Intervista a Nicola Valentino (a cura di Rita Martufi).
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La cooperativa Sensibili alle foglie opera da oltre dieci
anni, come è nata?
Verso la fine degli anni ’80 ero insieme con Renato Curcio
nel carcere di Rebibbia e ci capitò, per caso, di leggere un documento del
Ministero della Giustizia in cui si affermava che le persone recluse,
lungointernate, dopo dieci anni di reclusione subiscono dei danni psicofisici
irreversibili. Ci preoccupammo molto perché, ahimè, eravamo già oltre quella
soglia.
Questa sollecitazione c’indusse ad avviare un lavoro d’osservazione
su noi stessi, nonché di raccolta di testimonianze ed altra documentazione, per
capire quali fossero gli effetti sulle persone dei dispositivi mortificanti dell’istituzione
carceraria e di tutte le altre istituzioni totali. Iniziammo questa ricerca sia
per capire le origini del deterioramento, sia, soprattutto, per esplorare le
risorse vitali. Quali tipi di risposte consentono alle persone recluse di
sopravvivere? L’istituzione totale costituisce un dispositivo mortificante per
eccellenza, tant’è che, solo nel carcere, la percentuale dei suicidi, come ha
osservato il sociologo Luigi Manconi, è dodici volte più alta rispetto all’esterno.
Ci siamo avventurati in questa ricerca sull’esperienza
umana della reclusione come un laboratorio collettivo, oggi lo definiamo “cantiere
di consapevolezza”, che si riuniva con regolarità quotidiana, usando la
socialità concessa ai prigionieri per il pranzo. La principale attività di
questo cantiere era la narrazione, i nostri ‘documenti’ erano
costituiti da racconti di storie umane, che a noi sembravano emblematiche,
rivelatrici delle torsioni mortificanti della reclusione e di forme di
sopravvivenza, storie incise sui muri delle istituzioni totali, o pubblicate nei
testi letterari, raccolte dalla memoria orale, nella scrittura testimoniale, o
in altre forme espressive. Attraverso questo lavoro di osservazione di noi
stessi nello specchio dell’esperienza umana delle persone istituzionalizzate,
entravamo in una doppia relazione con l’istituzione reclusiva: in quanto
attori direttamente implicati, che ne subivano i dispositivi, e in quanto
osservatori distaccati che lucidamente li analizzavano, questa dissociazione
metodica favoriva la ricerca di consapevolezza del cantiere.
Come prende corpo, da quest’attività di ricerca, svolta
tra l’altro in carcere, un lavoro di produzione culturale. Sensibili alle
foglie è una cooperativa, quali sono stati i vostri primi prodotti?
L’attività di quel primo cantiere, porta, nel 1990,
alla pubblicazione di un libro, “Nel Bosco di Bistorco” [2], il primo fondamentale passo della ricerca
sull’esperienza umana nelle condizioni estreme, e, insieme al libro, grazie
all’incontro con operatori culturali esterni al carcere, nasce anche la
cooperativa Sensibili alle Foglie, con una linea editoriale che prosegue nel
lavoro di documentazione, pubblicando testi di operatori e persone direttamente
implicate nel disagio estremo. Viene istituito anche un settore della
cooperativa denominato Archivio di scritture, scrizioni e arte ir-ritata,
che raccoglie manoscritti, disegni, dipinti, provenienti dalle istituzioni
totali e da altre condizioni estreme di vita, opere che noi consideriamo innanzi
tutto come documenti preziosi di una strategia di sopravvivenza ad un contesto
deumanizzante. A tutt’oggi l’Archivio custodisce oltre 600 opere, per
un totale di 100 autori. Questo lavoro viene socializzato e valorizzato
prevalentemente attraverso l’allestimento di due mostre itineranti: Luoghi
senza tempo e senza forma, sulle istituzioni totali e la risorsa della
creatività nei luoghi dell’esclusione sociale, e Scrizioni ir-ritate,
di più recente ideazione, che propone invece linguaggi espressivi nati nel
malessere della normalità, quello, per intenderci, che si soffre nelle
istituzioni dell’inclusione sociale.
