La forza politica del Capitale di Marx stava tutta
nell’idea, semplice e rivoluzionaria al tempo stesso, che il profitto, reddito
capitalistico per antonomasia, è conseguenza del pluslavoro (e quindi dello
sfruttamento) degli operai salariati e non di altro. È ovvio che l’idea non
fosse bene accolta dagli economisti ed infatti per oltre un secolo essa è stata
rigettata aprioristicamente oppure destrutturata e criticata fino al bel
risultato che al giorno d’oggi sembrerebbe ormai assodato che nella sua forma
originale essa non regge proprio: oggi non è possibile ricondurre marxianamente
l’origine del profitto al pluslavoro di qualcuno e quindi tanto vale chiudere
definitivamente l’argomento e rivolgersi ad altro per la spiegazione del
profitto [1].
Conti conclusi, dunque? Niente affatto, dato che, al
contrario da quanto generalmente accettato, pare possibile resuscitare la dipendenza
del profitto capitalistico dallo sfruttamento del lavoro, se non esattamente
nella forma, almeno nello spirito di Marx, come ho cercato di mostrare, insieme
a Giancarlo Gozzi, Stefano Perri e Dario Preti, in Karl Marx e la
trasformazione del pluslavoro in profitto (Mediaprint, Roma 2002). Nel libro
il ragionamento è stato sviluppato utilizzando tre idee-forza (l’approccio
di “valore assoluto”, l’approccio del “netto” e l’approccio “sequenziale”)
che qui vengono rese ancora più esplicite e che portano a concludere che,
affinché il profitto capitalistico sia positivo, è necessario lo sfruttamento
(e quindi il pluslavoro) dei salariati e nient’altro.
1. Stefano Perri aveva ragione quando ha scritto che
ormai i tempi gli sembravano maturi perché della questione del “valore-lavoro”
si tornasse a riflettere “senza preconcetti” [2]. Ma pure, aggiungo, con
estrema precisione e a partire dalla domanda critica iniziale: in quale
dimensione analitica va pensata la questione del valore-lavoro dopo oltre cent’anni
di feroce, e disperante, dibattito? La precisione è tanto più necessaria
perché nella storia del pensiero economico il valore-lavoro compare sotto un
duplice significato.
Il primo, e anche il più noto, è quello del valore
relativo (o di scambio) che spiega come le merci si scambino sul mercato a
due a due secondo un rapporto di valore equivalente al rapporto delle quantità
di lavoro occorso per produrle.
È questa l’odiosa-amata “legge del valore di scambio”
formulata per la prima volta da Adam Smith nel celebre esempio dello scambio del
castoro col cervo [3], poi accolta da David Ricardo nei suoi Principi di
economia politica ed infine approdata a Marx e al marxismo: se una merce
vale il doppio o la metà di un’altra, ciò può essere solo perché è
costata il doppio o la metà di lavoro per produrla. Si noti però subito che l’equivalenza
col rapporto dei lavori contenuti vale solo per il rapporto dei prezzi “naturali”
delle merci, che sono quei prezzi d’equilibrio che assicurano l’uniformità
del salario unitario e del saggio del profitto in tutte le produzioni (il che
vuol dire che ogni lavoratore riceverà lo stesso salario unitario quale che sia
la sua occupazione, e che ogni capitale guadagnerà lo stesso saggio del
profitto ovunque venga investito). Il prezzo “naturale” si distingue quindi
dai prezzi correnti che, risentendo invece dell’andamento congiunturale dei
mercati, non rispettano quella doppia condizione di uniformità ma che pure,
oscillando al di sopra o al di sotto del prezzo “naturale”, “tendono
costantemente verso di esso” [4].
Così è solo nella condizione d’equilibrio, ossia “quando il prezzo della
merce non è né più né meno di ciò che è sufficiente a pagare... i salari
del lavoro e i profitti dei fondi impiegati... secondo i loro saggi naturali,
che quella merce verrà venduta per quello che si può chiamare il suo prezzo
naturale. La merce è allora pagata precisamente per ciò che vale” [5]. Ne consegue solo il rapporto dei
prezzi “naturali”, quale misura esatta del “valore di scambio” di due
merci, è pari (ecco qui tutto il nocciolo della legge del valore di scambio)
al rapporto delle loro quantità di lavoro contenuto.
