Sindacalismo di base e democrazia sindacale: dall’autunno caldo quale modello di sindacato
Fabio Sebastiani
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1. Quale democrazia sindacale
È ancora presto, anzi prestissimo, per stabilire quale piega
prenderà il nuovo ciclo aperto dal gran rifiuto della Cgil di firmare il “patto
per l’Italia”, accolto, invece, da Cisl e Uil. E’ ancora presto per dire a
quale modello di sindacato porterà e quale significato potrà avere per il
futuro delle relazioni sindacali in Italia. Certo, a questo punto si aprono
alcune importanti possibilità nel dibattito, a sinistra, sul movimento
sindacale.
Nel fragore assordante della fine della concertazione,
denunciata dalla Confindustria e non da Cgil Cisl Uil, il tentativo di soffocare
definitivamente la democrazia sindacale non è però giunto a compimento. Anche
se la Cgil oggi sbandiera questo come un vessillo importante della sua battaglia
contro il patto di Berlusconi e contro il più generale attacco a diritti e
contratti, è difficile negare come per troppi anni la democrazia sindacale sia
rimasta uno dei tanti optional a beneficio di quella meravigliosa rendita di
posizione chiamata “regola del trentatré per cento”. Eppure la sfida della
democrazia sindacale dovrà riaffacciarsi, siamo sicuri, con modalità e
contenuti inediti, sulla scena della storia del movimento sindacale, non fosse
altro perché oggi è stata messa a tema un’altra grande questione, quella
della ricomposizione del movimento dei lavoratori. Questa non è più una
opzione politica ma, ormai, un dato strutturale dal quale non si può
prescindere. Pena la sconfitta di entrambi, “precari” e “stabili” non
possono continuare ad essere due mondi paralleli. Oggi, che sta saltando uno dei
tanti “tappi” soggettivi, l’unità confederale; oggi, che la precarietà e
la flessibilità non sono più condizioni “a parte”, minoritarie, ma
intaccano la stessa composizione fino a ieri ritenuta stabile, perché all’interno
degli “stabili” parametri dello Statuto dei lavoratori; oggi, infine, che un
nuovo movimento di massa, anzi due, è in grado di misurarsi con la prospettiva
del cambiamento. Nel grande tema della ricomposizione di classe non possono
esserci “rendite di posizione”.
Uno dei terreni per la verifica e il consolidamento della
democrazia sindacale è sicuramente il rapporto tra luoghi di lavoro e
territorio, che è poi un modo per individuare il rapporto tra i nuovi e vecchi
settori di classe. Insomma, è il terreno della costruzione del nuovo movimento
operaio. Scrive Fausto Bertinotti nella sua prefazione al libro “Dai Cobas al
sindacato”, di Gigi Malabarba: <Il legame perciò tra rappresentanze
sindacali sui luoghi di lavoro e organizzazioni territoriali, le camere del
lavoro per intenderci, si evidenzia in tutta la sua necessità. Ma non si tratta
solo di una questione organizzativa, ma di contenuti rivendicativi>. Ovvio,
non può esserci una democrazia sindacale senza una piattaforma rivendicativa.
Stabilire, oggi, l’esatta natura di questa piattaforma, se
politica-confederale o di categoria, tanto per intenderci, è un’altra grande
questione all’ordine del giorno.
Il tema della democrazia dovrà riaffacciarsi anche perché
ai vertici, nell’ambito concertativo, sta definitivamente saltando il giochino
dell’autolegittimazione. Da questo punto di vista la scelta della Cisl è fin
troppo consequenziale e onesta. Se non è più possibile derivare il proprio
potere dall’”unzione” della controparte che ti investe di ciò nella
misura in cui individua alcuni precisi interessi da condividere (parametri di
Maastricht, per esempio) il nuovo potere può venire soltanto da una qualche
forma, per la Cisl è quella dell’associazione dei lavoratori, che deriva da
un’altra fonte. Per la Cgil, che non ha mai praticato il modello Cisl ma ha
sempre puntato a rappresentare la “generalità” del movimento dei
lavoratori, la crisi della concertazione vuol dire, quindi, crisi radicale della
propria autorevolezza e della propria rappresentatività. Confindustria e
governo cercano di imporre, invece, una versione di destra della concertazione
che prevede una cosiddetta legittimazione preferenziale, scegliere, cioè, di
volta in volta, con quale soggetto concludere l’accordo in base al “ribasso”
che propone.
