atipico, tra cui
le cooperative, come soluzione all’aumento dello sfruttamento del lavoro e
dell’impiego, dove il lavoratore è proprietario dei mezzi della produzione e
l’inserimento nel mercato del lavoro è facilitato in maniera non defraudante.
Nel frattempo, in un quadro caratterizzato dalle cosiddette imprese rete con
produzione affidata a terzi, rimane discutibile sia l’autonomia delle
attività delle cooperative, la cui dipendenza è provocata dalla
sottocontrattazione, sia il carattere di non sfruttamento di questo rapporto di
lavoro.
Lontano dall’essere qualcosa di nuovo, l’informalidade
nella produzione e la sottocontrattazione, sono sempre stati presenti nel
capitalismo industriale. Sono mutati però il modello produttivo e il rapporto
salariale formale che, nel secolo XX attraverso la regolamentazione statale dei
mercati e dei rapporti di lavoro, avevano fatto proprio il risultato delle
rivendicazioni e le lotte del movimento operaio e sindacale. La nozione di “impiego”
vincolata ai diritti sociali di base è indebolita e sostituita dal corollario
neoliberale della libertà di mercato. L’informalidade recupera i
rapporti d’assunzione pre-regolamentazione, poiché la formalizzazione e i
diritti del lavoro diventano progressivamente un’eccezione che riguarda gruppi
di lavoratori organizzati e con potere contrattuale, vincolati a grandi imprese
e allo Stato, ma non coinvolge la maggior parte dei lavoratori.
L’affidamento della produzione a terzi è uno degli
elementi di questo processo, in cui le imprese “primarie”, per eliminare il
costo della forza lavoro, trasferiscono ad altre imprese i settori produttivi a
lavoro intensivo. Così si moltiplicano le aziende che lavorano in condizione di
sottocontratto o che si specializzano nel fornire lavoratori ad altre imprese.
In questa nuova dimensione sono inclusi non soltanto coloro che lavorano a casa
nella rifinitura di prodotti industrializzati (come per esempio le sarte), ma
anche lavoratori, altamente qualificati, che svolgono la loro attività nei
servizi lavorando come “consulenti” sui propri terminali di casa ed
utilizzando internet per mettersi in contatto con le imprese. In questa maniera,
l’informalidade cresce non solo tra i lavoratori poco istruiti e poco
qualificati, ma anche tra i lavoratori altamente qualificati integrati a livelli
medi d’impiego.
Neanche l’impiego pubblico è rimasto immune dal periodo
della flessibilità. Se prima era una garanzia d’impiego formale [4], stabile e d’osservanza
dei diritti, ora si passa sempre di più ad utilizzare la logica di mercato come
garanzia d’efficienza delle politiche pubbliche, attraverso contratti
temporanei o addirittura senza alcun contratto, eliminando la figura del
funzionario e limitando le possibilità di carriera.
Informalidade e flessibilità [5] si
confondono pur essendo concetti distinti. Flessibilità nel lavoro significa
riduzione della regolamentazione statale sul mercato del lavoro e
liberalizzazione di questo. I contratti sono realizzati tra impiegati e datori
di lavoro ed i giorni lavorativi, i benefici e gli orari, sono negoziati
direttamente tra le parti. Si riducono i contratti a tempo indeterminato e si
sostituiscono con contratti temporanei, part-time e a paga ridotta, oppure,
attraverso contratti ridotti, si trasferisce ad altre imprese la gestione della
forza lavoro. Questo significa tendenzialmente una maggiore richiesta di
qualifiche e d’istruzione e un’intensificazione del lavoro non specializzato
e multifunzionale. Questo riguarda indifferentemente lavoratori qualificati e
non, dove i primi riescono a beneficiare della flessibilità, mentre per i
secondi la precarietà è la conseguenza più evidente. L’informalidade,
a sua volta, va oltre la regolamentazione del mercato del lavoro o la sfiora
soltanto.
