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La transizione difficile

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Annamaria Crescimanni
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Professoressa di Teoria dell’inferenza Statistica, Fac. di Scienze Statistiche, Università “La Sapienza”, Roma; membro del Comitato Scientifico di CESTES-PROTEO

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L’integrazione europea e l’organizzazione scolastica e formativa

Annamaria Crescimanni

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1. Premessa

La cultura si conquista attraverso un processo individuale di formazione della propria personalità, ma nel contesto di un’esperienza sociale consapevole che è appunto la azione educativa dello Stato o di ogni altra associazione che si ponga come “Stato” e la scuola è lo strumento più importante dell’opera statale di direzione culturale.

Accettando la definizione gramsciana di cultura e di intellettuale (specialista + politico e quindi oltre ai letterati anche i tecnici) non vi è dubbio che la scuola resta lo strumento fondamentale per elaborare gli intellettuali.

Non bisogna dimenticare che la scuola deve formare intellettuali di vario grado, secondo una scala verticale di specializzazione. Non servono solo gli intellettuali dell’alta cultura e della tecnica superiore e comunque non si formano gli intellettuali di grado elevato se non si sono curati i gradi intermedi.

Nel moltiplicarsi delle specializzazioni tecniche, richieste a loro volta dallo sviluppo delle forze produttive della società moderna, è una necessità obiettiva implicita il crescente moltiplicarsi dei tipi di organizzazione scolastica educativa e culturale.

Si tratta di esigenze nel campo dell’istruzione e formazione culturale (prima che professionale) particolarmente evidenti oggi che strumenti (visivi ed informatici) consentono, oltre che richiedere per sé stessi, una diversa organizzazione della didattica.

La complessità della funzione intellettuale richiede dunque una coerente organizzazione scolastica, anch’essa disegnata secondo gradi verticali di complessità e pari dignità formativa.

Purtroppo però non sembra di poter dire che coloro che hanno attualmente la responsabilità della coerenza del ciclo dell’istruzione e della formazione, come chi l’aveva prima di questi, si siano posti il compito di coordinare l’azione degli operatori dei diversi livelli scolastici in funzione di un progressivo arricchimento culturale delle nuove generazioni. Il risultato si vede nelle ultime proposte per la scuola del governo attuale, così come nelle proposte per l’Università del precedente governo.

La decisione di scrivere questo articolo parte proprio da questa constatazione fondamentale: al di là di alcune differenze anche importanti, gli obiettivi sostanziali di formazione dei giovani, contenuti nel progetto di riforma scolastica e universitaria del governo di centro sinistra, non sono stati mutati dal governo di centro destra.

Evidentemente la stragrande maggioranza degli uomini della politica, della cultura e dei tecnici del mondo dell’istruzione e della produzione, a prescindere dalle specificità dei partiti di appartenenza o vicinanza, concordano su quale debba essere il ruolo primario dell’insegnamento, in funzione di quali interessi debba essere organizzato.

Questa convergenza tutto sommato è coerente con quanto ci ha insegnato Gramsci, ossia che l’autonomia degli intellettuali, la loro indipendenza dal gruppo sociale dominante è una utopia sociale.

Come dice ancora Gramsci il tipo tradizionale e volgarizzato (nel senso di conoscenza comune) dell’intellettuale è dato dal letterato, dal filosofo, dall’artista. Tra questi si pongono senz’altro come caso “patologico” molti giornalisti-opinionisti che, con qualche giustificazione (visto che i loro libri, letteralmente riempiono gli scaffali delle librerie e che spesso godono di grande spazio non solo sui giornali e nelle televisioni, ma anche nelle scuole e nelle università), si sentono sicuramente letterati, filosofi, artisti e quindi intellettuali. Ciò nonostante meraviglia un poco che anche uomini politici ideologicamente (?) schierati, su un tema chiave come è quello della formazione dei giovani convergano, a prescindere dalle diverse visioni del mondo.

La questione a ben vedere non riguarda solo l’Italia ma, anche se il dibattito ha poco rilievo ovunque, riguarda l’intera Europa.

Possiamo senz’altro dire che, come nel passato più o meno remoto (anni ’40-’80), anche oggi vi è concordanza di vedute nella maggioranza degli uomini di cultura europei e, almeno nelle dichiarazioni ufficiali, anche negli uomini di governo (di destra- centro -sinistra). Solo che la risposta di allora è diversa da quella di oggi.