E’ qui che la mancanza di una vera democrazia sindacale fa
più danni. La crisi viene aggravata dalla nascita di un modello concorrente ed
estraneo, quello della Cisl, appunto, che rischia di diventare sia il referente
primario del governo e degli imprenditori, sia il luogo naturale di quella fetta
di lavoratori “stabili” cresciuti in questi anni nella cultura delle
sicurezze e delle tutele e che praticamente non verranno toccati né dalle crisi
né dall’attacco ai diritti.
Questo articolo cerca di rendere più trasparente e
intellegibile la locuzione “democrazia sindacale” a partire da alcune
ricostruzioni storiche, certamente parziali, delle vicende appartenute al
sindacalismo di base. Non ci interessa, qui, fare periodizzazioni e appropriarci
di etichette e sigle. Ci interessa, piuttosto, approfondire, per quanto è
possibile, alcune esperienze del movimento dei lavoratori che possono
sicuramente restituirci preziosi insegnamenti per il futuro.
2. Per una storia delle Rappresentanze sindacali di base
(RdB)
Come tutto il sindacalismo di base, anche l’inizio delle
Rappresentanze di base è connotato da una esperienza spontaneista e
partecipativa che prende le mosse proprio da una precisa della democrazia
sindacale.
Siamo alla fine degli anni ’60 e la logica “spontaneista”
determina un notevole contraccolpo nelle Organizzazioni Sindacali Confederali.
Si riaffaccia prepotentemente nell’area metalmeccanica sì, ma anche in altri
ambiti lavorativi (dipendenti pubblici) rappresentando sempre più
prepotentemente un alternativa al sindacalismo confederale. Da embrioni come
quello del Comitato Operai Metalmeccanici della Autovox, della Voxon, della Ime
, della Romanizzi, per parlare della sola area di Roma si svilupperanno processi
di aggregazione e collaborazione, di studio, di sintonia sui processi
rivendicativi e sulle vertenze che daranno vita ad una delle più importanti e
consolidate realtà del sindacalismo di base, la Federazione delle
Rappresentanze Sindacali di Base. Il problema della democrazia sindacale si
propone da subito al centro del dibattito. Nel 1977 alcuni rappresentanti dei
lavoratori della sede centrale dell’Inps di Roma, componenti del Consiglio dei
Delegati, regolarmente eletti, tentano di ridisegnare un modello di democrazia
partecipativa in forte contrasto con la segreteria provinciale Flep/Cgil e con
il resto del CdD (Cgil - Cisl - Uil) dando vita ad un Comitato di Lotta contro
il rifiuto costante del CdD di tener conto delle volontà dell’assemblea;
<I “signori delle tessere” della FLEP, questa sorta di monarchia
sindacale, non si sono resi conto ... che lo scontro che si è determinato in
questi anni ha fatto crescere la coscienza dei lavoratori, il rifiuto delle
deleghe in bianco e della accettazione della ragion di stato che ha sempre
segnato le più pesanti sconfitte per i lavoratori>. (documentazione curata
dalla Rappresentanza di Base della sede INPS di Roma, oggi presso l’Archivio
della Federazione Nazionale RdB).
