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Lo sviluppo alternativo eco-socio compatibile

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Il bilancio socio-ambientale: quali interventi dell’impresa a favore dei lavoratori?

Maura Di Francescantonio

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“Non può esserci sviluppo sociale senza progresso economico, ma non può esserci progresso economico senza sviluppo sociale”  [1].

In questa affermazione sono racchiusi il significato e la portata dell’approccio che possiamo definire globale alla gestione d’impresa, ossia di quell’approccio che colloca sullo stesso piano, contestualmente, le implicazioni economiche e sociali dell’agire di impresa.

L’adozione della teoria sistemica dell’azienda [2] porta necessariamente ad analizzarla non come un’entità isolata, operante in una sorta di vuoto ed avulsa da qualunque legame con altre entità di maggiore o minore dimensione, bensì come uno degli elementi costituenti di un più ampio e generale ambiente sovrasistemico, costituito a sua volta da una pluralità di elementi anch’essi di carattere economico e sociale.

L’impresa, dunque, è una parte attiva di quello che può definirsi generale sistema sociale, è influenzata dall’ambiente esterno e lo influenza a sua volta in quanto riveste un ruolo sia economico sia etico sociale, infatti “l’impresa deve rendere conto delle sue attività a tutta la società, in particolare per l’uso fatto delle risorse umane, di quelle naturali e per le conseguenze delle sue attività sull’ambiente” (Documento delle Nazioni Unite, 1977) [3].

Le relazioni di interdipendenza, di influenza e di condizionamento reciproche tra questi “sistemi di sistemi” portano quindi ad introdurre nelle indagini economico-aziendali le tematiche dell’“ambientamento” [4], ossia dei rapporti fra l’impresa e l’ecosistema in senso lato, e della “umanizzazione” [5], cioè della condivisione reciproca fra impresa ed individui di valori aziendali e personali.

Tra i diversi stakeholder che compongono il sistema economico-sociale con cui l’impresa interagisce, ve ne sono alcuni, quali i lavoratori, che più degli altri subiscono l’impatto in termini sociali sulle aspettative da essi legittimamente vantate e sulla relazione instaurata con l’impresa.

In riferimento a tali soggetti è lecito considerare un’accezione specifica del concetto di umanizzazione, quella dell’ “umanizzazione interna”, volendo con questa indicare la proiezione dell’impresa verso i soggetti che sono collocati e si muovono al suo interno prendendo parte alla compagine organizzativa, e la condivisione reciproca di valori aziendali e personali tra queste due parti.

Muovendo da tale concetto ispiratore deriva la necessità di abbandonare la visione “impresocentrica” [6] secondo la quale la collettività è centrata e ruotante intorno all’impresa, quale unico soggetto degno di interesse e di attenzione, in favore di una che, al contrario, si fonda sul riconoscimento della condivisione di valori, di obiettivi e di interessi fra l’impresa e la collettività, in generale, ed i lavoratori, in particolare, quali primi membri della comunità stessa.

Il lavoro per l’individuo rappresenta la fonte della remunerazione monetaria, indispensabile per accedere all’acquisizione sul mercato di quei beni e servizi che permettono il soddisfacimento dei bisogni di consumo personale e familiare, ma al contempo è anche il mezzo con cui il lavoratore stesso esprime la propria personalità e la propria identità professionale nella collettività di riferimento.

I lavoratori, dipendenti ed autonomi, attuali e potenziali, devono essere considerati da parte dell’impresa non come i meri e semplici apportatori del fattore produttivo lavoro, input del processo produttivo alla stregua dell’apparato tecnico, delle materie prime e dei servizi, bensì quali veri interlocutori privilegiati dalla duplice ed inalienabile caratterizzazione economica e sociale, e pertanto in quanto tali destinatari naturali di una informativa ad hoc.

Il bilancio socio-ambientale, che è lo strumento vocato alla rappresentazione delle implicazioni sociali dell’agire aziendale, dovrebbe informare i lavoratori su di un ampio ventaglio di contenuti: “la struttura del personale, il costo del personale, le informazioni riguardanti la formazione e l’addestramento, le malattie e gli infortuni, il tempo di lavoro, le condizioni fisiche del lavoro, le relazioni industriali e le opere sociali attuate dall’impresa a favore dei lavoratori” [7].

I bilanci socio-ambientali pubblicati recentemente dalle imprese tuttavia, si limitano a riportare le precedenti informazioni in modo approssimativo omettendo degli approfondimenti che permetterebbero di valutare la reale qualità del lavoro interna all’impresa.