Da pochi possiamo aspettarci quanto ieri, in via di principio, non era messo in discussione da nessuno “...la educazione è la condizione elementare della vita spirituale e morale dell’uomo del futuro... la vita per l’ignorante è moralmente insopportabile... Gli interessi dei giovani sono gli interessi di tutta la società”.

Sia nella società che tra gli esponenti della cultura dominante nei diversi paesi della comunità, sia che governi una forza conservatrice o progressista, difficilmente verrebbero date risposte di questo genere, questo per un motivo semplice: perché il giovane in formazione non è visto più come il futuro cittadino, ma come il futuro lavoratore.

Questo perché, in questa fase dei rapporti internazionali, i paesi dell’Europa sono profondamente condizionati dagli interessi economici.

2. L’Europa Unita dall’Euro

L’Europa ha iniziato ormai da diversi anni, ma non ha ancora completato, il processo di trasformazione in un unico soggetto sovranazionale, né la sua realizzazione appare a tutt’oggi vicina.

I soli interessi che sembrano godere di un riconoscimento comune e che evidentemente fanno pensare alla possibilità di un consolidamento in una struttura sovranazionale, sono appunto quelli economici.

Non a caso la prima realizzazione importante è stata quella della moneta unica, l’euro. Essa dovrebbe dare concretezza in Europa, ma soprattutto nel resto del mondo, all’idea della sua unicità come potenza economica e politica.

L’istituzione della moneta unica ha richiesto però un’accelerata convergenza dei valori di quelli che sono riconosciuti come parametri d’efficienza dei sistemi economici.

Di conseguenza, in tutti i paesi della comunità domina un “pensiero unico”, i cui punti fermi sono essenzialmente l’aumento del PIL e la diminuzione del costo del lavoro e della spesa sociale: dunque, innanzitutto, della previdenza, della sanità e dell’istruzione pubblica.

In funzione di ciò e sempre a prescindere dall’orientamento ideologico della forza di governo, è ormai in atto un riassestamento degli equilibri sociali, a svantaggio della classe lavoratrice.

Si può ben comprendere come questo stato di cose stia avendo una ricaduta anche nel campo della formazione culturale e professionale delle nuove generazioni.

Per limitarsi all’Italia, come abbiamo già detto, questo ha comportato una sostanziale convergenza d’intenti tra gli ultimi governi. Entrambi infatti parlano di scuola azienda, di studente cliente e di professore manager.

Non è in discussione la coerenza del governo di destra o del suo ministro (imprenditore) dell’Istruzione, ma quella del precedente governo, liberale con la partecipazione del partito socialdemocratico dei Democratici di sinistra, eredi, ma non sul piano ideale, del vecchio Partito Comunista (PCI).

È responsabilità di questi, infatti, aver introdotto, per molti imposto, il concetto di scuola e università come azienda, di aver esaltato il collegamento tra istruzione e necessità del mondo produttivo, di aver aperto le porte al finanziamento della scuola privata.

In realtà, non per diminuire la loro responsabilità, bisogna ammettere che nell’attuale fase di sviluppo, non solo l’Italia ma l’intera Europa ha spostato l’attenzione dalla complessità della funzione intellettuale (che ovviamente deve comprendere anche l’aspetto professionale) alla convenienza (per le aziende) della duttilità di una formazione tecnica non troppo specialistica. Inevitabilmente questo sta lasciando il segno anche nell’offerta didattica sia della scuola che dell’università.

Lo scopo dell’insegnamento non è più visto nell’arricchimento culturale del popolo ma nell’addestramento di nuova forza lavoro coerente con le esigenze del mercato; non è più in funzione della felicità dell’uomo, ma dell’accrescimento della ricchezza economica della nazione, più precisamente, dell’arricchimento dei detentori del capitale economico e finanziario.

Visto che per soddisfare gli interessi di questi è necessario spostare rapidamente i capitali sulle attività via via più remunerative, diviene necessario formare una forza lavoro sufficientemente acculturata, perché questo assicura una maggiore capacità di adattamento; ma non fortemente specializzata, perché questo ne limiterebbe la mobilità.