Tuttavia per la rigorosa validità della equivalenza dei
lavori contenuti si richieda un’altra condizione (che finora è rimasta
implicita) talmente esagerata da rendere quell’equivalenza assolutamente
improponibile nella realtà. Infatti, perché si dia quella equivalenza è pure
necessaria l’ipotesi che nelle due produzioni non si impieghi alcun mezzo
di produzione oltre il lavoro. In caso contrario la presenza anche di un
solo mezzo di produzione non consente più la semplificazione del valore di
scambio al rapporto dei lavori contenuti. È evidente che si potrebbe risolvere
il prezzo del mezzo di produzione nel salario che l’ha prodotto, ma siccome
questo salario è stato pagato precedentemente, esso deve essere imputato al
prezzo della merce prodotta capitalizzato per il saggio del profitto per tutto
il tempo trascorso - e allora non ci siamo più. Allora accanto alle quantità
di lavoro contenuto compare un secondo fattore di valorizzazione: il trascorrere
del tempo, come ammesso candidamente dallo stesso Ricardo in una celebre
lettera del 1820: “alle volte penso che se dovessi riscrivere il capitolo del
mio libro sul valore, riconoscerei che il valore relativo delle merci è
regolato da due cause invece che da una: dalla quantità relativa di
lavoro necessaria a produrre le merci e dal saggio del profitto per il tempo in
cui il capitale rimane quiescente e finché le merci non sono portate al mercato”
[6].
Se così è, allora l’utilizzo dei mezzi di produzione ha l’effetto
di annullare ogni equivalenza del valore di scambio con il rapporto dei soli
lavori contenuti, presenti e “passati” che siano. E nella breccia si sono
gettati tutti gli economisti dopo Ricardo e Marx, felici di provare che le merci
non si scambiano affatto secondo quel “lavoro contenuto” d’antica, e ormai
da seppellirsi, memoria [7].
2. Nella storia del pensiero economico esiste tuttavia un
secondo significato del valore-lavoro che possiamo chiamare valore assoluto
e non più “valore relativo”. Si consideri un’unica merce oppure l’insieme
di tutte le merci. Naturalmente in entrambi i casi non ha alcun senso parlare di
valore relativo, che è un rapporto, dato che per una sola merce o per l’insieme
di esse non c’è alcuna merce che si possa contrapporre ad un’altra. Ora per
questa unica merce, o ammasso di merci, una valutazione economica significativa
può essere data dalla sua misurazione in termini di prezzo quale può essere il
prezzo corrente di mercato oppure il prezzo “naturale” (detto più
esattamente prezzo di produzione). Seguiamo la seconda valutazione che
impone che in tutte le produzioni valga lo stesso salario unitario e lo stesso
saggio del profitto. In questo caso il valore assoluto dell’unica merce o dell’ammasso
di merci (la quantità Q per il suo prezzo di produzione p) nell’ipotesi
smithiana estrema di una produzione “a solo lavoro” è pari alla quantità
di lavoro complessivamente impiegato per produrla, essendo “il lavoro svolto
in un anno il fondo da cui ogni nazione trae in ultima analisi tutte le cose
necessarie e comode della vita che in un anno consumano” [8]. Quindi in questo caso vale l’equivalenza:
Q p = L
che definisce quell’equazione di valore assoluto
esplicitata da Smith all’inizio del suo capolavoro e che tanto ha intrigato
Ricardo alla fine dei suoi giorni [9].
Tuttavia anche in questo caso vale pur sempre la riserva
avanzata per la regola del valore di scambio: l’equazione è rigorosamente
fondata solo a condizione che si produca con solo lavoro, ossia che valga una
“funzione di produzione” del tipo:
Q = f ( L )
dato che con l’intervento anche di un solo mezzo di
produzione Qk le cose si complicano. Allora la “funzione di produzione”
diventa:
Q = f ( L, Qk )
dopo di che l’equazione di valore assoluto si trasforma in:
Q p = L + Qk pk
che ripropone la stessa difficoltà incontrata in precedenza:
come omogeneizzare, a destra dell’equazione, il prezzo di produzione del
bene-capitale con le ore di lavoro che non sono grandezze omogenee fra loro? La
soluzione storicamente tentata per il valore di scambio era stata quella di
tradurre il prezzo del bene-capitale nelle ore di lavoro “passato” occorse
per produrlo, ma ciò aveva portato all’assurdo di concepire anche il tempo
come un elemento di valorizzazione della ricchezza al pari del lavoro.
Altrettanto è accaduto per il valore assoluto, che così ha finito per fare la
stessa fine del valore di scambio: confinato ad un caso di scuola, quello
ipotetico di una produzione senza alcun mezzo di produzione [10], rendendosene comunque
impossibile l’estensione al caso ben più verosimile di una produzione con
impiego di almeno un bene-capitale accanto al lavoro “presente”.
