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Forum: Crisi e organizzazione di classe

a cura di Fabio Sebastiani [1]

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Il nodo politico dell’unità di classe non è più rinviabile. Tanto più in una fase in cui il capitalismo mostra i caratteri di una crisi strutturale e le risposte dei vari schieramenti politici tendono ad uniformarsi. È questo, in sintesi, quel che esce dal Forum che Proteo ha organizzato tra Luciano Vasapollo, direttore del centro studi Cestes/Proteo, Paolo Leonardi, coordinatore nazionale delle Rappresentanze sindacali di Base/Cub e Fabio Sebastiani, giornalista di Liberazione.

In molti hanno letto in questa lunga fase di cambiamenti strutturali iniziati con la vicenda del Libro Bianco di Maroni e con l’accordo separato dei metalmeccanici una vittoria importante del capitalismo sul lavoro. In realtà occorre usare molta cautela.

Se da una parte è vero che il capitalismo ha stravolto decenni di conquiste del movimento dei lavoratori andandone ad intaccare lo status nel suo rapporto strutturale con l’azienda, dall’altra ormai è evidente che si pone il problema di nuovi modelli di organizzazione di classe. Ovviamente, come agli inizi del novecento, quando nacquero le prime camere del lavoro, non c’è nulla che si costruisce ex novo. Molto dipende dalla capacità di rintracciare nella memoria quegli strumenti utili a dar vita a una rete di solidarietà e di lotte che sappia nuovamente incidere sulla condizione del lavoro. C’è poca politica e molto saper fare in questa sfida. Tutto dipende dalla capacità di costruire piattaforme realmente unificanti.

Va comunque registrato un dato importante: il capitalismo in questa sua ricerca forsennata, e disperata, di valorizzazione, non segue un disegno definito ma procede a tentoni. Questo, chiaramente, lo espone a un alto grado di debolezza. In più, le contraddizioni interne sono altissime. A dimostrarlo sono le numerose guerre in corso e un quadro internazionale che dal punto di vista dei flussi di capitale e delle aree di influenza mostra tensioni senza precedenti. La natura della crisi, infatti, non permette una facile ricomposizione politica degli interessi e, da un punto di vista strutturale, le spinte alla valorizzazione, soprattutto quelle di natura finanziaria, appaiono sempre più senza regole definite. Quello che sta accadendo, per esempio, con la vicenda dei noli portuali lo dimostra ampiamente. Il forte sviluppo dell’area della Cina sta imprimendo ai noli delle navi prezzi altissimi. Ciò sta portando ad un vertiginoso aumento del prezzi di alcune materie prime. Prezzi che si rifletteranno, come valutano alcuni esperti, sulla ripresa delle deboli economie occidentali. È il mercato, bellezza!

Fabio Sebastiani: Siamo di fronte a una crisi classica del capitaslimo, ovvero, perché il capitale continua ad “umiliare” il salario senza capire che una ripresa dei consumi può aiutare la ripresa? E ancora, si ripresenterà il modello usato negli anni ’70, con un traino dell’economia americana rispetto all’economia mondiale, oppure l’Europa è in grado di giocare un ruolo più autonomo e incisivo?