<I principi su cui si ispira la rappresentanza di base
sono quelli delle decisioni assembleari e della determinazione di strutture che
siano interne ai posti di lavoro e la cui rappresentatività è in funzione
delle decisioni che in quelle sedi vengono prese dai lavoratori. La
rappresentanza di base, che nasce come strumento unitario, si riconosce nella
tradizione di lotta che i lavoratori italiani hanno fino ad oggi espresso per la
loro emancipazione e con essa vuole stabilire una continuità ideale>. (da
“Statuto della Rappresentanza di Base dell’INPS”)
All’inizio degli anni 80 a Roma si susseguono le iniziative
di lotta nelle più importanti fabbriche della cintura urbana (Pomezia,
Tiburtina) per l’applicazione del contratto e la tenuta dei livelli
occupazionali, il dibattito viene esteso alla cittadinanza e ad altre
aggregazioni rivendicative dei dipendenti pubblici, dalla provincia all’Inps,
dai Vigili del Fuoco alla Sip, alle Ferrovie, all’Atac. <Se il sindacato
abbandona i lavoratori non basta la critica occorre l’organizzazione di base
dei lavoratori>.
Su queste parole d’ordine si deciderà di dar vita “organizzata”
alla esperienza di centinaia di militanti antagonisti alle strategie confederali
ed alla linea filo padronale dei governi, riunendosi nella Federazione delle
Rdb.
Alle strutture di posto di lavoro si uniranno, in una unica
strategia, varie realtà territoriali espressione di un proletariato sempre più
deluso dalle burocrazie sindacali e bisognoso di ridisegnare direttamente il
proprio futuro; la RdB sarà presente nel “Comitato di lotta delle Donne
contro il Taglio della spesa pubblica”, nelle “liste di lotta per la casa a
Roma”, sviluppando un percorso di radicamento nei territori oltre che nei
posti di lavoro. Si passa così da poche realtà lavorative ( emblematico il “comitato
di Lotta dei Metalmeccanici della Autovox”) a svariate realtà lavorative in
altre città d’Italia e a confronti, convegni e dibattiti con “strutture di
Base” che investono molteplici aspetti del “non lavoro”( dal problema
degli asili nido a quello della casa e della vivibilità dei quartieri).
Emblematica, in questa direzione, fu la prima assemblea alla
casa dello studente, a Roma. L’Assemblea operaia cittadina ebbe come obiettivo...
<rendere pubblico il dibattito finora svolto per allargare alle avanguardie
di lotta la discussione e la verifica su questo primo momento organizzativo....>.
L’elemento confederale, come si vede, si pone da subito come una spinta
piuttosto precisa all’interno del modello organizzativo delle Rdb. A distanza
di anni è sicuramente una costante della loro azione, anche se non ha prodotto
in termini organizzativi i frutti che tutti speravano. C’è da dire che gli
anni della concertazione sono stati interpretati, giustamente, in senso
difensivo e quindi anche il sindacalismo di base si è adeguato a questo
imperativo fino ad interessarne la stessa struttura organizzativa.
Un altro elemento forte del movimento sindacale che le Rdb,
così come tutto il sindacalismo di base, riescono ad interpretare è la
contrapposizione che i partiti della sinistra prima e il sindacato poi (Pci e
Cgil) decidono di giocare “nella classe” attraverso l’elezione dell’aristocrazia
operaia e specializzata come segmento di riferimento. Un tema storico,
addirittura decisivo per leggere le sconfitte della sinistra politica e
sindacale in Italia. E’ una contrapposizione che permane tuttora anche se
mitigata dalla scelta della Cgil di “dedicarsi” in qualche mondo al settore
dei precari.
Verso la fine degli anni ’70 il discorso che si fa nella
piattaforma dei metalmeccanici sulla professionalità, non è altro che il
tentativo di creare ( attraverso il controllo sociale e politico degli operai
specializzati e dei tecnici, cioè le 5°, 5°s, 6° categorie dell’industria,
i capi e capetti di linea) un blocco sociale interno alle fabbriche che porta
avanti le linee della “ripresa” e si scontra con chi non è d’accordo. All’Unidal,
per esempio, lo scontro è stato sostenuto dagli operai delle “celle
frigorifere” tutti specializzati, super - pagati e super - garantiti iscritti
al PCI , sono loro che hanno permesso che l’accordo sulla “mobilità”
passasse “menandosi” per otto ore con gli operai “esuberanti”.