È questo lo stato della questione generalmente condiviso,
rispetto al quale il nostro intervento è stato quello di provare a recuperare l’equivalenza
smithiana tra prezzo di produzione e lavoro anche nel caso di una produzione che
impieghi beni-capitali a partire dalla prima decisione di riconoscere l’irrilevanza
del valore di scambio, così da ancorarci esclusivamente alla “equazione di
valore assoluto”. Infatti se l’equivalenza del prezzo di produzione con il
lavoro vuole mantenere ancora un significato, essa lo può avere solo nei
termini della quantità di lavoro necessario a produrre una merce o l’insieme
delle merci, e non certo quale criterio di scambio delle merci tra loro. Si è
deciso insomma di assumere quella “visione per totalità di imprese” su cui
ha tanto insistito Antonio Graziadei (tra le banalità e confusioni del suo
pensiero, almeno questa idea geniale gli va riconosciuta): “la considerazione
del valore di scambio, se è indispensabile nella visione per singola impresa,
è invece repugnante alla visione per totalità di imprese... Quando invece dei
singoli individui si considerino le rispettive classi e l’intera società;
quando invece delle singole imprese si abbracci la totalità delle imprese;
allora i rapporti fra i singoli vengono assorbiti ed annullati da relazioni più
vaste e riassuntive fra le classi, ed il mezzo per i primi rapporti, cioè il
valore di scambio, resta idealmente superato e praticamente inutilizzato” [11].
3. Posta l’“equazione di valore assoluto” la seconda
decisione ha avuto riguardo al suo specifico. In origine, come s’è visto,
essa equiparava il prezzo di produzione delle merci prodotte al lavoro “presente”
necessario a produrle perché si produceva con solo lavoro. Ora è possibile
mantenere quella stessa equivalenza anche nel caso di una produzione con
beni-capitali aggirando la difficoltà di tradurne il prezzo nei termini del
lavoro “passato”? È possibile, se si applica quella equivalenza al prezzo
di produzione del “prodotto netto” e non già del “prodotto lordo”,
come invece finora s’è fatto. E come si fa? Si sottrae al prezzo di
produzione delle merci prodotte il prezzo di produzione dei beni-capitali
utilizzati e quindi si ottiene il prezzo di produzione del “prodotto netto”
al quale corrisponde soltanto il lavoro “presente” necessario a produrlo,
dato che il prezzo dei beni-capitali è già stato sottratto dal computo. Non c’è
dubbio che per produrre il prodotto lordo sono stati necessari sia il lavoro “presente”
che i mezzi di produzione; tuttavia la contropartita del “prezzo del netto”
è soltanto il lavoro “presente”, come si mostra ad evidenza trasformando l’equazione
di valore assoluto da “lorda” a “netta”:
Q p - Qk pk = L
Il semplice spostamento a sinistra del prezzo del
bene-capitale consente di trovarvi una differenza omogenea di prezzi, mentre a
destra resta soltanto un ammontare di ore lavorate, ossia proprio quel lavoro
“presente”, o meglio ancora quel lavoro “vivo” (lebendige Arbeit)
per dirla con Marx, già riconosciuto in altro contesto da Adam Smith.
Dal punto di vista della storia del pensiero economico nel
libro abbiamo mostrato come questa equivalenza tra “prezzo del netto” e
lavoro “vivo” - che possiamo anche chiamare equazione di neovalore -
sia stata implicitamente introdotta, per quanto sorprendente possa sembrare, da
Piero Sraffa in Produzione di merci a mezzo di merci quando ha posto a
“numerario” (ossia ha preso come unità) dapprima il prezzo del prodotto
netto e poi anche l’ammontare del lavoro complessivamente impiegato, quasi a
suggerire al lettore che le due grandezze economiche sono tra loro, per l’appunto,
coincidenti [12]. Ma l’equivalenza
può trovar pure ascendenza marxiana nella categoria del “neovalore” [13], inteso per l’appunto come “l’intera
parte di valore delle merci in cui si realizza il lavoro complessivo degli
operai aggiunto in un giorno o in un anno” [14], mentre è stata ultimamente sostenuta dagli
autori della c.d. New Interpretation per superare definitivamente l’ostacolo
della “trasformazione marxiana dei valori in prezzi di produzione” [15].
4. Eppure la New Interpretation, così come si è
presentata, conserva un equivoco che il marxismo si trascina da quasi un secolo
è che riguarda la struttura logica della trasformazione, a correzione del quale
sta la terza decisione del libro.