Ovviamente non si ritiene di poter fare a meno degli intellettuali, ma evidentemente si pensa di poter formare specializzazioni tecnico-culturali d’eccellenza a prescindere dalla qualità di tutti i gradi intermedi, a partire dalla scuola primaria e fino ai corsi universitari di primo livello.

 

3. Le azioni della Comunità europea in tema di istruzione

Se dunque non vi è differenza sostanziale tra le politiche per la scuola e l’università degli ultimi anni, pur dovendo riconoscere che una politica di destra viene molto meglio se al governo è la destra, è perché il filo conduttore è comunque la politica europea. È il caso quindi di ripercorrerne brevemente i documenti ufficiali.

La politica europea in tema di istruzione e formazione culturale è stata piuttosto intensa, in particolare a partire dal libro bianco “Insegnare ed apprendere. Verso la società conoscitiva” del 1995, che però va letto tenendo presente il successivo libro verde del ’96 sugli ostacoli alla mobilità transnazionale.

Dal 1997 i programmi comunitari riguardanti l’istruzione, la formazione e i giovani si sono allargati a diversi paesi dell’Europa centrale e dell’est, anche non appartenenti alla comunità europea e coinvolgono ormai ben 30 paesi, parte dei quali sicuramente in posizione subalterna rispetto alle scelte in discussione.

A partire dalle due indagini conoscitive si ebbero una serie di incontri diretti ad armonizzare gli ordinamenti vigenti, al fine di rendere possibile il reciproco riconoscimento (anche ai fini lavorativi) dei titoli di studio esistenti; riconoscimento ottenuto individuando un criterio di equivalenza fra i corsi dei diversi paesi della comunità, il sistema dei crediti ECTS, che opportunamente rende anche possibile il riconoscimento di attività svolte dagli studenti al di fuori del territorio nazionale.

Non ci si è certo limitati a favorire la mobilità degli studenti, azione lodevole, ben presto questa armonizzazione ha assunto il significato di un ridisegno culturale incisivo tanto in tema di istruzione scolastica che universitaria.

Tra i diversi programmi, un ruolo preminente ha Socrates, che copre l’intero settore dell’istruzione e che ha concluso la prima fase quinquennale il 31 dicembre 1999. Dotato di un bilancio iniziale di 850 milioni di ecu, con lo scopo di finanziare la mobilità di studenti, docenti e operatori, ha coinvolto complessivamente 275.000 persone, circa 1.500 università, scuole (8.500) e ha finanziato 500 progetti transnazionali.

La seconda fase del programma Socrates (2000-2006) ha avuto una dotazione di 1.850 milioni di euro; in esso vengono conglobate anche azioni specifiche, nate separatamente, come ad esempio Erasmus (volto a favorire la collaborazione tra le diverse sedi di istruzione superiore) o il programma Lingua (volto ad ottenere che i giovani, all’interno del periodo di studio obbligatorio, imparino almeno due delle lingue parlate nella comunità stessa).

A proposito di questo è il caso di rimarcare che la commissione europea mette in guardia dal rischio che in Europa si produca un impoverimento linguistico, con il prevalere di una sola lingua comune (ossia l’inglese, come sembra preferire il nostro Presidente del Consiglio dei ministri) raccomandando piuttosto agli stati membri di salvaguardare le differenze linguistiche, di cui rimarca il valore di patrimonio culturale.

Viene detto: “... l’adattamento permanente dei sistemi di istruzione e di formazione alle nuove esigenze costituisce una missione di importanza strategica per l’Europa, poiché la sua competitività economica e la stabilità della società europea si fondano sulle conoscenze sia teoriche che pratiche e su concezioni fondamentali comuni...” La parola d’ordine di Socrates ora non è più solo quella di favorire la mobilità di persone e idee, ma “istruzione lungo tutto l’arco della vita”, così da favorire la capacità d’inserimento e reinserimento professionale

In questo modo, attribuendone il compito alla scuola e all’università, in realtà si apre ad esse una nuova strada: quella della riqualificazione dei lavoratori, costo sociale che evidentemente non si vuole far gravare sulle aziende.