Le Rappresentanze di base questa frattura decidono di
percorrerla tutta portando oggi a casa quell’indipendenza e autonomia dai
partiti così preziosa per il movimento sindacale. <Essa non può essere solo
genericamente affermata - è scritto nei documenti del congresso del ’96 - ma
deve essere collegata fortemente a un progetto strategico collettivamente
discusso, che sia di riferimento per le priorità e le tattiche da adottare>.
Secondo la Cgil i contratti devono servire per premiare la
professionalità, la produttività, i quadri e l’orario di lavoro. La distanza
salariale torna a divaricarsi e si sposta per una riparametrazione a favore dei
vertici più alti delle gerarchie dei posti di lavoro, il salario riassume tutto
il valore discriminatorio degli anni 69 - 70. viene inserita per la prima volta
in un contratto privato, all’inizio degli anni ’80, la voce “indennità di
funzione” ( chimici) vecchio strumento clientelare nel pubblico impiego per i
livelli più alti. A fronte di ridicole riduzioni di orario vengono accettati
sfondamenti nell’uso dello straordinario anche di 80 ore ( calzaturiero) e 120
ore ( chimico) mentre nel metalmeccanico le riduzioni a 40 ore previste per il
’79 vengono spostate all’86. Nella sanità, il 10 % dei lavoratori ( i
medici) portano a casa un rinnovo contrattuale pari al 60% del valore stanziato
dal Ministero della Sanità. Eppure, nonostante tutto questo, i sindacati
confederali continuano a chiamare sciopero, impoverendo ancora di più le tasche
dei lavoratori, per dimostrare che quel poco che otterranno sarà stato frutto
di sacrifici. Le RdB, che denunciano con largo anticipo i risvolti nefasti di
questo accordo e le ripercussioni in termine di garanzia di adeguati livelli
salariali, sriveranno il 1° Maggio del 1983: “...il rifiuto di questa farsa,
il boicottaggio attivo delle scadenze sindacali appare il terreno migliore per
impegnare le nostre forze nel progetto di ricostruzione di una organizzazione
sindacale di classe per la difesa degli interessi materiali dei lavoratori ai
quali aggiungere il diritto alle libertà sindacali nel momento in cui
Cgil-Cisl-Uil rivendicano obiettivi contrari agli interessi della stragrande
maggioranza dei lavoratori.
Con il varo del primo decreto Craxi sulla scala mobile viene
alla ribalta il movimento degli autoconvocati. Interi consigli di fabbrica,
delegati di base, alcuni dirigenti sindacali e semplici lavoratori partecipano a
questo movimento. La lotta contro il decreto Craxi, per una maggiore democrazia
nel sindacato, per un ruolo effettivo dei delegati e delle strutture di fabbrica
rappresentavano il centro della discussione nelle assemblee di posto di lavoro
ed in quelle nazionali ( 6 Marzo - Milano, 10 Aprile - Torino).
I militanti della RdB, convocati a Torino per sostenere la
linea dell’opposizione alle strategie craxiane; <siamo stati presenti in
tutte le scadenze a partire dal 14 febbraio con le nostre parole d’ordine:
sindacato dei consigli, potere decisionale dei delegati, obbligo di verifica
degli accordi, diritto di assemblea per i lavoratori... La conferma di quanto
stiamo dicendo (che l’operazione autoconvocati era gestita dal Pci) la si è
avuta quando in sede di autoconvocazione abbiamo visto i vecchi arnesi del
sindacalismo nostrano. A quel punto era chiara l’operazione, anche se è stata
giocata con molta audacia e intelligenza dal PCI>.
(volantino RdB da Archivio della Federazione Nazionale delle
Rappresentanze Sindacali di Base).
Questo’ultimo documento mostra emblematicamente quel limite
di cui abbiamo parlato all’inizio e che segnerà l’esperienza del movimento
sindacale dieci anni dopo con la battaglia sulle pensioni. Il processo di
ricostruzione dal basso dei sindacalismo di base non è quasi un processo, e se
lo è lo è per poco. Si affollano fin dall’inizio interessi e dinamiche
politiche che, specialmente nella situazione italiana, devono fare i conti con
il gigantismo del vecchio Pci, prima, e con l’apparato dei Democratici di
sinistra poi. La novità della situazione odierna risiede proprio seguendo
questo nucleo di ragionamento. Oggi né esiste più un forte “tappo”
politico con il quale dover fare i conti e, nello stesso tempo, sta partendo una
dinamica di democrazia sindacale che non può non investire tutto il movimento
sindacale.
