Una panoramica del sindacalismo in Spagna (1920-2002): dall’antifranchismo al pro-liberalismo
Diego Guerrero
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I. Introduzione: le origini storiche del sindacalismo spagnolo [1]
È possibile che il lettore italiano non sappia con dettagli
sufficienti che la situazione sindacale nella Spagna degli inizi del XXI secolo
è molto distante da quella che era un secolo prima, più facilmente
individuabile nella letteratura storica sul socialismo europeo. Se nella prima
decade del XX secolo i due grandi sindacati spagnoli erano, da una parte, l’Unione
Generale dei Lavoratori (UGT) -vincolata al Partito Socialista Operaio Spagnolo
(PSOE), fondato da José Mesa, Pablo Iglesias e altri sindacalisti che si
ispiravano al “marxismo”-, e dall’altra, la Confederazione Nazionale del
Lavoro (CNT, o CNT-AIT), che si fondava sul sindacalismo rivoluzionario che si
divulgò in Europa a partire dalla Carta di Amiens del CGT francese (1906) -si
veda Rivera (2002)-, attualmente la situazione è molto diversa.
Continua ad esserci una tradizione anarchico-sindacale,
sebbene sia rappresentata al momento da due sindacati diversi: la CNT e la nuova
Confederazione Generale del Lavoro (CGT), scissa da quella nel 1979 (si veda
Iñiguez, 2002). Comunque, il predominio dei due grandi sindacati detti “di
classe” (con più dei due terzi dei rappresentanti dei lavoratori alle
elezioni sindacali del periodo post-franchista) è più che evidente. Queste due
importanti concentrazioni sindacali sono la UGT, ancora legata al PSOE, e le
Commissioni Operaie (CCOO) [2], sorte
negli anni ’50 e legate storicamente con il Partito Comunista Spagnolo (PCE),
oggi integrato nel gruppo elettorale Sinistra Unita (IU).
Negli anni ’80, quando il PSOE era al Governo spagnolo e
celebrò il centenario come partito, coniò per la commemorazione il motto “100
anni di dignità”, al quale il sapere popolare aggiunse un sicuro e più che
giustificato: “... e 40 di vacanza”. Qualcosa di simile accadde anche al
sindacato fratello. Dopo il suo collaborazionismo durante l’epoca della
dittatura (dictadura) di Primo de Rivera (incluso la cosiddetta “dittatura
molle” -“dictablanda”) -1923-1931, anni in cui la UGT partecipò agli
schemi organico-rappresentativi e parafascisti della destra di allora-, e dopo
la sua importante crescita durante la II Repubblica (1931-’39), insieme a
quella del CNT, il panorama cambiò radicalmente sotto il franchismo. Di fronte
al lungo periodo di sosta della UGT (che terminò solamente quando, negli anni
’70, Willy Brandt e l’Internazionale Socialista si resero conto che
bisognava immettere denaro fresco nel sindacalismo spagnolo tardo-franchista se
si volevano bloccare le inquietudini rivoluzionarie dei lavoratori dell’epoca),
la ribellione spontanea dei lavoratori culminò nel movimento scioperistico e
combattente che dette origine, nelle due decadi del 1950 e 1960, alla nascita e
crescita delle CCOO in tutti i nuclei della popolazione, cominciando dai centri
industriali di vecchia tradizione o di nuova creazione (si veda David Ruiz,
1993).
In un primo periodo, le Ccoo erano molto critiche con il
sindacalismo convenzionale, al quale, malgrado non esistesse in Spagna -dove gli
unici sindacati legali erano i cosiddetti “verticali” (franchismi)-, davano
la colpa di essere “riformista, conformista e burocratico”. Uno dei
fondatori delle CCOO, Marcelino Camacho, che trascorse lunghi anni nelle
prigioni franchiste, durante gli anni della prigionia espose la sua idea di
sindacalismo a molti dei compagni che passavano per Carabanchel e altre carceri
della dittatura. Il riassunto di questi insegnamenti, le critiche al
sindacalismo convenzionale e l’inclinazione verso una concezione alternativa,
dei sindacati di base, vicina al ‘consiglismo’ storico (si veda Pannekoek,
1941-47), sono chiare in Camacho (1976), un libro che cadde subito nella più
assoluta dimenticanza (e, come sembra, persino per lo stesso Camacho, a
giudicare dal Camacho del 2002) [3].