La lotta di classe la fanno i padroni

Luciano Vasapollo: Il ragionamento va inquadrato nell’ambito di una crisi di tipo internazionale. Non possiamo, ovviamente, fare un ragionamento di crisi economiche nazionali perché non si tratta di questo. Rispetto alla crisi classica non ci sono elementi di realtà che ci collegano ad essa. Non è la classica crisi congiunturale, insomma. Lo dimostrano i parametri macroeconomici e l’andamento di questa crisi. È una crisi che parte da lontano. Abbiamo detto più volte che ci sono tutti gli elementi per parlare di una crisi strutturale e non di una crisi congiunturale. Se invece di analizzare la crisi in un arco di sei-nove mesi, lo guardiamo in termini più lunghi, cioè a partire dalla crisi petrolifera degli anni ’70, ci accorgiamo che in maniera costante per circa 30 anni c’è stata una crisi di sovrapproduzione, una crisi di sottoconsumo e una crisi di accumulazione. Si è tentato di uscire da questa crisi in vario modo, principalmente con i processi di finanziarizzazione dell’economia, cioè recuperando in termini di rendita finanziaria quello che non si poteva ottenere in termini di profitto. Ovviamente le bolle speculative e le bolle finanziarie prima o poi scoppiano. E ci sono stati in questi anni diversi momenti di crisi finanziaria, fino all’ultima di due anni fa. Si è visto che anche la corsa alla finanziarizzazione dell’economia non paga. L’altro fronte è stato la lotta di classe che i padroni hanno esercitato contro il lavoro dalla metà degli anni ’70, grazie anche purtroppo alla debolezza del movimento operaio e alla scelta assolutamente concertativa e consociativa dei sindacati tradizionali, non solo in Italia. Se guardiamo a livello internazionale i sindacati hanno assunto una veste di compartecipazione, cioè non hanno fatto più la lotta di classe. Quando la lotta di classe viene fatta dal basso la lotta di classe è un fenomeno storico difficile da fermare. È chiaro che se non la fai dal basso viene fatta dall’alto. I padroni hanno scatenato un attacco senza precedenti contro il lavoro. Questo ha significato l’attacco allo Stato sociale. Ha significato l’attacco al salario, indiretto, diretto e differito. Anche quei modelli di economia che si rifacevano più a un mercato sociale, a un riformismo più o meno forte, parliamo del modello tedesco, o del modello giapponese, si sono accorpati verso il modello anglosassone: taglio completo dello Stato sociale. Si va verso una completa americanizzazione. Gli altri modelli scimmiottano e imitano il modello anglosassone, per cui non c’è assolutamente spazio per il lavoro; non c’è assolutamente spazio per le classi subalterne. O si è ricchi, o si è assolutamente poveri. Vengono a cadere, insomma, quelli che potremmo chiamare i privilegi di una sorta di classe intermedia.

Europa e Stati Uniti: due poli imperialisti per l’economia di guerra

Hai fatto un passaggio importante sul rapporto tra economia americana e economia europea. Qui bisogna sfatare un mito: l’economia americana non è più forte dell’economia europea. Se vogliamo ragionare in termini di economia classica, cioè analizzando i cosiddetti fondamentali. Questi sono più forti in Europa. Sono molto più forti perché l’Europa non si basa assolutamente su un deficit di bilancio. Non basa la sua crescita sull’andamento dei tassi di cambio, sulla dipendenza della domanda dall’esterno e su una domanda interna che è supportata dal debito. L’economia americana cresce ancora supportata dal debito interno e dal debito estero. Anche negli anni in cui gli Usa sono stati la locomotiva dell’economia mondiale, negli anni ’90, abbiamo assistito a una crescita assolutamente drogata, a una crescita sostenuta fondamentalmente dai tassi di interesse, dai tassi di cambio, dal sostentamento della domanda interna con le carte di credito e dal debito esterno.

Adesso si dice, l’economia europea è in difficoltà e gli Usa sono in ripresa. Basta guardare i dati ufficiali e ci si accorge che la crescita del 2003 e del 2002 per oltre due terzi è sostenuta dall’economia di guerra. La crescita che viene data per gli Usa interno al 2,5% medio, deriva per circa l’1,6%-l’1,7% dall’economia di guerra. Per cui l’ultima strada che ha scelto il capitalismo internazionale per sostenere la crisi di accumulazione è ancora quella dell’imperialismo e dell’espansionismo. L’espansionismo è ancora alla ricerca di risorse energetiche e risorse umane con lavoro non normato a buona specializzazione e a bassi salari. È l’espansionismo classico del capitalismo, cioè trovare aree di interesse e aree di espansione. In questa ottica c’è uno scontro tra potenze, tra Stati Uniti ed Europa. Le posizioni che assumono gli europei e i francesi, in particolare, non sono casuali. C’è una torta da spartire, tutta l’area del Caucaso, dell’Europa dell’est, fino ad arrivare all’Iran e all’Iraq. E tutta l’area del petrolio. Gli Stati Uniti in quelle zone hanno anche un nuovo problema da risolvere, un nuovo competitore, rappresentato dall’asse russo-cinese.