Assumiamo allora, ad esempio con Bellofiore (uno dei pochi in
Italia a essersi misurato con la New Interpretation), “l’identità
tra il neovalore espresso in termini di lavoro contenuto (i “valori”) e il
neovalore misurato in termini di prezzi di produzione” [16], dove il “neovalore ai prezzi di produzione”
è il nostro “prezzo del netto”. In un’ottica di stretta “produzione
circolare” in cui si produce una merce a mezzo della medesima merce come
bene-capitale, il prodotto netto si può anche determinare direttamente in
termini fisici semplicemente sottraendo dalla quantità della merce prodotta (output)
la quantità della stessa merce impiegata come input. E quindi, per Qn =
quantità del prodotto netto, ne risulta:
Qn = Q - Qk
dopo di che l’“equazione di neovalore” si può
esprimere nella forma:
Qn p = L
E fin qui tutto bene. Però a questo punto, se nell’equazione
di cui sopra si sostituisce alla quantità fisica del prodotto netto la sua
definizione come differenza, altrettanto fisica, dell’output dall’input, si
può arrivare a scrivere frettolosamente:
(Q - Qk) p = Q p - Qk p = L
dove invece non ci siamo proprio. Infatti l’equivalenza
così dedotta, che è poi quella usata dagli autori della New Interpretation,
non coincide affatto con la nostra “equazione di neovalore” a causa della
diversa imputazione del prezzo di produzione del bene-capitale impiegato, che
per noi era pk mentre adesso è diventato p. Niente di grave, si potrebbe
pensare. Ed invece proprio questa semplice sostituzione introduce nel
ragionamento un pericoloso travisamento interpretativo che è stato
denunciato solo di recente dagli autori del Temporal Single System [17].
Cosa significa infatti quel cambiamento di prezzo? È
evidente che per valutare il “prezzo del netto” bisogna conoscere, oltre
alle quantità d’input ed output, anche i rispettivi prezzi di produzione che
però appartengono a due differenti momenti temporali, dato che il primo si
determina prima del processo di produzione, al momento dell’acquisto
dei beni-capitali, mentre il secondo si determina dopo il processo di
produzione, quando se ne vendono i prodotti. Ora può essere solo per caso che i
due prezzi siano coincidenti, mentre la regola generale dovrebbe essere quella
di distinguerli, che è poi quanto avevamo fatto in precedenza. Se invece si
applica l’identico prezzo alle due quantità di output e di input, che si
suggerisce al lettore? Si suggerisce che i prezzi rimangono costanti (il che
naturalmente appare assai improbabile) oppure (ed è peggio) che il processo di
produzione si svolge a prescindere dal tempo, con il mercato dell’output
aperto simultaneamente a quello dell’input così da realizzare su entrambi i
mercati il medesimo prezzo, posto che le merci che compongono l’input e l’output
sono fisicamente identiche. Ma ciò significa ipotizzare che la produzione sia istantanea,
che è quanto c’è di più lontano sia dalla realtà che dal procedimento d’analisi
non solo di Marx, ma di tutti gli economisti classici.
Infatti sono stati gli economisti neoclassici alla fine del
XIX secolo ad introdurre l’immagine di tanto cortocircuito temporale
proprio a critica del precedente approccio “successivistico” dei
classici [18] e l’idea dell’economia
come scambio simultaneo di merci (che, come ha scritto Augusto Graziani,
è “un’idea non è soltanto immortale, ma anche iettatoria, in quanto capace
di far soccombere ogni visione alternativa” [19]) ha avuto tanto
successo presso gli addetti ai lavori [20] da far letteralmente
scomparire dalla teoria la concezione del processo di produzione come un
processo che si svolge “in sequenza”, secondo un percorso temporale
caratterizzato da un “prima” e da un “dopo” e quindi con un mercato dell’input
aperto in un tempo precedente al mercato dell’output talché, anche ad
identità merceologica delle merci, i due prezzi non possono mai arrivare a
coincidere. Ma tant’è: “l’idea dello scambio simultaneo, dopo il trionfo
del marginalismo, ha soppresso ogni residuo di versione classica del processo
economico; ha resistito agli attacchi di Keynes e di Schumpeter; ha superato le
palesi incongruenze che essa stessa genera nella teoria della moneta; ed infine,
è riuscita ad attirare dalla sua perfino le analisi di scuola marxista.
Infatti, gli stessi marxisti, quando studiano il problema della trasformazione,
lo analizzano come problema di equilibrio simultaneo” [21].