Data l’internità di alcuni dei soci cooperanti al fenomeno
armato degli anni settanta, la cooperativa ha svolto anche, fin dalla sua
origine, un’altra ricerca a carattere documentario, storico e statistico, sull’esperienza
armata di sinistra degli anni settanta in Italia, i risultati sono stati
pubblicati in quattro titoli della collana Progetto memoria diretta da
Maria Rita Prette.
Occupandovi di istituzioni totali e di situazioni estreme,
come avete affrontato la condizione della guerra?
Sensibili alle foglie ha pubblicato attraverso il suo settore
editoriale 130 titoli, alcuni di questi raccontano, da situazioni diverse, il
dispositivo della guerra ed i suoi effetti di estrema deumanizzazione
È interna al dispositivo della guerra una tra le forme più
inquietanti e purtroppo attuali della reclusione, quella che concerne interi
popoli. La Palestina è appunto uno di questi territori-reclusorio, circondata
sempre più da muri e reticolati, collegata al resto del mondo da pochi e
obbligati posti di blocco in cui il transito viene controllato così come
verrebbe controllato in un carcere speciale. Da questa terra giungono i disegni
di una mostra itinerante dal titolo: Bambini in Palestina [3], pubblicati anche in un libro-catalogo con lo stesso titolo,
curati entrambi da Maria Rita Prette. I disegni provengono dalla scuola
elementare San Giuseppe di Betlemme che, come ogni altra scuola palestinese, in
questi ultimi anni è stata colpita da missili e sistematicamente demolita nei
suoi muri. Gli alunni di tutte le sei classi (dai 6 ai 12 anni) hanno elaborano
i loro vissuti creando segni espressivi capaci di comunicare, a se stessi e al
mondo al di là del muro, la loro estrema condizione di reclusione, oppressione
e sofferenza. Una comunicazione che è nello stesso tempo una risorsa di
sopravvivenza e una domanda di attenzione.
Connessa a questo stesso tema è la pubblicazione della
seconda edizione di uno dei nostri primi libri: La tana della iena [4], di
Itab Hassan, nome di battaglia con cui nel 1985 è giunto in Italia, appena
quindicenne, Mustafà Hassan Abu Omar, per compiere un attentato ad un ufficio
delle linee aeree britanniche. La sua famiglia, originaria di Gerusalemme,
viveva nel campo profughi di Chatila dal 1948. Nel 1982, israeliani e
cristiano-maroniti si resero responsabili di un’orrenda strage nei campi di
Sabra e Chatila sterminando anche gran parte della sua famiglia.
La vostra ricerca parte dalle istituzioni totali, ma, come
già hai anticipato parlando della mostra Scrizioni ir-ritate, ad un certo punto
si è estesa alle istituzioni dell’inclusione: scuole, aziende, istituzioni
sanitarie ..., ed al malessere degli inclusi.
Verso la fine degli anni novanta accadono due eventi
significativi, uno riguarda la nostra vita, cominciamo ad uscire dal carcere e l’altro
una sollecitazione nel nostro lavoro. Con l’uscita dal carcere il nostro punto
di osservazione si fa più ampio e più interno alla città. Accade poi che
cominciamo a comunicare il lavoro di ricerca attraverso alcuni seminari
itineranti dal titolo Reclusioni & Risorse, avendo come interlocutori
gli addetti ai lavori ma anche semplici cittadini a vario titolo interessati al
nostro modo di trattare questi argomenti. Attraverso i seminari riceviamo
sollecitazioni importanti per lo sviluppo della ricerca. Quando, durante i
lavori seminariali illustriamo i dispositivi delle istituzioni totali e le
risorse che le persone utilizzano per tenersi in vita, molti tra i partecipanti,
pur non essendo reclusi, si rispecchiano nelle esperienze proposte, sottolineano
le forti analogie esistenti fra i dispositivi esposti e quelli da loro esperiti
a scuola, sul posto di lavoro, in famiglia, in un ospedale...