La politica dei redditi da capitale nella stagflazione

Per concludere, se noi guardiamo l’economia ne suo insieme osserviamo che l’economia Usa è in ripresa ma grazie all’economia di guerra; l’economia europea non riprende perché ha il grosso problema della mancanza della domanda interna. Un’economia che non è sostenuta dalla domanda interna può crescere sì, ma solo fittiziamente. E perché non è sostenuta dalla domanda interna? Perché non ci sono redditi adeguati a disposizione delle classi lavoratrici per il consumo. Nasce un vero e proprio paradigma assurdo: i consumi sono tagliati da una politica dei redditi che va tutta a favore dei profitti e delle rendite. La domanda interna non regge perché i salari sono bassi. Il lavoro non recupera né in termini di produttività, ed in più è taglieggiato dall’inflazione. L’inflazione è un altro strumento per decurtare i redditi. Sta accadendo che ci troviamo nel pieno di una fase di stagflazione. Se noi guardiamo alla produzione industriale notiamo che è segnalata sempre al ribasso. E quello è il sintomo classico della recessione. Dall’altra parte, per esempio in Italia, siamo in presenza dell’impossibilità di recuperare la competitività in termini di svalutazione. E quindi, tutto ciò che non è possibile avere in termini di manovra sui tassi di cambio viene preso attraverso un aumento dei prezzi.

L’aumento dei prezzi è anche alla produzione

È inutile fare la caccia alle streghe. L’aumento dei prezzi è sì al consumo, ma anche aumento dei prezzi alla produzione e aumento delle tariffe. Quindi, un’economia non sostenuta dalla domanda interna non ce la fa a ripartire. E poi c’è anche la grande questione del deficit spending impedito dal patto di stabilità. Il blocco del modello keynesiamo impedisce la ripartenza di una ipotesi riformista. L’unica ipotesi è solo quella del conflitto diretto capitale-lavoro, in questo momento a favore del capitale, con uno scontro frontale che, però, riduce sempre più il potenziale di acquisto da parte dei salari. Se guardiamo la questione dei contratti e la questione dell’inflazione la situazione è drammatica. Con il patto concertativo abbiamo perso circa 15-20 punti percentuali in due anni. Ogni punto di inflazione è in termini di inflazione 15,5 euro. Quindi 3-400 mensili euro si sono persi in termini di potere d’acquisto.

Fabio Sebastiani: Di fronte al quadro che ha fatto Vasapollo occorre riflettere sulla necessità di una offensiva sui redditi portata avanti da tutte le categorie del lavoro e del non-lavoro. Ed è proprio questo il nodo per il movimento sindacale.

Paolo Leonardi: due questioni centrali. Dal 93 al 2002 abbiamo assistito a una crescita degli occupati, per la gran parte in modo precario, ed è diminuito il monte salari. Mentre diminuiva il monte salari e il salario effettivo diminuivano le ore di sciopero. Noi dobbiamo osservare che dal 1992 al 2003 la questione del reddito e dei salari è stata compressa in modo violento e non ha trovato risposta. Non ha trovato risposta sul fronte del movimento dei lavoratori.

La Caporetto dei salari

Questa fase coincide con l’avvio della politica dei redditi e con la concertazione. Una concertazione che diceva salari fermi, o comunque salari legati all’inflazione programmata decisa dal governo. In poche parole, salari sotto controllo. C’era addirittura l’impegno del governo a tenere sotto controllo prezzi e tariffe. In questi dieci anni cosa è accaduto? Il governo delle tariffe è diventato impossibile. Le esternalizzazioni e le privatizzazioni o comunque l’affidamento ai privati dei settori importanti, come l’elettricità, il gas e le telecomunicazioni, hanno impedito un effettivo utilizzo della seconda parte dell’accordo, quello appunto in cui l’esecutivo si impegnava sulle tariffe sociali in cambio dei bassi salari. La politica concertativa ha ridotto i salari a variabile dipendente dagli interessi di impresa, interessi mascherati da interessi del paese, ma sempre interessi di impresa. L’accordo del ’93 ha garantito la pace sociale. Dieci anni di continua perdita dei salari. I salari perdono la loro consistenza e i contratti non svolgono più la loro funzione. Quando esisteva la scala mobile il contratto rappresentava il negoziato attraverso il quale il conflitto capitale lavoro strappava quote di reddito in più per la propria condizione. Oggi i contratti non hanno più quella funzione. Sono semplicemente atti notarili attraverso cui si prende nota e atto dell’inflazione programmata dal governo. Su questo scenario si è innestato l’euro.