Fino ad oggi la dimensione concertativa ha fatto in modo che
nella soluzione dei problemi non è mai esistita la dimensione collettiva,
quella dimensione collettiva determinata dalla partecipazione al conflitto
fondato su piattaforme rivendicative. Il lavoratore, anche quando (ormai
raramente) veniva chiamato ad esprimersi non è mai stato protagonista, ma si è
ritrova atomizzato, come nelle consultazioni della democrazia rappresentativa,
in quanto cioè elettore passivo.
O il mondo del lavoro, e le organizzazioni sindacali, sanno
dare una svolta a questa situazione, oppure non faranno che accompagnare il
processo di marginalizzazione della partecipazione, processo che appartiene,
come abbiamo visto, sia ai governi di destra che a quelli di sinistra.
3. I Cobas e la proposta aperta
Per doveroso rispetto della verità, dobbiamo fissare la
nascita dei COBAS - acronimo di Comitati di Base della Scuola = Co.Ba.S, poi
generalizzato in Co.Bas) nel 1986 (assemblea al Liceo Virgilio di Roma - la
costituzione formale è del 1987), sulla scia di un grande sciopero nazionale
proclamato contro l’atteggiamento dilatorio del governo nelle trattative per
il rinnovo contrattuale della scuola per il triennio 1985-88. <I primi
Comitati nascono spontaneamente nelle scuole, animati dalla critica verso la
piattaforma confederale e verso l’atteggiamento accomodante dello Snals...I
punti su cui si articola la piattaforma dei Cobas sono: aumento dello stipendio
nella stessa percentuale ... concessa ai professori Universitari..., limitazione
a 20 del numero degli alunni per classe; soluzione del problema del precariato
...., agibilità illimitata delle scuole per ogni organizzazione ... Inoltre,
emerge un altro punto discriminante, che sarà poi alla radice dell’identità
dei cosiddetti “extraconfederali”: una concezione diversa e più radicale
delle forme di lotta....Comincia a prendere così forma l’ipotesi di un
conflitto dotato di “potere vulnerante” e, quindi, in grado di innalzare la
forza negoziale della categoria>. (“Gli altri sindacati”- M.Carrieri e
L.Tatarelli - Edizioni Ediesse). Un’altra vena di questa esperienza di
sindacalismo di base si accende con l’esaurirsi dell’esperienza dell’Autonomia
Operaia. Si costituisce, agli inizi degli anni ‘90 il Cobas Coordinamento
Nazionale, in cui confluiscono il Collettivo Politico Enel, i Collettivi della
Sanità ,delle Telecomunicazioni, degli Enti Locali, dell’Industria, del
Trasporto e dei Servizi. Nel ‘99, il Cobas, Coordinamento Nazionale e il Cobas
Scuola daranno vita alla “Confederazione dei Comitati di Base”
(Confederazione Coabs L’esperienza dei Cobas è, però, segnata dalla vicenda
dell’Alfa Romeo di Arese, dalla sua progressiva chiusura, e dal fatto di
costituire quella sorta di “laboratorio” per l’eliminazione delle
avanguardie del movimento di classe. Il Cobas come necessità, quindi. Contro i
licenziamenti per rappresaglia decisi dalla Fiat nel 1987, al momento dell’acquisizione
di Arese, contro l’accordo che portò alla creazione del “prato verde” di
Melfi, contro, infine, quella concertazione di regime che nascendo direttamente
dal “patto tra produttori” innesca nel cuore operaio dell’Italia
industriale una vera e propria guerra contro i sindacalisti extraconfederali.