Questo rispecchiamento reiterato ci ha indotti ad approntare
una metodologia per esplorare i dispositivi relazionali totalizzanti disseminati
nelle istituzioni dell’inclusione ed il malessere della normalità che
ne deriva. La metodologia consiste nel proporre agli attori di una specifica
istituzione ordinaria (scuola, azienda, ospedale), una rete di storie
emblematiche dell’istituzione totale, osservando successivamente le analogie e
le differenze, le sovrapposizioni e gli scarti tra i dispositivi relazionali
totalizzanti proposti e i dispositivi situazionali operanti nel contesto
analizzato. Il rispecchiamento che noi proponiamo consente anche ai soggetti
interni all’istituzione analizzata di osservare in modo diverso ciò che la
routine quotidiana nasconde; frequentemente, infatti, i dispositivi mortificanti
e deumanizzanti di un contesto istituzionale sono subiti o riprodotti dagli
attori di quel contesto in modo automatico come fossero “naturali”. Un’altra
precisazione metodologica importante riguarda il fatto che la ricerca non è
condotta da chi, come noi, è esterno al contesto analizzato, il nostro apporto
consiste nell’allestire, con attori interni all’istituzione, un laboratorio
collettivo, sul modello del cantiere di consapevolezza spontaneamente
creato all’inizio della nostra ricerca in carcere. Un ulteriore nostra
funzione, all’interno del nuovo cantiere, è quella di invitare i
partecipanti a mettere da parte ciò che pensano di sapere sul contesto in cui
vivono e di ripartire da eventi, esperienze vissute, storie, che esemplificano
le relazioni di potere in quell’istituzione. Noi chiamiamo questa modalità: socioanalisi
narrativa. La narrazione favorisce una partecipazione non solo intellettuale
ma anche emotiva ed ogni partecipante al cantiere viene sollecitato ad istituire
quella dissociazione metodica di cui ho già parlato. Da un lato, in
quanto attore di quella specifica istituzione, è in essa fortemente implicato,
dall’altro però, osserva anche la sua implicazione.
Fino ad ora abbiamo coordinato cantieri socioanalitici
in diverse istituzioni. Con un gruppo di insegnanti, in un istituto
professionale di Napoli, per analizzare le ragioni della dispersione scolastica
attribuibili ai dispositivi totalizzanti presenti in quella scuola. Su commessa
della CGIL- Funzione Pubblica dei Castelli romani, abbiamo allestito un cantiere,
con lavoratori iscritti al sindacato, di una delle più grandi case di cura per
anziani del Lazio, per esplorare i dispositivi trattamentali cui sono soggetti i
ricoverati. Su richiesta del Dipartimento di salute mentale di Giugliano in
Campania (NA), con operatori delle strutture residenziali post-manicomiali di
quel territorio, abbiamo esplorato la reale uscita dai dispositivi manicomiali
di queste residenze. A Milano, nella primavera del 2002, ha preso il via un cantiere,
coordinato da Renato Curcio, sui dispositivi relazionali totalizzanti all’opera
nelle grandi aziende della distribuzione e sulle risposte di sopravvivenza a
tali dispositivi. Nel 2003 questo stesso cantiere ha riaperto i lavori,
ampliando la sua composizione a lavoratori di diverse aziende, per affrontare il
nodo del dominio aziendale attraverso la flessibilità, con i malesseri che esso
genera. Entrambi questi cantieri, promossi dalla Uil-Tucs di Milano, hanno visto
la partecipazione di lavoratori, di militanza sindacale variegata, impiegati in
diverse aziende della grande distribuzione commerciale dell’area milanese.
Oltre a queste specifiche ricerche portiamo anche in tutt’Italia
seminari che illustrano la nostra metodologia ed i risultati che essa sta
producendo.
Hai parlato di dispositivi totalizzanti trasversali a diverse
istituzioni, puoi fare alcuni esempi?