Una delle tesi favorevoli alla flessibilità nel rapporto di
lavoro afferma che il lavoratore ne otterrebbe maggior guadagno. Questo perché
il lavoratore, eliminando le tasse e i contributi relativi agli oneri sociali,
li percepirebbe come parte dei propri guadagni. In alcuni casi questo avviene
veramente, così che il lavoratore è obbligato ad essere responsabile del
pagamento degli oneri sociali per assicurarsi l’accesso ai servizi base sulla
salute, sulla previdenza sociale e su altri benefici. Ma spesso, poiché questo
non ha un salario fisso e dipende dalla propria capacità produttiva, si
preoccupa raramente degli oneri sociali. Così un maggior guadagno può
significare un minore accesso a benefici legati ad un rapporto salariale
formale, come la certezza di un salario in caso di malattia, il pensionamento, e
le ferie remunerate.
La questione salariale sta al centro del dibattito sulla
flessibilità e l’informalidade è una delle sue tendenze. Nel
frattempo la questione rimane complessa e si evolve in una miriade di situazioni
in cui la particolarità del lavoro o del servizio prestato comporta una
percezione diversa, da parte dei lavoratori, dei diritti sociali e del loro
vincolo al lavoro.
Il nostro obiettivo in questo testo è di analizzare alcune
situazioni di lavoro nelle quali flessibilità e informalidade vanno di
pari passo, nonostante le differenze storiche, nella loro forma e nei loro
obiettivi. Presenteremo tre situazioni tipicamente rappresentative del nuovo, ma
neanche troppo, contesto lavorativo atipico, qui inteso come lavoro non
standardizzato, non regolare, e flessibile, all’interno di un insieme di
possibilità considerate come opzioni all’impiego formale, regolare, e
salariato: a) un’area tradizionale di produzione d’indumenti all’interno
della zona di Parnambuco; b) cooperative di produzione industriale organizzate
dallo Stato nel Ceará; e c) il lavoro temporaneo per lo Stato, di assistenti
sociali della salute nel Ceará e nel Paraíba. Queste tre situazioni, non
necessariamente nuove, riflettono il cambiamento nel mondo del lavoro all’interno
del modello della flessibilità, permettendo, in gran misura, di comprenderne la
complessità e le conseguenze sui protagonisti sociali coinvolti, evidenziando
le varie sfumature della loro percezione dell’assunzione e dei loro diritti [6]. Non si tratta di verificare da dove è venuto l’impiego,
dato che si tratta di una regione nella quale è stato sempre scarso, quanto
invece di svelare le forme utilizzate per dribblare la sua scarsezza o le
soluzioni implementate per sopperire alla sua assenza.
1. L’informalidade nell’area tradizionale - Caruaru, Santa Cruz do
Capibaribe e Toritama nel Pernambuco
Lo studio sull’informalidade nell’America Latina e
nel Terzo mondo in generale è stato vincolata al processo di urbanizzazione
accelerata di città, capitali nazionali, statali e provinciali e all’emarginazione
scaturita dal processo di urbanizzazione senza industrializzazione. Quest’emarginazione,
è stata in seguito considerata come inerente al sistema e come parte necessaria
di quell’esercito di riserva che garantiva il basso costo del lavoro e il
riciclo della forza lavoro.
Nel caso analizzato abbiamo una situazione, se non opposta
quantomeno differente alla tendenza dell’urbanizzazione delle grandi città.
Si tratta di tre città situate nella regione del Brasile dell’Agreste del
Pernambuco a una distanza di circa 136-160 Km da Recife, una delle maggiori
capitali del nordest: Caruaru con approssimativamente 230.000 abitanti, la
seconda città dello Stato fuori della regione metropolitana, Santa Cruz do
Capibaribe con 59.000 e Toritama con 18.931.
Attualmente nelle tre città sono concentrate il 53% delle
aziende produttrici di abbigliamento dello Stato, sebbene formalmente il 45%
delle imprese sono situate a Recife e circa il 28% nella regione dell’Agreste
(Donhert, 1998).
La regione è conosciuta per il mercato della sulanca
nel quale si vendono i prodotti fabbricati localmente dalle imprese situate nell’area.