Renzo Canavesi e Corrado Delledonne, per esempio, vengono per ben dieci volte
licenziati e reintegrati all’Alfa Romeo. Quasi subito i Cobas diventano una
bandiera. Nel giro di pochi anni arrivano ad avere i numeri per essere sindacato
nazionale. La loro esperienza viene riprodotta, non certo con la stessa
intensità di Arese, dall’Ansaldo all’Alcatel Face, da Pomigliano, a
Cassino, a Crotone. In poco più di un lustro i Cobas diventano all’Alfa di
Arese il primo sindacato, Nel maggio del 1994 lo Slai Cobas vince le elezioni
Rsu all’Alfa di Arese e tra gli operai dell’Alfasud e ottiene successi in
numerose aziende. E’ a partire da questo successo che si avvia una fase di
coordinamento Rsu erede del movimento dei consigli. La vicenda fa scoppiare
tutte le contraddizioni possibili e immaginabili rispetto alla questione del
trentatre per cento a Cgil, Cisl e Uil. Non è un caso se i sindacati
confederali arrivano ad ignorare i risultati del referendum, <che impongono
una legge contro il monopolio burocratico della rappresentanza>. Diversamente
dall’esperienza Rdb quella dei Cobas cerca di scardinare il “sistema” da
dentro. La parola d’ordine per il gruppo Fiat, lanciata insieme dai delegati
Cobas e autoconvocati Fiom riuniti in coordinamento, è quella della
distribuzione del lavoro e degli orari in tutti gli stabilimenti. <La
generalizzazione dei contratti di solidarietà - scrive Gigi Malabarba nel suo
libro dai Cobas al sindacato - deve servire per evitare l’espulsione di massa
di ventimila esuberanti e preparare il terreno a una riduzione generale dell’orario
a parità di salario nel contratto nazionale in via di rinnovo>.
Il Cobas dell’Alfa Romeo non si stacca dagli scioperi
confederali, ma vi interviene per costruire all’interno del movimento un punto
di riferimento, una potenziale direzione sindacale alternativa.
<Oggi, nelle peggiorate condizioni dei rapporti di forza
(1990, ndr) - scrive Gigi Malabarba - puntiamo ad Arese alla riappropriazione
operaia di uno strumento, La Commissione interna, sopravvissuto come garanzia
supplettiva per gli apparati. Una sorta di Esecutivo, eletto però dai
lavoratori, che sancisca legittimità contrattuale allo strumento di lotta per l’autorganizzazione
operaia, il Cobas>. Per l’esperienza Cobas non è certo in discussione la
presunta maggiore rappresentatività del Consiglio di 152 delegati o 230
delegati, rispetto alla Commissione di 15 o 17 membri. Si tratta di
contrapporre, nella situazione di movimento debole, una struttura
rappresentativa esigibile ad altra struttura rappresentativa, <per
determinare - scrive Malabarba - una sorta di dualismo di poteri che consenta di
dire la nostra “sul campo” e di raggiungere un’ipotesi di superamento
della contraddizione in avanti>.
Ed è proprio sulle forme di autorganizzazione dei lavoratori
(per la difesa dell’occupazione e del salario, tramite numerose vertenze
legali di massa contro gli accordi sulla cassa integrazione e - soprattutto -
per il recupero dell’indennità di mancata mensa) che avverrà lo scontro nel
1990-1991 con gli apparati di Cgil, Cisl e Uil. Uno scontro che vede molto
impegnata la Fiom e alcuni suoi segretari nazionali. <La proposta dei Cobas -
conclude Malabarba - è pertanto una proposta “aperta”, per la ricostruzione
del sindacato e anche di nuovi gruppi dirigenti che devono ottenere sul campo l’investitura
dai lavoratori, senza nessun diritto di prelazione. Crediamo infatti che la
nascita di una nuova sinistra sindacale di classe sarà il prodotto congiunto
della battaglia politica in corso nella Cgil e delle nuove realtà di
sindacalismo di base, che sapranno evitare le tentazioni di legittimazione
offerta sia dalle tre centrali sia dal confederalismo autonomo>.