È vero. Proprio l’immagine neoclassica dello scambio
simultaneo, e quindi della produzione istantanea, è stata impropriamente
applicata da Ladislaus von Bortkiewicz [22] alla “trasformazione” marxiana dei valori in prezzi di
produzione. Eppure per cent’anni ciò non ha fatto problema; anzi, per cent’anni
la “soluzione” di Bortkiewicz ha fatto scuola, considerata da tutti i
marxisti come analiticamente opportuna e, soprattutto, indiscutibile. Ciò ha
avuto la conseguenza paradossale d’impegnarli a dibattere il problema della
trasformazione entro un contesto logico che non era affatto quello autentico.
Soltanto gli autori del Temporal Single System hanno avuto il coraggio di
rompere l’incantesimo [23], essendo assolutamente impossibile che Marx potesse
concepire il processo di produzione capitalistico in assenza del tempo. Al
contrario, egli l’ha sempre considerato come una successione di fasi
temporali necessarie [24] in cui, se all’inizio (diciamo al
tempo 0) risulta aperto il mercato dei beni-capitali che devono essere
acquistati e di cui al momento sono incogniti i prezzi, al temine (al tempo 1)
è aperto soltanto il mercato dei prodotti i cui prezzi sono adesso incogniti,
mentre i prezzi dei beni-capitali, che risultano cronologicamente precedenti,
sono ormai prezzi passati, prezzi “storici” su cui non c’è più bisogno
di fare i conti, sicché ad essi si deve far riferimento solo come a grandezze
date [25].
Ecco quindi la struttura logica corretta della “funzione di
produzione” e della “equazione di neovalore” a cui si approda se si
combinano assieme New Interpretation (con la sua enfasi sul “prezzo del
netto”) e Temporal Single System (con il suo insistere sulla
circolazione capitalistica come processo in sequenza). Ponendo in corsivo le
grandezze rispettivamente incognite:
Q = f ( L, Qk )
Q p - Qk pk = L
allora si vede come la “funzione di produzione” abbia da
determinare, nota la forma funzionale f e date le quantità di bene-capitale Qk
acquistato al suo prezzo di produzione pk e di lavoro “vivo” L erogato dalla
forza-lavoro acquistata al salario w, soltanto l’incognita della quantità del
prodotto, mentre nella “equazione di neovalore” è incognito appena il
prezzo del prodotto, tutto il resto essendo determinato in precedenza [26]. Di conseguenza quantità e
prezzo (di produzione) del prodotto trovano un duplice ordine di
condizionamento: da una parte stanno la quantità ed il prezzo del capitale a
rappresentare il peso del passato sulla base del quale si esercita il
processo lavorativo, dall’altra sta il lavoro “vivo” quale risultato della
partita di sfruttamento della forza-lavoro salariata che si gioca nel
presente.
5. Ma il “prezzo del netto” deve pur contenere un
profitto, il quale risulta da che? È qui che possiamo compiere l’ultimo
passo [27].
Realizzato sul mercato dei prodotti il “prezzo del netto”,
evidentemente esso non può essere tutto a disposizione del capitale, essendovi
compresa anche quella parte che deve affluire ai lavoratori per assicurare il
loro benessere. Ed essi l’acquistano grazie al monte-salari che hanno
ricevuto, prima dell’avvio del processo di produzione, quando è stato aperto
il mercato della forza-lavoro ed è stata contrattata la loro remunerazione.
Ora, se si fa l’ipotesi che questo monte-salari W venga integralmente
speso [28], al termine
del processo produttivo il suo ammontare si convertirà nell’acquisto di una
sola parte del “prezzo del netto”, essendo il rimanente la parte a profitto.
Sia a questa percentuale. Allora per l’“equivalenza di neovalore” a è
pure la percentuale del lavoro “vivo” che non è destinabile ad altri se non
ai lavoratori e che possiamo chiamare lavoro indisponibile oppure, alla
Marx, “lavoro necessario”:
W = a Qn p = a L
A sua volta il profitto, che è quanto resta del “prezzo
del netto” dopo aver detratto la parte acquistata dai lavoratori con il
monte-salari, viene a coincidere per sostituzione con la differenza del lavoro
“vivo” dal “lavoro necessario”:
P = Qn p - W = L - a L
che è poi quella differenza in ore di lavoro che Marx ha
chiamato pluslavoro e che “sorride al capitalista con tutto il fascino
di una creazione dal nulla” [29]. Il profitto, come differenza tra prezzo di produzione e salario
anticipato (a sinistra), è quindi più esattamente definito (a destra) da una
differenza di quantità di lavoro che isola quella parte di lavoro “vivo”
che si può chiamare lavoro disponibile, essendo il suo esito materiale
in termini di merci prodotte, al termine del processo produttivo, a disposizione
del capitale per qualsiasi destinazione diversa dal consumo dei lavoratori (ad
esempio per il consumo dei capitalisti, se ci sono, oppure per sprechi oppure
ancora per investimento [30]).