Ci riferiamo in modo particolare alla mancata comunicazione del rischio di infortuni e di malattie professionali al quale i lavoratori sono esposti quotidianamente sul loro posto di lavoro e all’assenza di suggerimenti sui comportamenti che essi dovrebbero adottare per evitare, o quantomeno mitigare, le conseguenze di un evento incidentale nel quale potrebbero essere coinvolti.

Tale limite da parte dell’impresa può essere in minima parte giustificato dal fatto che la comunicazione del rischio è sottoposta ad una stretta regolamentazione legislativa (Direttiva Seveso recepita in Italia con il DPR 175/1988 [8]) con la conseguenza che probabilmente le imprese ritengono soddisfatta l’esigenza degli stakeholders. Tuttavia, quando si ha a che fare con imprese caratterizzate da un rischio reale superiore a quello percepito esternamente, i lavoratori e gli altri cittadini esposti ad esso hanno il diritto di esserne informati e la comunicazione diventa di fondamentale importanza.

La Direttiva 96/82/CE [9], inerente i rischi connessi con determinate sostanze pericolose e recepita dai paesi membri nel Febbraio 1999, ha ribadito l’importanza dell’analisi del rischio, dell’informazione, formazione e partecipazione ai processi decisionali dei lavoratori e della popolazione ad esso esposta, della pianificazione territoriale e dell’emergenza, ecc., ed ha introdotto ulteriori elementi di controllo, più intimamente connessi alle modalità di gestione dell’intera azienda, quale la redazione di un documento che definisca a priori la politica di prevenzione degli incidenti rilevanti ed il conseguente sistema di gestione della sicurezza che l’azienda intende adottare. Queste normative comunitarie tuttavia rimangono spesso inosservate soprattutto dalle imprese italiane. Fanno eccezione le aziende chimiche per le quali l’informazione sul rischio ambientale rappresenta ormai una prerogativa, in quanto parte del programma Responsible Care [10], il maggiore programma volontario avviato dall’industria chimica mondiale per il dialogo e la trasparenza con il pubblico.

Lacune di questo tipo dimostrano che fino ad ora il bilancio socio-ambientale è stato utilizzato dalle imprese prevalentemente come uno strumento di “marketing” per mezzo del quale incrementare la reputazione del marchio e del prodotto presso gli interlocutori aziendali, e non tanto come risposta al dovere dell’impresa stessa di rendere una comunicazione di contenuto sociale che sia espressione della sua responsabilità sociale verso i lavoratori.

La diretta conseguenza di quanto evidenziato precedentemente consiste nel venir meno della strumentalità del bilancio sociale di impresa verso i lavoratori rispetto alla conduzione del loro processo decisionale. Essi infatti per compiere tutte le scelte relative al contenuto del rapporto di lavoro già intrattenuto, o da intrattenere, con l’impresa devono potere disporre di una serie articolata di informazioni. Queste, in prima battuta, devono avere una connotazione economico-finanziaria, ma non possono poi non avere anche una valenza sociale, stante la pervasività del lavoro stesso rispetto alla loro persona ed alla loro esistenza.

Si può dire che, dal momento che le motivazioni al lavoro sono di tipo monetario, ma anche e sempre più non monetario, i lavoratori necessitano di informazioni sull’entità della retribuzione e sulle complessive condizioni di svolgimento del lavoro. Ovvero i lavoratori ricercano sostanzialmente tutte quelle notizie che permettono di fondare su basi razionali i loro comportamenti per renderli il più possibile aderenti e conformi alle diverse categorie di bisogni che costituiscono la loro personale gerarchia in quel certo momento della loro vita.

Il bilancio socio-ambientale dovrebbe essere concepito, tanto dall’impresa che lo redige e lo divulga, quanto dai lavoratori attuali e potenziali che ne sono naturali ed immediati destinatari, come uno strumento di comunicazione incrociata e reciproca. Ed a tal fine il flusso informativo non deve essere di tipo monodirezionale, ossia non deve limitarsi a fluire dall’impresa verso i lavoratori, relegando questi ultimi che ne sono suoi destinatari in un ruolo puramente passivo di meri ascoltatori; anzi, al contrario, il percorso informativo deve essere compiuto in modo bidirezionale, vale a dire deve permettere il recupero del ruolo attivo, fattivo e propositivo dei lavoratori. “Non si deve infatti dimenticare che, in termini generali, la “vera” comunicazione implica soprattutto la parità di ruolo fra gli interlocutori coinvolti e la loro compartecipazione alla definizione dei “valori” scambiati” [11].