Comunque, quelle stesse critiche si possono estendere
ugualmente all’altro centro sindacale, la UGT, che ha appena celebrato il suo
38° Congresso Confederale (13-16 marzo 2002). Poiché non c’è molto spazio
qui per dilungarsi sulle questioni di fondo, in questo breve articolo mi
limiterò a porre in risalto, in forma quasi giornalistica, alcune frasi
estrapolate da recenti esposizioni dei due attuali segretari generali di
entrambi i sindacati, tanto del UGT (sezione II) quanto delle CCOO (sezione
III).
II. Riformismo e liberalismo contemporanei nei “sindacati di classe”
spagnoli: il caso della UGT
In un’intervista concessa a El País, il segretari
generale della UGT, Cándido Méndez (si veda Méndez, 2002), prima di
presentarsi alla rielezione per un terzo mandato, mostrava chiaramente la
posizione “politica” attuale del suo sindacato, criticando il governo del PP
per la sua politica liberale (Méndez si riferiva al trio di moda in Europa:
Aznar- Blair- Berlusconi), e segnalando che il PSOE “dovrebbe apportare un’altra
visione dell’Europa” (dando ad intendere che non lo fa in maniera
soddisfacente).
Allo stesso tempo, Méndez segnalava che il segretario
generale dell’IU, Gaspar Llamazares, “sinceramente [...] sta facendo degli
sforzi in questo senso”. Ma se dal politico-elettorale passiamo al terreno
delle strategie sindacali, non c’è altro da fare che cogliere le due frasi
che estrapolano i giornalisti che lo intervistano come riassunto della posizione
“di classe” del suo sindacato. Méndez afferma che “gli immigrati sono il
nuovo proletariato” e che “esigiamo dalle imprese i valori etici, e che non
si limitino al valore in Borsa”; che non sembra altro che pura ideologia
liberale, vuota del più minimo contenuto di classe. Ma vediamo il percorso
intellettuale che porta a queste conclusioni giornalistiche.
1. Alla domanda se si sta aprendo adesso una “nuova tappa”
[4] nell’UGT,
Méndez risponde che certamente sì: la “tappa” del XX secolo “è
arrivata al culmine favorevolmente” perché “gli obiettivi difesi da Pablo
Iglesias all’inizio del secolo scorso [...] oggi sono riconosciuti come
diritti costituzionali, e inoltre sono condivisi da tutta la società” [sic].
Sembra che Mèndez dimentichi che gli obiettivi che sta attribuendo a Pablo
Iglesias sono quelli che già stavano nelle “Leggi Fondamentali” di Franco
- che svolgevano il ruolo di Costituzione nella sua peculiare “democrazia
organica” -. Secondo lui, gli obiettivi di Pablo Iglesias e dei socialisti
di un secolo fa erano “difendere per la via riformista e democratica la
dignità del lavoro, e i diritti che scaturiscono da esso come il diritto alla
pensione, alla sanità e alla scolarizzazione”. Cioè, il socialismo inteso
come il miscuglio tra la dottrina sociale della Chiesa e la Sicurezza Sociale
che anche Franco e il suo ministro falangista, Girón de Velasco,
contribuirono ad ampliare.
2. Dopo, Méndez ci fa scoprire, una volta ancora, un
Mediterraneo ben conosciuto: che “la struttura della classe operaia è
cambiata ed è molto più ampia”, non solo perché ci sono sempre più donne
nel mercato del lavoro [5] (ciò che sembra gli piaccia tanto e
tanto acriticamente come ai capitalisti che approfittano di esso), ma perché,
dopo essere “ufficialmente” scomparso il proletariato, ora riappare nella
nuova Spagna, prima emigrante ed adesso ricevente di migliaia di immigranti
magrebini, sudamericani, africani, etc. Poiché Méndez e i suoi teorici mille
volte hanno dovuto ingoiare questa pillola, e l’hanno digerita senza alcun
problema e senza effetti secondari conosciuti, si nota che già si è
allontanato dalla credenza liberale che noi proletari che non siamo emigranti
non siamo proletari ma facciamo parte di quella grandissima e meravigliosa “classe
media” (“nuova” o “vecchia”) che tanto sfrutta il santo “Stato del
benessere”, il benefico ricordo della “dorata” era keynesiana e l’acqua
benedetta del “modello social-europeo” battezzato anche da papa Wojtila.