Se quindi gli ammontari del profitto e del pluslavoro
risultano logicamente coincidenti (come in precedenza era risultato coincidente
il “prezzo del netto” con il lavoro “vivo”), purtuttavia essi non sono
la stessa cosa. Intanto sono espressi in unità di misura differenti: in prezzi
di produzione il primo, in ore di lavoro il secondo. Ma poi essi forniscono informazioni
differenti sulla maniera capitalistica del produrre. Infatti, se per la
determinazione del profitto è necessaria la conoscenza del “prezzo del netto”
quale risulta al termine del processo produttivo e dopo che i prodotti sono
stati venduti, la determinazione del pluslavoro è antecedente a tutto questo,
dipendendo dall’ammontare complessivo di lavoro “vivo” estorto alla
forza-lavoro e dalla sua percentuale “ipotecata” dai lavoratori con il
proprio monte-salari [31]. Così, se la prima
grandezza ci mostra quanto è stato prodotto, la seconda illustra invece come
lo si produce attraverso la ripartizione del lavoro “vivo” in “lavoro
necessario” e “lavoro disponibile” o pluslavoro. Il fatto è che la
partita del profitto, impostata sul mercato della forza-lavoro con la stipula
del contratto lavorativo32, si gioca tutta nell’atto di produzione con l’erogazione/ripartizione
del lavoro “vivo”. Il resto, ossia quel che avviene sul mercato dei
prodotti, è solo “sanzione notarile” di quanto già conseguito nel luogo
economico fondamentale della “maniera capitalistica del produrre” sulla cui
porta sta scritto (come a tutti dovrebbe essere noto): Vietato l’ingresso
ai non addetti al lavoro “vivo”.
[1] Per lo “stato attuale dell’arte” cfr. D. Cavalieri, Plusvalore
e sfruttamento dopo Sraffa: lo stato del problema, in “Economia politica”,
1995, n. 1, pp. 23-56. Per un’ultimissima eco della pozione “liquidazionista”,
cfr. L. Cavallaro, Napoleoni e la trasformazione dei valori in prezzi, in
“Critica marxista”, 2000, n. 5, p. 36: “l’identità valore = lavoro (è)
“presupposta” da Marx all’inizio dell’analisi. Se cade quest’ultima,
come si può ricondurre l’origine del sovrappiù ad un pluslavoro, dunque ad
uno sfruttamento?”. Appunto, non si può più.
[2] S. Perri, La teoria del
neovalore, “Critica marxista”, 2002, n. 2, p. 67.
[3] “Se, ad esempio, in un popolo di cacciatori uccidere un
castoro costa di solito un lavoro doppio rispetto a quello che occorre per
uccidere un cervo, un castoro si scambierà naturalmente per due cervi, ovvero
avrà il valore di due cervi” (A. Smith, La ricchezza delle nazioni,
Roma, 1995, p. 95).
[4] A. Smith, op. cit., p. 103. Invero solo “quando
la quantità portata al mercato è esattamente sufficiente a far fronte alla
domanda effettuale e nulla più, il prezzo di mercato viene naturalmente a
coincidere con il prezzo naturale, più o meno esattamente” (idem, p. 102).
[5] A.
Smith, op. cit., p. 100 (corsivo aggiunto).
[6] D. Ricardo, Saggi sul valore, Bari, 1980, p. 189. Non c’era quindi
affatto bisogno di attendere Sraffa o Napoleoni per riconoscere che, “ai fini
della determinazione del prezzo di produzione, la sola conoscenza delle
quantità di lavoro contenute in ciascuna merce non è sufficiente, giacché
occorre conoscere anche il tempo in cui questa quantità di lavoro è stata
prestata per produrre ciascuna merce” (L. Cavallaro, art. cit., p. 35).
Bastava Ricardo.
[7] Un’attenta ed equilibrata ricostruzione di questa “deriva”
è data in J. A. Schumpeter, Storia dell’analisi economica, vol. II,
Torino, 1959, pp. 715-736.
[8] A. Smith, op. cit.,
p. 63.
[9] Al momento della sua morte improvvisa egli
stava infatti elaborando uno scritto dal titolo Valore assoluto e valore di
scambio in cui s’interrogava sul valore “assoluto” delle merci: “che
la maggiore o minore quantità di lavoro consumato nelle merci possa essere l’unica
causa della loro variazione di valore è del tutto evidente una volta accettato
il fatto che tutte le merci sono il prodotto del lavoro e non avrebbero valore
se non per il lavoro speso per produrle” (D. Ricardo, Saggi sul valore,
cit., p. 172). La morte ha però purtroppo interrotto il suo scritto.