Innanzi tutto una breve chiarificazione sulla nozione di
dispositivo. Tutti noi conosciamo un’aula scolastica. Essa esemplifica bene la
nozione perché può essere osservata come una tecnologia relazionale, che
dispone i soggetti che vi entrano secondo definite modalità. L’insegnante
può stare sulla cattedra in alto e osservare ciò che scrivono gli studenti sui
banchi. Gli studenti sono allineati nei banchi, e sono facilitati a comunicare
con l’insegnante ma non fra loro. Il dispositivo dell’aula dispone quindi,
come fosse un fatto assolutamente naturale, ad una gerarchia relazionale.
Bisogna aggiungere però, per una visione dinamica del concetto di dispositivo,
che, se ad un polo della relazione c’è un soggetto che ordina e dispone, al
polo opposto, i disposti oppongono proprie linee di acquiescenza, sottrazione,
resistenza oppure fuga. È notorio a tutti, per esperienza, il formarsi, fra gli
studenti, d’un’identità di sopravvivenza al contesto dell’aula, che
simula l’attenzione alla lezione dislocandosi invece con l’immaginazione
altrove. Fatto questo esempio per chiarire la nozione, voglio illustrare un
dispositivo che abbiamo incontrato in diverse istituzioni.
“Ti mettiamo in cassa e lì ci muori - questa è la
minaccia ricorrente. E, in effetti, la cassa ti ammazza. Ti isola.
Psicologicamente ti demolisce. Se hai bisogno di una pausa fisiologica puoi fare
la domandina di richiesta del cambio. Ma non sai né quando, né se ti verrà
risposto”.
Questa è la testimonianza della cassiera d’un supermercato
che, da un lato denuncia l’utilizzo della cassa come meccanismo punitivo da
parte dell’azienda, dall’altro ci dice che lavoratrici e lavoratori, per
andare al gabinetto, devono compilare una domandina, che deve essere indirizzata
a un superiore. Una volta inoltrata, si viene messi in lista d’attesa. Quando
e se arriverà il proprio turno, si potrà andare in pausa. Ma può anche
capitare che il turno non arrivi mai.
Il dispositivo della domandina è un’eredità lasciata dai
campi di concentramento, che opera tutt’ora nel carcere come in altre
istituzioni totali. La persona internata deve chiedere tutto e tutto ciò che
chiede può esserle concesso oppure no, a discrezione ed arbitrio di chi
gestisce l’ordine istituito.
In tutte le carceri è necessario che il recluso compili un
prestampato, una domandina rivolta alla direzione: “Il sottoscritto prega la
S. V. di poter...”. Questo modulo relazionale definisce un dato regime di
enunciazione nonché una precisa gerarchia che implica un richiedente e un
concedente, questa relazione di potere consente all’istituzione di assumere
progressivamente il controllo sul comportamento del recluso e di
infantilizzarlo.
Abbiamo riscontrato, che il dispositivo della domandina può
essere presente in una istituzione totale ed in un’azienda, ma può normare
anche la concessione dei permessi d’uscita giornalieri dei ricoverati in una
casa di cura per anziani.
Quali altri dispositivi sono emersi dai cantieri di ricerca
con i lavoratori delle grandi aziende?
L’attività svolta dal cantiere nel 2002 ha portato ad una
pubblicazione curata da Renato Curcio dal titolo L’Azienda totale [5]. Un punto di partenza utile per allargare lo
sguardo su altre aziende della grande distribuzione e approfondire le dinamiche
relazionali attuali nel mondo del lavoro, che tende, nella logica
razionalizzante dei grandi sistemi burocratici moderni, alla disumanizzazione
dei lavoratori, ridimensionati a “oggetti di gestione”, a non persone.
“Quando sono arrivato al negozio, il primo giorno, mi hanno
affiancato un ragazzo.
-Vieni, mi dice, e mi porta nello spogliatoio. Ci sono i
cessi da pulire. Finiti i cessi mi fa indossare la casacca arancione, gli
stivali di gomma, i guanti e dopo avermi fatto fare il giro del negozio mi porta
ai cassonetti della spazzatura. Ho poi saputo che aveva il compito di riferire
al capo reparto se mi fossi lamentato. Era un esame, la prima classificazione”.