L’euro, ulteriore penalizzazione

Che in Italia ha avuto caratteristiche devastanti proprio perché da noi esisteva la politica dei redditi. Dove la dinamica conflittuale e contrattuale manteneva aperta una strada, l’euro non ha avuto questo ruolo devastante. In Italia l’euro è intervenuto a motore fermo rispetto a lavoro. C’è la necessità di mantenere aperta la memoria per capire cosa sta accadendo, altrimenti si dà a Berlusconi più capacità di quella che effettivamente ha. Il problema è riportare il reddito e i salari al centro. Non possiamo più tardare nell’offensiva che intende restituire al reddito e ai salari la loro funzione effettiva e principale. Ciò non riguarda solo gli occupati. Di fronte alla frammentazione delle nuove normative sul lavoro, occorre un sindacato che abbia come obiettivo la capacità di interpretare e difendere le nuove forme della composizione di classe. La questione del reddito e del salario deve partire proprio da qui.

La centralità del reddito sociale, dell’indicizzazione dei salari e del salario europeo

La questione del reddito garantito e del reddito sociale è il primo punto dell’offensiva che il sindacalismo di base deve porre al centro, perché questo significa collocare e trovare un punto di unità tra il mondo del lavoro classico, sempre più minoranza, e chi oggi è straziato dalla disoccupazione e dalle forme del lavoro precario. L’altro punto è l’indicizzazione dei salari. Non tanto perché consentirebbe ai redditi di tenere un salario medio, che comunque arriva alla terza settimana del mese a coprire le spese, ma anche perché questo consentirebbe a far ritrovare ai contratti la loro funzione vera, che è quella di strappare pezzi di ricchezza redistribuendo il reddito a favore del lavoro e non a favore dell’impresa. La terza questione è quella del salario europeo. Stanno chiudendo numerosi contratti, che mediamente arrivano a cento euro, e dopo mesi di blocco totale della contrattazione. A due tre mesi di distanza quei cento euro sono considerati dai lavoratori una cosa inutile e insufficiente, addirittura uno schiaffo rispetto alle lotte che sono state fatte per conquistarli. Quando vediamo che ci sono mille euro di differenza tra un metalmeccanico tedesco e uno italiano, e 800-900 nel settore del pubblico impiego, capiamo perché l’euro in Italia ha prodotto quella devastazione. L’offensiva sul salario è quindi un’offensiva importante. Il problema vero è non farne una offensiva all’interno delle compatibilità. Alcune categorie hanno sviluppato una battaglia forte e importante. E comunque hanno contribuito a ricollocare la questione del reddito al centro del dibattito del movimento dei lavoratori ma c’è il rischio che queste battaglie rimangano all’interno di una logica per cui il problema, per esempio, è l’inflazione reale e non quella programmata. Noi dobbiamo andare oltre. L’inflazione reale è quella che ci propina l’Istat, in mano al governo Berlusconi. Ovvio, ne difendiamo la natura pubblica, ma vorremmo avere garanzia che questa natura pubblica fosse pure trasparente e obiettiva. Il salario va rilanciato come variabile indipendente. Altrimenti faremmo molta più fatica a rilanciare un movimento forte e alto che rimetta al centro la questione del salario.

Fabio Sebastiani: salario come terreno di una possibilità di unità di classe. Questo propone problemi enormi al sindacalismo confederale...qualcuno dovrà dire come si organizzano i lavoratori invece di perdersi in astratti schemi politici. È chiaro che anche per voi si pone un bivio. e capire che modello si può cominciare ad utilizzare...

Paolo Leonardi: noi siamo dentro questo dibattito. L’organizzazione sta discutendo su come attrezzarsi proprio per cogliere sul piano sindacale la nuova composizione di classe. Sarà il tema dei prossimi mesi. È ovvio che è un passaggio ineludibile. Siamo di fronte a una trasformazione così profonda, che allo stato non è possibile rimettere in discussione, tanto più che in questi giorni si sono aperte i confronti tra le parti sociali sulla legge 30.