Il termine sulanca, composto dall’unione delle parole sul e helanca,
ha origine dai negozianti locali che vendevano a Recife, negli anni ’40 e ’50,
carne essiccata, pollame, formaggio e carbone e portavano nella città di Santa
Cruz do Capibaribe ritagli di tessuto cuciti dalle donne come biancheria intima,
abiti per bambini, shorts e patchwork. Recife e i suoi dintorni era, in quell’epoca,
il principale polo tessile del nordest.
A partire dagli anni ’60, alcuni camionisti avevano
iniziato a recarsi a S. Paulo con l’helanca, un tessuto di maglia
sintetica, introdotto nelle fabbriche pauliste. L’helanca, che era di
moda in questo periodo, era comperata direttamente dalle punte di stocco,
portata a Santa Cruz, trasformata in indumenti a buon mercato e venduta in
città. Nel 1969, era stato creato un mercato settimanale nel quale questo
prodotto era messo in commercio. La buona richiesta incoraggiò gli altri
produttori e la città si specializzò nella produzione di maglieria.
Negli anni ’70, con l’apertura di banche nella città e
la possibilità di ottenere prestiti per l’acquisto di macchinari elettrici
per la tessitura, si era moltiplicato il numero di piccoli produttori ed era
aumentata la domanda da parte di tutta la regione, attratta dai prezzi bassi.
Nel 1979 con l’asfaltatura della strada Caruaru-Santa Cruz, il mercato
comincia ad attirare un numero crescente di compratori.
Toritama, città vicina a Santa Cruz, negli anni ’70
contava approssimativamente 100 piccole industrie calzaturiere che davano lavoro
a circa il 50% della popolazione (Bezerra Soares, 2000). I terreni pietrosi
della regione non favorivano l’agricoltura, limitata a prodotti di
sussistenza. Con l’aumento del prezzo del cuoio negli anni ’80 la sua
produzione era entrata in crisi ed era stata sostituita dalla produzione di
jeans, traendo vantaggio dalle già presenti macchine per la tessitura. Prodotto
in numerosi fabricos e gruppi di produzione, il jeans cominciava ad
essere venduto sul mercato di Santa Cruz e nella fiera che si svolgeva in
città.
La produzione di Santa Cruz e Toritama era venduta nella
cosiddetta “Fiera da Sulanca” di Caruaru (il lunedì sera e il martedì
mattina) durante il giorno di festa della città, di Santa Cruz (lunedì mattina
e mercoledì) e in quella di Toritama il martedì, sul bordo della strada
rotabile che collegava Caruaru a Santa Cruz. Il termine sulanca era
divenuto sinonimo d’abbigliamento a basso prezzo e di bassa qualità.
La produzione è praticamente tutta legata al lavoro atipico,
infatti quasi il 90% di questo è fornito senza contratto da piccole fabbriche
ricavate in fondo ai cortili: i fabricos, generalmente un prolungamento
della residenza del proprietario. Con la crescita della domanda e della
produzione ne erano state aperte in numero sempre più grande. A Santa Cruz si
stimava la presenza di 3.000/3.500 piccole imprese a lavoro atipico che
impiegavano 25.000 persone (Dohnert: 1998) e 100 di dimensioni più grandi. Il
mercato contava 20.000 venditori ambulanti e 6.000 bancarelle, poiché aveva
attratto i grandi grossisti di tessuti che avevano finito con lo stabilirsi in
città. La produzione della città forniva abbigliamento confezionato alla
regione e allo stesso tempo alle catene nazionali di negozi che avevano
cominciato a comperare la produzione locale di biancheria intima. Oltre a
questo, raccoglieva le eventuali richieste fuori periodo per la produzione di
costumi per il carnevale, per le campagne elettorali, ecc.
A Toritama, circa 3.000 fabricos e 60 lavanderie producevano
300.000 capi di jeans a settimana. Circa il 90% della popolazione viveva di
cucito. Oltre alle sarte, ai venditori, e ai proprietari di muli per il
trasporto delle mercanzie, componevano il contingente di lavoratori locali, gli
abitanti, non solo della città, ma anche delle città vicine, che con l’autobus
andavano giornalmente a Santa Cruz e a Toritama. Insieme, consumavano l’8%
della produzione nazionale di jeans (Exame 07.02.2001).