Il tirocinio con mansioni inferiori corrisponde certamente
all’esigenza di una secca riduzione salariale, ma questa testimonianza,
insieme ad altre analoghe, ci mostra anche il primo passo di un trattamento
spersonalizzante, mediato dal gruppo, dalla squadra, che ha lo scopo di
decostruire l’identità del lavoratore e sostituirla con l’identità
aziendale, con il codice e con il mito dell’azienda, di cui il neoassunto
dovrà diventare, passo dopo passo, un corpo di realizzazione. Si pensi che in
alcune di queste aziende debbono essere standardizzati anche gli scambi di
parola con i clienti, c’è un apposito cartello tenuto sotto la cassa, fuori
dalla vista del cliente, che detta le parole da usare.
Le osservazioni raccolte sull’addestramento alla
conformità aziendale ci spingono ad un’analogia con gli stessi dispositivi
che hanno consentito alle grandi burocrazie di gestire, attraverso ‘uomini
comuni’ quei giganteschi apparati di produzione di morte che sono stati i
campi di concentramento nazisti. Il principio era ed è molto semplice: indurre
progressivamente il lavoratore a concentrarsi sulla propria mansione e sul suo
privato interesse, deresponsabilizzandosi e divenendo indifferente ed
insensibile ad ogni altra cosa, prima fra tutte la sofferenza umana propria e
altrui. Cristopher Browning (1999) ha osservato bene questi dispositivi a
proposito del Battaglione 101 della Riserva di polizia tedesca che tra il
1942-43 ha ucciso 38.000 persone.
Come s’inserisce la flessibilità nel dispositivo rigido
della’Azienda totale?
Al di là delle maschere di parola che lo rappresentano, non
c’è nulla di più rigido del lavoro flessibile. La capacità di adattarsi,
cui l’aggettivo rimanda, non riguarda la relazione fra l’azienda ed il
lavoratore, bensì il lavoratore nella sua relazione con l’azienda. È il
lavoratore che deve flettersi, piegarsi, adattarsi. Sono il suo tempo, i suoi
compiti, le sue mansioni, i suoi spostamenti sul territorio, le sue relazioni
familiari ed amicali che debbono adattarsi alle esigenze d’impresa, mensili,
settimanali, quotidiane. Le radici economiche della grande distribuzione
affondano nel lavoro flessibile, quest’ultimo ha già superato per estensione
e rilevanza il lavoro rigido a tempo indeterminato, e gli analisti concordano
nel ritenere che questa modificazione abbia un carattere strutturale ed
irreversibile. Ma il processo di accumulazione attraverso la flessibilità
ridisegna anche le forme del potere che tengono in relazione i soggetti
implicati. Il cantiere svoltosi a Milano quest’anno, che ha recentemente
concluso il suo lavoro, ha evidenziato proprio questo, ed ha osservato
attentamente le implicazioni riguardanti le varie forme, contrattuali e non,
della flessibilità, fino alla flessibilità autogestita dai lavoratori
attraverso la maschera cooperativa del gruppo, della squadra, con la connessa
esaltazione del “senso di appartenenza’ del lavoratore all’azienda. L’imposizione
unilaterale della flessibilità, consente alle aziende di gestire al loro
massimo ed esclusivo vantaggio la paura di perdere il posto di lavoro che le
persone precarizzate hanno. L’impatto col mondo del lavoro flessibile, la
sofferenza psicologica connessa alla condizione precaria e temporanea, il dramma
umano della flessibilità in uscita, vale a dire il declassamento, il
prepensionamento, il licenziamento, sono tutte esperienze traumatiche che
instaurano, in chi le subisce, una fonte d’angoscia, una sensazione d’impotenza.
L’angoscia è uno stato d’animo incombente nel lavoratore flessibilizzato.