4. Democrazia sindacale e sindacalismo di base
Se, da una parte, questo è un periodo di svolta per il
sindacalismo confederale, periodo in cui giungono a maturazione i processi della
concertazione e si apre la fase del sindacalismo “bipolare”, anche il
sindacalismo di base dovrà fare un bilancio di una storia ormai quasi
trentennale. Una storia per la gran parte segnata da tanti “No”. Oggi può
trasformarsi in una storia del sindacato di classe, unitario e rappresentativo
delle frammentarietà estreme che il movimento dei lavoratori è stato costretto
a subire in questi anni a causa dell’attacco dei padroni, e non solo. Se da
una parte è vero che la Cgil non si trasformerà mai in un grande Cobas, dall’altra
è altrettanto indubitabile che la scelta della Cgil di non firmare il patto per
l’Italia potrebbe sviluppare nel tessuto di classe tante promettenti
potenzialità. Potenzialità che si intravvedono a partire dall’applicazione
rigorosa e generalizzata del principio della democrazia sindacale. Ma l’esperienza
della democrazia sindacale per essere generalizzata ha bisogno di un movimento,
di piattaforme e di obiettivi dichiarati.
Non è sulla democrazia che si è giocata la “madre di
tutte le proteste”, il No alla riforma previdenziale? Fu quella, infatti, la
prima grande occasione persa dal sindacalismo di base per costruire quella
soggettività organizzata capace di incanalare e dare sbocco positivo alla
grande rabbia e ai contenuti alternativi dei lavoratori, a partire dai più
sindacalizzati. E’ un punto di svolta che il sindacalismo Cobas da una parte,
quello venuto fuori dopo la grande esperienza della lotta dei Comitati di base
per l’Alfa Romeo che hanno la forza di strappare l’egemonia in fabbrica a
Cgil-Cisl-Uil, e della Scuola, e quello delle Rappresentanze di base, nate con
una forte impostazione confederale ma di segno nettamente alternativo, dall’altra,
si lasciano scivolare tra le mani. A poco varranno i tentativi, tutti settoriali
(per i Cobas, il movimento della scuola; per le Rdb, i vari scioperi generali
che hanno avuto come traino il settore del Pubblico impiego e vari spezzoni del
movimento degli Lsu), di riprendere le fila di un movimento di classe fortemente
antagonista.
Dopo il 1995, la repressione dei vertici confederali contro
il dissenso di settori di dirigenti e quadri, la preclusione all’utilizzo
persino degli spazi organizzativi delle Camere del lavoro per coordinare l’attività
delle Rsu, le pressioni per far saltare le stesse strutture unitarie di base
minandone il ruolo e la funzione di punto di riferimento per tutto il movimento
e il blocco delle elezioni sindacali hanno creato un vuoto ancora maggiore del
passato. Le manifestazioni del 13 maggio e del 24 giugno 1995 rappresentano uno
sforzo considerevole dei delegati, ma il limite del loro agire autonomo è
enorme.
All’epoca, il sindacalismo di base non era proprio di “primo
pelo”, come si dice. Eppure non fu in grado di dare una risposta conseguente
alla spinta che venne dal movimento. Nessuno, nemmeno quei settori della Cgil
che da anni non facevano che misurare la loro distanza dalla maggioranza
interna, furono in grado di esprimere quel giusto grado di soggettività
necessario a costruire la massa critica sufficiente al “poloalternativo”
del movimento sindacale. Tutti rimasero, a diverso titolo, nelle loro posizioni.
La citazione che segue, presa dalla conferenza programmatica
delle Rappresentanze di base del 1994, spiega bene cosa in effetti bloccò
quella spinta. Da un parte un tipo di sindacalismo di base ancora eccessivamente
legato al modello spontaneista, non in grado di generalizzare su tutto il
territorio nazionale la presenza fortemente aziendalistica e territoriale, dall’altra,
un altro tipo di sindacalismo di base con forti aspirazioni politiche che
giudicò non maturo il momento per dare ai confederali il cosiddetto colpo di
grazia.