[10] Si parla allora di
una “produzione di merci a mezzo di solo lavoro” (cfr. L. Pasinetti, Dinamica
economica strutturale, Bologna, 1993, p. 43).
[11] A.
Graziadei, Il capitale e il valore. Critica dell’economia marxista,
Firenze 1947, p. 19.
[12] Cfr. D. Preti, Sraffa e il valore-lavoro in “Produzione di
merci a mezzo di merci”, in G. Gattei (a cura di), Karl Marx e la
trasformazione del pluslavoro in profitto, Roma, 2002, pp. 31-46.
[13] Cfr.
S. Perri, Marx e la doppia “prova” della rilevanza del valore: neovalore
e pluslavoro, in idem, pp. 47-78.
[14] K. Marx, Il capitale. Libro
terzo, Roma, 1965, p. 949.
[15] Cfr. G.
Gozzi, Teoria del valore, pluslavoro e profitto nella “Nuova
Interpretazione”, in G. Gattei (a cura di), Karl Marx e la
trasformazione..., cit., pp. 79-96.
[16] R. Bellofiore, Lavoro
vivo, valore in processo e trasformazione. Risposta a Cavallaro, in “Critica
marxista”, 2000, n. 5, p. 44.
[17] Cfr.
G. Gozzi, Teoria del valore-lavoro e approccio sequenziale, in G. Gattei
(a cura di), Karl Marx e la trasformazione..., cit., pp.
109-122.
[18] Chi è mai stato il primo? È una storia ancora tutta da fare, ma
certamente tra i primi c’era Alfred Marshall quando annotava nei Principles
of economics (1890) che Ricardo “non capiva bene e chiaramente come, nel
problema del valore normale, i vari elementi si governano l’un l’altro
mutuamente e non successivamente in una lunga catena di causalità” (A.
Marshall, Principi di economia, Torino, s. d., p. 795).
[19] A. Graziani, Recensione a mo’
di premessa, in R. Convenevole, Processo inflazionistico e
redistribuzione del reddito, Torino, 1977, p. XLII.
[20] Storicamente è successo così: “il
modello di equilibrio concorrenziale temporaneo, formulato da Walras e
rielaborato da Pareto, rappresenta il primo (e, per un lungo periodo, il solo)
modello formalizzato di equilibrio neoclassico istantaneo... Nel corso degli
anni Trenta il concetto di equilibrio istantaneo viene indipendentemente
riscoperto da alcuni economisti (Hayek, Lindahl, Hicks e pochi altri) che lo
reintroducono nel dibattito economico. Le profonde implicazioni di questa svolta
teorica non vengono immediatamente percepite dalla maggioranza della professione
economica, (talché) nel secondo dopoguerra i modelli di equilibrio istantaneo
acquisiscono una rilevanza via via crescente all’interno del sistema di
pensiero neoclassico” (F. Donzelli, Il concetto di equilibrio nella
teoria economica neoclassica, Roma, 1986, p. 155).
[21] A. Graziani, cit., p.
XLII.
[22] Definito da Walras “uno dei miei
migliori discepoli, se non il migliore” (cit. in G. Gattei, Le cattedre
mancate di Ladislaus von Bortkiewicz (contributo alla biografia), in “Economia
e storia”, 1982, n. 2, p. 206) Bortkiewicz era assolutamente contrario, da
buon neoclassico, ai “pregiudizi successivistici” propri dei classici e di
Marx (cfr. L. von Bortkiewicz, La teoria economica di Marx, Torino, 1971,
pp. 64 e 321).
[23] Meritevole d’ogni lode è quindi il volume di A.
Freeman e G. Carchedi (a cura di), Marx and non-equilibrium economics,
Cheltenham-Brookfield, 1996, dove l’inganno viene finalmente svelato, mentre
per una prima presentazione in italiano si legga L. Vasapollo (a cura di), Un
vecchio falso problema. La trasformazione dei valori in prezzi nel “Capitale”
di Marx, Roma, 2002.