Nel dominio flessibile non costituisce una garanzia neppure l’abilità
professionale e l’adesione totale alla filosofia aziendale. Ciò che un
lavoratore fa conta per l’azienda solo se viene fatto male, in quel caso viene
immediatamente sanzionato, ma se anche viene svolto al meglio delle capacità
professionali e con il massimo di disponibilità ai dettami dell’azienda, ciò
non salva il malcapitato lavoratore dalla rottamazione nel caso di una
ristrutturazione. In queste condizioni la vita delle persone risulta
completamente sovradeterminata ed in balia di eventi indipendenti dal
comportamento del lavoratore, questa indeterminatezza precipita la persona in
una condizione estrema molto simile a quella osservata da Bruno
Bettelheim (1965) per i campi di concentramento: estrema perché aggredisce le
fondamenta stesse su cui è costituita l’esperienza umana, vale adire la
consapevolezza di poter incidere con la propria azione sulla realtà
circostante.
I continui riferimenti ai campi di concentramento fanno
pensare che nel dominio flessibile si sviluppi ed estenda la necessità di un
pensiero della sopravvivenza.
Sopravvivere sembra essere il filo a piombo dell’adattamento.
Ma dove la vita quotidiana si orienta alla sopravvivenza nascono problemi che
segnano una reale discontinuità con il mondo del lavoro che il neoliberismo si
lascia alle spalle. Il cantiere di Milano sulla flessibilità ci ha consegnato
su questo punto alcune riflessioni. Uno dei dilemmi che il pensiero orientato
alla sopravvivenza porta con se riguarda il limite etico entro cui mantenersi,
la soglia da non oltrepassare. Sopravvivere ad ogni costo? Oppure c’è un
prezzo della sopravvivenza che non ci sentiamo di pagare, ci sono valori
convinzioni e sentimenti che vogliamo salvaguardare? Chi ha vissuto l’esperienza
dei campi di concentramento, dei Gulag o delle istituzioni totali sa bene che
questo incontro con il limite non può essere evitato e che “sopravvivere ad
ogni costo vuol dire sempre sopravvivere a costo di un altro (A. Solzenicyn,
1975) un altro visibile e vicino o un altro interiore da soffocare e
sacrificare. In L’azienda totale si racconta l’episodio di un
carrellista che era svenuto sul muletto. Aveva la testa rovesciata all’indietro
ed il volto cianotico. Tutti lo vedevano ma nessuno dei suoi colleghi si è
fermato, hanno fatto finta di non vedere per paura di perdere quella
possibilità lavorativa. Lo stesso accade quando una persona cade in disgrazia
perché viene colpita da una sanzione. I suoi colleghi lo tengono a distanza
come se avesse una malattia contagiosa. Il sacrificio dell’altro per affermare
il bene unico ed assoluto della propria sopravvivenza singolare è il passo che
sancisce l’abbattimento del barriere etiche e spinge sempre più verso la
rincorsa dei piccoli privilegi economici ma soprattutto delle gratificazioni
psicologiche, dei minuscoli poteri, che l’azienda elargisce a chi si flette
totalmente alle sue richieste. Si crea in tal modo quella zona grigia che
collega le vittime ai persecutori, che Primo Levi osservava nei campi di
concentramento e che riteneva fosse indispensabile considerare per conoscere la
specie umana, ma anche per rendersi conto di quanto accadeva in un grande
stabilimento industriale. Nelle estreme dinamiche della sopravvivenza la
conoscenza del limite del proprio adattamento sembra essenziale per il
mantenimento della propria umanità.
[1] Nicola Valentino è tra i soci fondaIntervista a Nicola Valentinotori della cooperativa Sensibili alle foglie, coordina, dall’ufficio di Tivoli (RM), il lavoro per il centro-sud.
[2] Renato Curcio,
Stefano Petrelli, Nicola Valentino, Nel Bosco di Bistorco, Sensibili alle
foglie, Roma, 1990, nuova ed. 1999.
[3] Maria Rita
Prette (a cura di), Bambini in Palestina, Sensibili alle foglie, Dogliani
(CN), 2003.
[4] Hassan
Itab, La tana della iena. Storia di un ragazzo palestinese, Sensibili
alle foglie, Roma, 1991, nuova edizione (a cura di Renato Curcio) 2003.
[5] Renato
Curcio, (a cura di), L’Azienda totale. Dispositivi totalizzanti e risorse
di sopravvivenza nelle grandi aziende della distribuzione, Sensibili alle
foglie, Dogliani (CN), 2002.