3. Inoltre Méndez evidenzia il cavallo di battaglia
intellettuale contro il “pensiero unico”, che consiste nell’opporre ai
sindacati “professionali” o “corporativi”, e contro il suo fondamento
ideologico occulto - l’intento di “restringere il ruolo dei sindacati a
difensori del valore del lavoro di fronte al valore del denaro” [sic]
-, il “modello sociale” che lui difende, che è quello dei sindacati “pragmatici”
e “moderati” d’Europa, che “si configurano nell’ambito della
sinistra”. Poi, dopo aver pagato il notorio tributo alla dea della
globalizzazione - l’obolo che consiste nel reclamare “che la
globalizzazione adotti una nuova rotta”, che è ciò che chiedono tutti i
politici e i finanzieri, escluso i fanatici eccentrici -, e dopo aver
riconosciuto che i sindacati stanno passando un periodo di stanca,
contrattacca con una ricetta che non si sente neanche nelle riunioni dei
retrobottega del secolo XIX: “vogliamo rivendicare un nuovo modello di
impresa dove vengano incorporati i valori etici e che l’elemento
fondamentale non sia il valore in Borsa” (amen).
4. A seguire, dopo aver fatto un “bilancio modesto, ma
positivo” [sic] sull’inserimento delle 35 ore in Spagna [6], Méndez spiega ad Aznar in cosa consiste la
politica d’impiego più favorevole ai lavoratori: non si tratta di rendere i
mercati del lavoro “più flessibili” - quella è la ricetta neo-liberale
-, ma si tratta di imitare quello che fanno gli statunitensi, e cioè: “degli
investimenti in nuove tecnologie che duplichino nell’Unione Europea e
triplichino nella Spagna”. Infine, dopo aver tirato le orecchie al PSOE e
felicitandosi con l’IU (come abbiamo detto), e dopo aver ricordato che “l’unità
d’azione” con le CCOO si va mantenendo, passa al tema che preoccupa
realmente le centrali sindacali, nella misura in cui tutto il suo
comportamento liberale (nell’ideologia) non è altro che la controparte
mentale del suo comportamento liberale (nel sociale: in quanto “agenti di
mercato” e, in particolare, del mercato elettorale, sono il segmento “sindacale”).
Nell’opinione di Méndez si deve discutere con le CCOO, con la
organizzazione padronale e col governo “in profondità sul modello di
dialogo [sociale]”, di modo che il Governo “deve rispettare quegli
incarichi che sono le funzioni concesse dalla Costituzione alle organizzazioni
padronali e ai sindacati, per esempio, la negoziazione collettiva”.
Mi fermo qui, visto che ci siamo imbattuti per caso con la
Costituzione, e come difensore della nostra Costituzione capitalista non c’è
nessuno che sia capace di trionfare se davanti ha le CCOO.
III. Il legame di classe delle CCOO: “Viva la Costituzione e la
democrazia borghese, per questo Dio fece venire al mondo i lavoratori”
Cándido Méndez poteva terminare la sua intervista solamente
con un inno alla Costituzione spagnola del 1978, così democratica e così
sociale, così avanti ed europea, e, soprattutto, così elogiata dal suo rivale
ed antagonista, le CCOO. Nella monografia citata della Gazzetta Sindacale
(si veda la nota 2) - che puzza di incenso costituzionale più intensamente che
la cattedrale di Santiago de Compostela dell’altro incenso -, c’è poco che
fuoriesce da questo fetore così puro [7]. Ma il più
orgoglioso di tutti, per l’importante ruolo svolto dalle CCOO nell’instaurare
la democrazia liberale, è, senza alcun dubbio, l’attuale segretario generale,
José María Fidalgo, che inizia il suo articolo rallegrandosi, non solo del
fatto che il suo sindacato non possa essere incluso nella “lista dei nemici
della Società Aperta”, ma assicurando che “abbiamo contribuito a crearla”
(in Spagna, si suppone), per la disgrazia di quanti siamo convinti che non c’è
niente di più chiuso della “società aperta” di Popper (si veda Popper,
1945) o della “libera società” di Hayek (1944).
Fidalgo (2001) si riferisce orgogliosamente all’“estesa
storia del nostro vecchio continente” delle tre istituzioni che intende come
la massima aspirazione possibile dei lavoratori: il “contratto di lavoro”,
il “sistema di pensionamento della Previdenza Sociale”, e la “negoziazione
collettiva e altre istituzioni basilari dello stato sociale” [sic].