Le due città avevano raggiunto la “piena” occupazione e
i guadagni dei lavoratori, nella maggior parte, superavano il salario minimo.
Rispetto al periodo, le sarte riuscivano a guadagnare approssimativamente fino a
tre salari [7].
Nonostante questa crescita, tuttavia le città non
possedevano sistemi di depurazione, di raccolta dei rifiuti, e di fornitura
regolare d’acqua. L’acqua usata nelle lavanderie era riversata direttamente
nell’ambiente insieme alla spazzatura e all’acqua dei canali di scolo
domestici. Questa mancanza di infrastrutture insieme al ristretto accesso al
finanziamento pubblico è stato considerato tra i principali ostacoli all’espansione
del raggio d’affari della regione.
Nel 1995, Santa Cruz e Toritama sono entrate in crisi a causa
della concorrenza dei prodotti asiatici e della fama del sulanca come
merce di bassa qualità. Da questo momento in poi viene fatto uno sforzo per
rendere il lavoro più formale, allo scopo di amministrare meglio i mercati e la
loro espansione.
Per i lavoratori, in maggioranza donne, la tendenza, finora
limitata, al contratto formale e all’iscrizione al collocamento, è vista con
timore. Come prima cosa si teme una riduzione del guadagno. Guadagnando in base
alla quantità prodotta, si ha paura che, con l’iscrizione al collocamento, si
riceva solo quanto stabilito dal contratto, escludendo il carattere stagionale
di certi guadagni. L’esitazione delle lavoratrici, che sono nella condizione
di impiantare un loro fabrico o di dare inizio ad un loro proprio gruppo
di lavoro, considerato il relativo basso costo d’entrata nel settore e l’opportunità
di diventare proprietarie o di quelle che diventando indipendenti lavorano a
casa su commessa per i fabricos e gli atêlies della città o di quelle che da
operaie irregolari o regolari lavorano nei fabricos o nelle fabbriche, è
legata alla paura di tornare ad una situazione salariale poco attraente. Il
rapporto salariale e i diritti sociali sono visti positivamente, ma non
costituiscono un motivo di rivendicazione. Poiché si tratta in maggioranza di
donne, queste considerano i loro guadagni come complementari a quelli del
marito, anche nel caso in cui questi siano più elevati o addirittura gli unici
certi in casa. Nel caso in cui sono senza marito il gruppo famigliare ne
garantisce la sussistenza. Predomina una cultura locale di piccoli produttori
indipendenti che vendono la loro produzione direttamente nei mercati a
compratori di vari luoghi, potendo raggiungere guadagni relativamente elevati,
in qualunque periodo dell’anno [8].
[1] Con questo termine è indicato il lavoro svolto
senza un formale contratto e senza garanzie (ferie retribuite, permessi, assenze
per malattia retribuite, accesso al sistema pensionistico, ecc.) a cui molti
lavoratori in Brasile fanno ricorso pur di avere un posto di lavoro (Ndt).
[2] Per un profondimento sulla tematica de “l’informalità”
si veda Pettie (1974), Portes e Castells (1989).
[3] Cacciamalli (2000,
p. 64).
[4] In Brasile
non sempre ai diversi gradi di dell’apparato Statale si osserva la
legislazione. Inoltre, sarebbero ancora presenti una serie di contratti
temporanei per professori, medici, e professionisti vari.
[5] Per un approfondimento sul
concetto della flessibilità si veda Sabel e Piore (1984) e Harvey (1993).
[6] I
dati presentati si riferiscono ad un insieme di ricerche realizzate in
collaborazione al Programma de Pós-graduação em Sociologia dell’Universidade
Federal da Paraíba con il supporto del CNPq, sulla tematica della Flessibilità
e dell’Informalità.
[7] Ricerca di Soares tra le sarte in Toritama e Vertenses (2001)
[8] Ricerca di SABRAE del 1991, citata da Azais
(1998), in Santa Cruz do Capibaribe, dimostrava che l’80% dei lavoratori
guadagnavano in media meno di un salario minimo mensile.