I dubbi sul sindacato delle categorie

La Cub non vi partecipa in quanto ritiene che la legge 30 va cancellata. Quale sarà la forma sindacale capace di ricondurre a sintesi e ricollocare all’interno del movimento dei lavoratori le nuove forme del lavoro? Questo problema ce l’abbiamo tutti. Sicuramente non è applicabile il sindacato delle categorie. Il livello su cui dovremmo misurarci è il livello territoriale. Anche se all’interno delle categorie ci saranno forti interessamenti, è lì che il sindacalismo di base dovrà misurarsi per dotare di strumenti di lotta e di lavoro, di sostegno e di servizi quel pezzo di classe che non solo viene espulso dal luogo di lavoro ma anche dalla filiera sindacale classica. A questo punto il sindacato è anche sindacato sociale. E non solo sindacato del luogo di lavoro. La velocizzazione ci coglie impreparati. A noi come a tutti. Che la tendenza fosse quella era chiaro. Che la velocizzazione nell’applicazione di queste nuove forme fosse così impetuosa, ci ha preso tutti di sprovvista.

Gli scioperi d’autunno

Uno degli elementi al centro dello sciopero del sette novembre non è solo la questione delle pensioni ma i grandi temi del reddito e della precarietà, dei diritti dei lavoratori e del mondo del lavoro. A partire dalla riuscita dello sciopero noi cominciamo una fase nuova di indagine e di trasformazione dell’organizzazione in questo senso.

Fabio Sebastiani: il capitalismo è così miope che di fronte alla possibilità di far ripartire il ciclo attraverso il consumo sceglie piuttosto l’attacco frontale ai salari. Cosa è cambiato rispetto agli anni ’70?

Luciano Vasapollo: il keynesismo economico è una strada del capitalismo. È inutile ammantarlo di ipotesi di sinistra, come fanno alcuni economisti. Il keynesismo è una strada del capitalismo che serve a realizzare due condizioni: primo, rilanciare l’economia capitalista in crisi sostenendo la domanda; secondo, come momento di mediazione del conflitto sociale. È indubbio che durante gli anni di crescita, e durante gli anni in cui il movimento operaio ha conquistato fette di potere economico e di potere di classe l’ha conquistato in una fase keynesiana. Però il keynesismo, e lo stato sociale, conquista anche della forza del movimento dei lavoratori, è stato utilizzato per uscire dalla crisi ed è stato utilizzato come momento di regolazione del conflitto. È chiaro che la condizione ottimale del capitalismo dovrebbe essere questa che dici tu. Ma appunto si parla di crisi di accumulazione. Trovandosi in una crisi di accumulazione, di sottoconsumo e di sovrapproduzione, non hai nemmeno più i termini di sostentamento della crescita attraverso il keynesismo.

Crisi del keynesismo: rimane il keynesismo militare

Non è che il keynesismo non lo si vuole. Oggi non è dato dalle condizioni economiche generali. Tanto è vero che regge soltanto il keynesismo militare, cioè il sostentamento della domanda di guerra. Se non ci sono queste condizioni economiche, a livello politico non ci sono le condizioni per una ipotesi riformista. Questo vuol dire che ci troviamo davanti a un periodo rivoluzionario? No, non significa questo. Questo significa che ci troviamo di fronte a un capitalismo che sferra i suoi colpi sia da destra che da sinistra. Non ci dimentichiamo che gli anni ’90 sono stati gestiti dai governi di centrosnistra. Sulle politiche economiche le due risposte, da destra e da sinistra, sono uguali: il problema è ridurre la forza dei lavoratori e il potere di acquisto salariale. Dal 93 al 2003 il potere d’acquisto dei salari in Italia è dimezzato. Come? È presto detto: l’incremento di produttività non è mai ritornata al salario; una inflazione subita che non è esagerato valutare intorno al 10%; il taglio del salario sociale. Non mi sembra assurdo sostenere che in dieci anni si siano persi mille euro di salario; in termini di potere d’acquisto il salario medio si è più che dimezzato.