E’ comunque importante che non solo il processo comunicativo sia “a doppio senso”, ma anche e soprattutto che sia trasparente, fondato su basi fiduciarie. Da questo punto di vista è il caso di mettere in rilievo che l’ingrediente essenziale per la riuscita di tutte le interazioni che si svolgono nell’ambiente è proprio la fiducia che, in modo reciproco, ciascuna controparte coinvolta nutre nei confronti dell’altra. E se ciò è vero per le transazioni di contenuto economico, è vero a maggior ragione per quelle di contenuto sociale; ed in particolare quindi per quelle che si sviluppano tra l’impresa ed i propri lavoratori, stante la loro duplice caratterizzazione economica e sociale.

“Fiducia” in tal senso significa quindi, in prima approssimazione, che oggetto della comunicazione tramite il bilancio sociale di impresa verso i lavoratori, non devono essere soltanto gli aspetti positivi e proficui della relazione impresa-lavoratori, e quindi non solo le condizioni di lavoro positive che arricchiscono con un circolo virtuoso la “qualità della vita del lavoro”, ma anche gli eventuali connotati negativi, ossia le situazioni devianti che, in una sorta di circolo vizioso, vanno a discapito della “qualità della vita del lavoro” stesso.

In tal senso quindi, l’impresa non deve soltanto dare rappresentazione ai risultati raggiunti in termini di miglioramento delle condizioni di sicurezza e di igiene dei luoghi di lavoro, di contenimento delle situazioni di tensione organizzativa fra se stessa ed i lavoratori o di incremento degli investimenti di risorse finanziarie destinate a programmi di formazione professionale, ma anche all’esito di politiche di contenimento degli esuberi del personale dipendente in termini di licenziamenti, mobilità o cassa integrazione, alle implicazioni economiche e sociali di rotture del clima partecipativo interno o al numero degli incidenti sul lavoro che si sono verificati.

In altri termini, il bilancio sociale di impresa verso i lavoratori deve diventare un momento di apertura dell’impresa verso i propri dipendenti, di dialogo reciproco fondato su basi serie e profonde di lealtà e fiducia vicendevoli, fermo restando che l’impresa deve astenersi dal considerarlo un mero veicolo di diffusione pubblicitaria o comunque di pubbliche relazioni.

Ecco quindi che in questo documento l’impresa che lo predispone non deve limitarsi a fornire la rappresentazione, qualitativa e quantitativa che sia, di tutti gli aspetti monetari e non monetari delle politiche del lavoro, e comunque degli interventi complessivamente posti in essere nell’ambito del lavoro. Ma, al contrario, deve anche essere data evidenza delle risposte provenienti dai lavoratori stessi circa il grado di apprezzamento della politica del personale attuata dall’impresa.

In definitiva, visto che tale gradimento, ovvero il mancato gradimento, è espressione della rispondenza delle complessive condizioni del lavoro al contenuto della loro “scala dei bisogni” [12], all’interno di questo documento si deve dare spazio alla rappresentazione di come i lavoratori percepiscono la “qualità della vita del lavoro”. Da questo punto di vista, infatti, è importante non solo ciò che l’impresa compie in questo campo, ma anche e soprattutto il modo in cui quanto realizzato è percepito da coloro cui i vari interventi sono diretti: solo la congruenza fra questi due aspetti della medesima realtà oggettiva garantisce la piena armonia fra i valori e gli obiettivi dell’impresa e dei lavoratori.

L’importanza del feedback non si spiega solo sul piano della convergenza che deve sussistere fra il contenuto delle azioni rivolte alla creazione della “qualità della vita del lavoro” e la loro efficacia così come interpretata dai loro destinatari. Infatti, anche sotto il profilo della teoria comunicativa, si può dire che l’impresa adempie in modo completo ed esauriente al proprio dovere di accountability [13] verso il personale solo se alla trasmissione dell’informazione segue la possibilità per i suoi membri di reagire in sua conseguenza, secondo la nota logica della “azione e reazione”: la comunicazione non deve essere cioè fine a sé stessa, ma deve essere l’avvio di una risposta comportamentale, che a sua volta stimoli e sia origine di una nuova comunicazione.

Inoltre, se la comunicazione in questione deve essere paritaria, allora la predisposizione del documento deve avvenire in modo “partecipato”: solo la partecipazione effettiva dei lavoratori, al fianco dei vertici aziendali, alla sua preparazione può assicurare che lo strumento sia un veicolo di comunicazione a doppio senso e che i lavoratori entrino a conoscenza di informazioni che altrimenti verrebbero loro negate. La partecipazione infatti è una prerogativa indispensabile per l’impresa e deve essere realizzata al suo interno “non come contentino, bensì come modello e paradigma” [14].