[24] Valga una sola esplicita citazione: “le differenti
fasi del ciclo [del capitale] non sono affatto contemporary, ma si
succedono l’una all’altra” (K. Marx, Il capitale. Libro secondo,
Roma 1965, p. 109). Al contrario nell’equilibrio istantaneo “si può
ignorare il fatto del tutto ovvio che la produzione richiede tempo e perciò
deve essere orientata verso il futuro e non verso il presente poiché se il
presente e il futuro sono identici si può sostituire indifferentemente uno all’altro”
(J. Hicks, Capitale e sviluppo, Milano 1971, p. 72). Ma se presente e
futuro sono identici, allora nell’equilibrio istantaneo non si suppone forse
che, se “c’è stata storia, ora non ce n’è più” (K. Marx, Miseria
della filosofia, Roma, 1968, p.158)?
[25] Per capire meglio è forse opportuno seguire un esempio proposto da
Guglielmo Carchedi: “consideriamo due produttori di martelli, il signor
Bianchi e il signor Rossi. Rossi compra i martelli da Bianchi al fine di fare
martelli. Quindi il martello prodotto da Bianchi è il suo output e allo stesso
tempo l’input di Rossi (dato che) Rossi produce il suo martello col martello
di Bianchi. Quando Bianchi vende il suo martello a Rossi (per esempio a t1) lo
vende per un certo prezzo e Rossi lo compra, ovviamente, per lo stesso prezzo”.
E fin qui ci siamo. Poi Rossi produce, col martello di Bianchi, il suo martello
che vende al tempo t2 a Verdi. Domanda: a quale prezzo lo venderà? Allo stesso
prezzo al quale ha comprato il martello da Bianchi? “Solo se il martello che
Rossi compra come input a t1 è lo stesso martello che Rossi produce, come
output, a t2. (Ma) questa - commenta Carchedi - è una stupidaggine. I due
martelli possono essere esattamente gli stessi nel senso che l’output può
essere una replica esatta dell’input, ma non sono la stessa merce. Uno è
usato per produrre l’altro. E se non sono la stessa merce, non vi è alcuna
ragione di supporre che debbano avere lo stesso prezzo... In effetti essi
avranno lo stesso prezzo solo per caso” (G. Carchedi, L’arte del fare
confusione, in L. Vasapollo (a cura di), Un vecchio falso problema,
cit., p.134).
[26] Ancora un
Marx esplicito: “il prezzo di costo delle merci è un prezzo dato, è un
presupposto indipendente dalla produzione del capitale” (K. Marx, Il
capitale. Libro terzo, Roma 1965, p. 206), dove “prezzo di costo = prezzo
della parte costante del capitale + salario” (Carteggio Marx-Engels,
vol. V: 1867-1869, Roma 1951, p. 45).
[27] Cfr. G. Gattei, La “doppia trasformazione” di Marx, in G.
Gattei (a cura di), Karl Marx e la trasformazione..., cit., pp. 97-108 e L’autentico
terzo libro del “Capitale” e quei conti “che tornano”, in idem, pp.
123-139.
[28] Che nell’ipotesi d’equilibrio “naturale”, ossia per un salario
unitario identico in tutte le produzioni, è pari al prodotto del salario
unitario per la quantità di lavoro complessivamente impiegata.
[29] K. Marx, Il capitale. Libro primo, Roma,
1964, p. 250.
[30] “In generale il surplus può essere assorbito 1) con
il consumo, 2) con l’investimento, 3) con gli sprechi” (P. A. Baran e P. M.
Sweezy, Il capitale monopolistico, Torino, 1968, p. 68).
[31] Si noti che qui non è necessario ipotizzare la preventiva
conoscenza delle quantità dei beni-salario poi acquistate dai lavoratori.
Pagato il monte-salari in forma monetaria, ciò che risulta posto come dato
dalla “equivalenza di neovalore” è solo la percentuale “necessaria” del
lavoro “vivo”, che a sua volta fissa la percentuale di “prezzo del netto”
su cui i lavoratori arriveranno a mettere le mani. Le quantità di beni-salario
che poi saranno effettivamente acquistate dipenderanno invece dal prezzo di
produzione del “prodotto netto” che si determinerà all’atto dello scambio
delle merci prodotte. E quindi, a parità di monte-salari, quantità e qualità
dei beni-salario potranno essere differente a seconda del loro prezzo di
produzione. Ciò è stato perfettamente spiegato da Marx in un passo dei Grundrisse:
col salario il lavoratore “diventa compartecipe nel godimento della ricchezza
generale fino al limite del suo equivalente... Egli però non è vincolato né a
particolari oggetti né ad un particolare modo di soddisfazione. La sfera dei
suoi godimenti non è delimitata qualitativamente, ma soltanto
quantitativamente. È questo che lo distingue dallo schiavo, dal servo della
gleba ecc.” (K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia
politica 1857-1858, Firenze, 1968, vol. I, p. 267).