È logico perciò che le finalità di Socrates si mescolino così a quelle di un altro programma: Leonardo da Vinci che, fino dalla sua prima fase (95-99), aveva l’obiettivo di migliorare la qualità della formazione professionale in Europa.

Anche Leonardo ha comportato il finanziamento di progetti (3.000) e la mobilità di (130.000) persone, in maggioranza giovani, l’enfasi su questo progetto e anche i fondi però sono minori.

A gennaio 2000 si è aperta la sua seconda fase quinquennale, con una dotazione è di 1.150 milioni di euro e anche per esso il campo di applicazione non è più nella sola fase iniziale della formazione, che deve diventare continua e consentire l’acquisizione delle competenze nel corso di tutta la vita.

Esplicitamente, fatto di per sè necessario, si raccomanda di operare coerentemente nell’utilizzo delle opportunità dei due programmi, entrambi sono finalizzati alla crescita anche economica della società.

Dal 2000 partono altre iniziative che riguardano ad esempio lo studio delle lingue e la promozione dell’apprendistato e che globalmente si propongono di dimezzare, entro il 2010, il numero di persone fra i 18 e 24 anni che hanno frequentato solo il primo ciclo d’istruzione secondaria e che non proseguono gli studi o la formazione.

Se si vedono (sul sito web) i documenti ufficiali dell’Unione, come ad esempio le conclusioni del Consiglio europeo di Lisbona del 2000, che fissano l’obiettivo strategico di creare un’economia della conoscenza competitiva e dinamica e obiettivi specifici riguardo alle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (TIC) e all’istruzione, o le conclusioni del Consiglio europeo di Stoccolma del 2001 che hanno riaffermato che migliorare le competenze di base, segnatamente la padronanza delle tecnologie dell’informazione e delle tecniche digitali, è una priorità assoluta per l’Unione, si vede come le argomentazioni sull’istruzione siano indissolubilmente legate a quelle sul lavoro o più precisamente finalizzate a quest’ultimo.

Si sottolinea “l’importanza di aumentare il livello delle competenze e la loro trasferibilità da un paese all’altro, e di rafforzare le politiche in materia di istruzione, competenze e formazione permanente,... avvalendosi dell’esperienza delle imprese, del mondo dell’istruzione e delle parti sociali... per conseguire il nuovo obiettivo strategico fissato a Lisbona, di rendere l’Europa l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo”. Ecco che qui si esplicita lo scopo ultimo, strategico.

...I buoni propositi sono tantissimi, tutti sottintendono nobili sentimenti.

Torniamo allora al motivo della convergenza tra obiettivi di governi di destra e di sinistra. Un primo scopo perseguito con la riforma dei cicli è quello di facilitare l’accesso al titolo di laureato. Questo vale particolarmente per l’Italia che, come noto, non ha il numero di laureati necessari per il mercato del lavoro. Come si possono ottenere i numeri giusti? Rendendo più leggera la didattica, proporsi un ripensamento dei modi della didattica sarebbe troppo lungo e di minor certezza!

Ancora l’Europa è all’origine della seconda ragione di convergenza tra governi “antagonisti”. È l’Europa infatti che si è data l’obiettivo di legare più strettamente il problema della formazione culturale a quello della formazione professionale. Perché lo studente, chiamato a volte utente, a volte cliente, altri non è che il lavoratore di domani ed evidentemente si vuole consegnare al mondo del lavoro un giovane più pronto ad aderire alle esigenze del mercato del lavoro.

Un caso esemplare può chiarire bene la questione: la riforma dei cicli nell’università (che piace anche al nuovo ministro dell’Istruzione).

Come noto i vecchi corsi di laurea sono stati sostituiti da una struttura verticale:un corso triennale di laurea, seguito da un corso specialistico, in genere biennale. Almeno in Italia (ed è così da tempo in Gran Bretagna), non ha, però, prevalso l’opinione di quanti ritenevano che doveva trattarsi di due gradi verticali di progressivo arricchimento culturale, per entrambi i quali era necessario insegnare in funzione del comprendere le ragioni del fare. Se non in tutti, almeno in molti casi ha prevalso l’opinione di quanti ritenevano che, con il primo ciclo triennale di studio superiore, si poteva imparare solamente a saper fare e solo dopo il biennio specialistico si potevano comprendere le ragioni del fare, il sapere: la cultura.