Il Bilancio Sociale è uno strumento “potenzialmente” straordinario, potrebbe infatti rappresentare la certificazione di un profilo etico, l’elemento che legittima il ruolo di un soggetto, non solo in termini strutturali ma soprattutto morali, agli occhi della comunità di riferimento, un momento per enfatizzare il proprio legame con il territorio, un’occasione per affermare il concetto di impresa come buon cittadino, cioè un soggetto economico che contribuisce a migliorare la qualità della vita dei membri della società in cui è inserito.

Per esprimere a pieno tale potenzialità tuttavia, il bilancio socio-ambientale dovrebbe essere costruito in modo tale da far emergere la “voce” diretta dei lavoratori che, come abbiamo già evidenziato, rappresentano i principali interlocutori dell’azienda, elemento questo che non trova riscontro nei documenti pubblicati dalle aziende.

La partecipazione ed il coinvolgimento degli stessi, precedentemente evocati, dovrebbero essere adottati effettuando indagini dirette sui lavoratori per accertare il loro grado di soddisfazione nei confronti del lavoro e dell’azienda in cui operano. Si potrebbero introdurre all’interno dei bilanci socio-ambientali degli indicatori soggettivi, anche definiti di “agio/disagio”  [15], invitando i lavoratori ad esprimere il grado di soddisfazione relativamente a tre dimensioni fondamentali:

- la sicurezza del luogo di lavoro;

- le opportunità di crescita professionale;

- la tutela dei diritti dei lavoratori, ovviamente in

forma autonoma.

L’indagine potrebbe essere differenziata anche per categoria di lavoratori per rilevare eventualmente se esiste una di loro che necessita di provvedimenti immediati sotto il punto di vista della qualità del lavoro.

Le argomentazioni appena apportate dimostrano che il bilancio socio-ambientale attualmente rappresenta per l’azienda un mero strumento di management piuttosto che di analisi, misurazione e valutazione della qualità sociale.

BIBLIOGRAFIA

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Zappa G.: “Il reddito d’impresa”, Giuffrè, Milano, 1937 e “Le produzioni nell’economia delle imprese”, Giuffrè, Milano, 1956.


[1] Cfr. G. De Santis, A. M. Ventrella: “Il bilancio sociale d’impresa”, Franco Angeli Editore, Milano, 1980, pag.52.

[2] G. Zappa: “Il reddito d’impresa”, Giuffrè, Milano, 1937 e “Le produzioni nell’economia delle imprese”, Giuffrè, Milano, 1956.

[3] Rita Martufi e Luciano Vasapollo: “Funzione etica e programmazione economico-sociale d’impresa nella costruzione del bilancio sociale e del bilancio ambientale”, estratto da “Sociologia”, 1997.

[4] Cfr. A. Matacena: “Impresa e ambiente. Il bilancio sociale”, CLUEB, Bologna, 1984, pag.12.

[5] Cfr. A. Matacena: op.cit.

[6] P. Petrolati: “Il bilancio sociale di impresa verso i lavoratori”, CLUEB, Bologna, 1999, pag.51.

[7] L. Vasapollo: “Gli indicatori socio-ambientali dell’attività produttiva. Nuovi strumenti per misurare la compatibilità sociale di impresa”, Finanza Italiana, mensile economico-finanziario, Novembre-Dicembre 1997.

[8] AA.VV.(a cura di Ranghieri F.): “ La comunicazione ambientale e l’impresa. Analisi di un percorso, Il Mulino, Bologna, 1998.

[9] G. Marsili: “ La partecipazione della popolazione e dei lavoratori esposti ai rischi e alla gestione della sicurezza industriale. Esercizio di un diritto o elemento centrale della prevenzione?”, PROTEO, Rivista quadrimestrale, n.2, Roma,1998.

[10] AA.VV.(a cura di Ranghieri F.): “La comunicazione ambientale e l’impresa. Analisi di un percorso”, Il Mulino, Bologna, 1998.

[11] P. Petrolati: “Il bilancio sociale di impresa verso i lavoratori”, CLUEB, Bologna, 1999, pag.135.

[12] Cfr. A. Maslow: “Motivazioni e personalità”, Armando,1976.

[13] S. Zadek, P. Pruzan, R. Evans: “Building corporate accountability. Emerging practises in social and ethical accounting, auditing and reporting”, Earthscan, Londra, 1997, pag.3 e ss..

[14] L. Vasapollo: “Dove va l’impresa? (al bivio tra funzione sociale e capitalismo finanziario)”, Finanza Italiana, mensile economico-finanziario, Aprile 1996.

[15] A. Chiesi, A. Martinelli, M. Pellegatta: “Il bilancio sociale”, Ed. Il Sole 24 Ore, 2000, Milano, pag.