<Vogliamo qui mettere in evidenza due posizioni che ci
sembrano in qualche modo esprimere i nodi di un dibattito sindacale
ineludibile>, è scritto. <La prima è quella che afferma la necessità di
riunificazione del terreno sindacale con il politico, cioè che una struttura
sindacale debba proporsi anche come soggetto politico. L’altra è quella che
addita la centralità organizzativa come male da combattere ed afferma la
centralità delle strutture locali, dando per scontato che la solidarietà tra
lavoratori, in settori e in regioni diverse, sia automatica ed inevitabile>.
Per le Rappresentanze di base la soluzione è “in media res”. Non c’è
nessuna confusione tra livello sindacale e livello politico e, inoltre, nessun
automatismo nella solidarietà tra i lavoratori. E’ solo operando una
operazione dialettica, e costante, tra “sindacale” e “politico” che in
questi anni difficili, anni di forte concertazione, di battaglie aspre e senza
esclusione di colpi, le Rappresentanze di base sono riuscite, in qualche modo, a
portare la nave in porto. Più volte, infatti, (Primo maggio 2001, Genova,
sciopero generale contro la Finanziaria) le Rappresentanze di base sono riuscite
a dimostrare che non c’è un livello politico astratto, ma questo è sempre
agito con un retroterra sindacale che lo informa e lo sostanzia. E’ in questa
chiave che va letta la loro apparente “distanza” dal resto del movimento.
Ora, però, anche quel processo è giunto ad un punto di
verifica proprio perché l’onda lunga del sindacalismo di base sta tornando a
doversi confrontare con un tema forte della sua storia, la democrazia sindacale,
appunto. E’ da lì che nacque il punto di discrimine, non solo metodologico ma
anche di contenuto, attraverso il quale il movimento sindacale e quello sociale
in Italia seguirono due strade diverse. E’ da lì che occorre ricominciare,
forti della maturità acquisita, per portare a conclusione un processo e
ricostruire su basi nuove una nuova unità di classe.
Il modello delle Rappresentanze di base, intrinsecamente
dialettico, potrà reggere solo se la scelta di far agire in un livello
piuttosto che in un altro (nel sindacale piuttosto che nel politico) la grande
sfida della democrazia sindacale sarà sapiente e non affrettata o, addirittura
precondizionata. Nel documento per il terzo congresso si individua molto
chiaramente che il grado di consapevolezza da parte delle Rdb del vero nodo
storico attorno a cui ruota la ripresa unitaria e di classe del movimento
sindacale è molto alto. <La costruzione del sindacato di base appare come un
processo “necessario” - è scritto nel documento - ma la sua
concretizzazione deve fare i conti con le mutate condizioni derivate dalla
trasformazione dei rapporti produttivi ed economici, con un ordinamento
gerarchico del lavoro sempre più spesso mascherato da forme illusorie d’autonomia;
deve fare i conti con la frantumazione, con l’emergere di nuovi soggetti, di
nuove forme contrattuali ma anche di nuovi corporativismi. E mentre gli spazi
oggettivi per una tale azione di difesa si dilatano smisuratamente, basta
pensare al fatto che quantitativamente il numero dei lavoratori salariati
aumenta, mentre diminuiscono gli autonomi, assistiamo quotidianamente al fatto
che nei rapporti di forza, sia in relazione alla redistribuzione della ricchezza
che alla rappresentanza sindacale, il peso del lavoro subordinato si indebolisce
fino a diventare irrilevante>.
Questo è un nucleo di ragionamento che può portare
indubbiamente lontano se tra le responsabilità di un sindacato di classe
rientra anche quella dell’innovazione e della sperimentazione. Forse mai come
in questo momento vale la pena di “trasferirsi” nei processi con l’obiettivo
di tentare quella ricomposizione così difficile da conquistare se si rimane
arroccati entro uno schema chiuso e autoreferente. Le Rdb hanno dimostrato più
volte di saper “gettare il cuore oltre l’ostacolo”. Si tratta ora di
avviare un processo di verifica dei risultati.