Il nodo dell’unità di classe

Oggi l’unità di classe passa sul riconoscimento della nuova composizione di classe e su una politica non assolutamente radicale. Basta rilanciare una politica di riformismo e già si arriva a uno sconvolgimento dello stato di cose: una battaglia seria per il ritorno al sistema pensionistico retributivo, una battaglia di solidarietà intergenerazionale, e una battaglia per il reddito garantito. Non è possibile, infatti, che non ci sia un ammortizzatore sociale che in caso di disoccupazione o di lavoro precario dia una garanzia di reddito sempre e comunque per garantire almeno una dignitosa sopravvivenza. A questo proposito vorrei ricordare che il 22 novembre ci sarà una manifestazione a Roma con il sindacalismo di base e molte associazioni di base. Non mi sembra un proclama rivoluzionario. È un semplice ritornare alle politiche delle riforme.

Fabio Sebastiani: il sindacalismo confederale pensa di gestire questa fase attraverso un ottica tutta politica. Il sindacalismo di base ha la possibilità di un contatto più diretto con la classe e con tutti quei soggetti che la compongono in modo molto articolato. Questo però non gli impedisce di rimanere un po’ fermo dal punto di vista dell’azione politica unitaria di classe. Come vedi tu i prossimi sviluppi...

Paolo Leonardi: la rinnovata unità di Cgil, Cisl e Uil credo sia dovuta soprattutto alla manifesta volontà di Berlusconi di fare a meno dei corpi intermedi. E con l’intervista a reti unificate il presidente del Consiglio ha posto un problema di relazioni sociali nel paese. È una unità, però, che rimane scoperta, per esempio, sulla questione dei metalmeccanici. La Fiom è in seria difficoltà rispetto alla difesa della propria identità di classe. Dentro questa vicenda, il problema dell’unità del sindacalismo di base, un nuovo sindacalismo di classe, anche sociale e del territorio per intercettare i nuovi bisogni del lavoro e del lavoro negato . Noi abbiamo sempre ritenuto che l’unità del sindacalismo di base fornisse valore aggiunto. E lo hanno dimostrato la riuscita degli scioperi e delle iniziative degli anni passati. Oggi credo che ci troviamo in una fase nuova. E non per volontà delle Rdb e della Cub. Abbiamo fatto un passaggio fondamentale che è stato poco colto, quello di fare della Cub la confederazione del sindacalismo di base, conflittuale e antagonista. Questo fatto ha sparigliato le carte nel sindacalismo di base. Altre formazioni hanno scelto la soggettività poiltico-sindacale. Questo non elimina la possibilità di fare pezzi di percorso assieme su questioni che unitariamente è possibile affrontare. Ma sicuramente separa i destini. Forse in una prima fase può sembrare indebolire la funzione del sindacalismo di base, però credo che sia un elemento di grande novità e di grande sviluppo. Mentre lo sciopero del 24 ottobre rappresenta lo sciopero della difesa della concertazione e della difesa della riforma Dini e della difesa della politica dei redditi, lo sciopero del 7 novembre, invece è lo sciopero della ricostruzione di un tessuto di classe che parte dalla questione più generale della contrapposizione a questo modello di società e a questo liberismo che porta al suo interno le istanze sia del centrodestra che del centrosinistra.

Fabio Sebastiani: la legge 30 potrebbe incontrare parecchi problemi di applicazione. Come intendete regolarvi?

Stiamo attrezzando le strutture perché ci sia guerra totale alla legge 30 in qualsiasi categoria, in qualsiasi territorio. Il problema vero è che non crediamo che la legge 30 sia migliorabile. Non abbiamo partecipato agli incontri al ministero della Funzione Pubblica. Ci rifiutiamo di immaginare un percorso in cui in qualche modo ci veda coinvolti a livello contrattuale nella legge 30. È chiaro che sarà un momento di battaglia sindacale per l’autunno. Ho il terrore che il centrosinistra, che sulla legge 30 ha detto poco o niente, una volta che dovesse entrare al governo possa pensare di cancellare uno o due articoli di quella legge o mitigare una o due figure per far finta di aver eliminato la precarietà. La legge 30 è figlia del pacchetto Treu, così come la riforma Maroni è figlia della Dini.


[1] Giornalista di Liberazione