Sicuramente in testa ha, come possibile antagonista dialettico, il tipico “neoliberale”
difensore del fatidico “modello americano”. A mio giudizio, quella è una
delle debolezze dell’attuale discorso delle CCOO e dell’UGT e dei sindacati
liberali (e la sinistra) di tutto il mondo: scegliendo come avversari
intellettuali le posizioni liberali più estremiste, uno può apparire critico e
contrario a quelle con la sola ripetizione dell’evidenza del più timido senso
comune, ma in assoluto non significa che ci sia un legame con posizioni di
classe combattive né con l’intento di cambiare l’idea della società che
ancora esiste in molti affiliati. Fidalgo si limita a dare tre brevi
argomentazioni:
1. Il Diritto del Lavoro servì per “regolamentare il
conflitto fra lavoro e capitale”. Con questo sembra che ci si limiti a
rivendicare che continui ad esserci un Diritto Lavorativo, ma a nessuno sorge
il dubbio che staremmo peggio anche se non ci fosse stata neanche una
legislazione “tutelante”, dei Tribunali del Lavoro, etc, come sembra che
abbia già conseguito il famoso “sinistrofilo” Cardoso in Brasile. Ma alla
direzione intellettuale delle CCOO non passa neanche per la mente che laddove
c’è un Diritto (borghese, sebbene a qualcuno faccia vergogna ammetterlo)
per regolare la relazione tra capitale e lavoro (salariato), ci sarà anche
una “relazione capitalista”. Prima, il problema era, precisamente, la
relazione capitalista stessa, che i sindacalisti più rivoluzionari volevano
abolire. Ora le CCOO hanno perfettamente assunto il discorso liberale, che
dice: “siccome il capitalismo è eterno, e pensare il contrario è da illusi
o visionari che non tengono neanche i piedi per terra, adattiamoci addolcendo
le raffinate torture che il ‘moderno’ capitale impone al lavoro”. Alcuni
penseranno che affermazioni del genere non sono sprovviste di senso comune.
Altri pensiamo che anzi riflettano l’opportunismo più vergognoso.
2. Anche i sistemi di Sicurezza Sociale esercitano una
funzione “stabilizzatrice e di pace” nella nostra società. Gli economisti
neoclassici parlano molto di “equilibrio” del mercato, e sappiamo che lo
fanno pensando all’equilibrio o al mantenimento dello status quo. I
sindacati liberali sentono un orrore simile per qualsiasi cosa possa “destabilizzare”
la società capitalista, e perciò al centro delle loro aspirazioni c’è il
contribuire alla “stabilità sociale” (che non è altro che un’altra
forma di accettazione del più puro e crudele status quo capitalista).
E che dire della “funzione pacificatrice” che egli rivendica? Fino a
quando servirà il rifiuto implicito degli “eccessi” della guerra civile
come scusa per cercare di convincere i lavoratori spagnoli che la lotta o
guerra di classe si è già conclusa e per sempre? Già si vedeva dove sarebbe
arrivato: si inizia citando Popper con elogi e si conclude con il voler
portare Fukuyama ad una conferenza di affiliati dell’Ateneo culturale delle
CCOO, perché spieghi la fine della storia contemporanea e smettiamo, una
buona volta, di mettere in dubbio il sistema capitalista.
[1] Ns.
traduzione dell’originale spagnolo
[2] Secondo la notizia de El País, del
11-3-2002, p.72, “attualmente, il CCOO è il primo sindacato, sia nel numero
di associati (più di 900.000) sia nella rappresentatività nelle imprese. L’UGT
è la seconda organizzazione sindacale, con 825.000 affiliati e appena l’1% in
meno di rappresentanze del CCOO, con 102.625 delegati sindacali”.
[3] Una critica più estesa degli estremismi
burocratici, riformisti e proliberali che dimostra questo sindacato a tutt’oggi
si possono trovare in Guerrero (2002, 2002b), dove si prende come oggetto della
critica lo speciale monografico della Gazzetta Sindacale, la rivista
ufficiale degli studi delle CCOO, dedicato a commemorare il 25° della
costituzione della “Confederazione Sindacale” delle CCOO, l’organo
esecutivo che terminò con le note di libertà che si erano riunite per anni
nella tendenza spontanea, semicomunista e semi-anarchica, che c’era dietro le
CCOO (sui punti di contatto tra anarchismo e marxismo, sebbene senza riferimenti
espliciti al movimento operaio e sindacale, si può consultare Fernández Buey,
2002).
[4] Secondo me, l’onnipresenza liberale attuale ha molto a che fare con la
doppia tendenza verso la neosofia (la conoscenza del nuovo che, per
ipotesi, sempre appare e, di conseguenza, va sempre superandosi, ma non senza
prima compiere la sua funzione di morfina intellettuale) e la neofilia
(il gusto per tutto ciò che è nuovo, che è una buona scusa per rompere con
qualsiasi tradizione intellettuale scomoda senza che si veda troppo).
[5] Comunque, la parte della popolazione attiva femminile
spagnola è inferiore alla loro partecipazione nella nuova commissione
esecutiva dell’UGT, dove occupano 6 dei 13 seggi. Certamente, il risultato
del Congresso, da questo punto di vista, fu lo stesso che aveva anticipato la
stampa prima della sua celebrazione.
[6] Tenendo in
conto che, “in 4 anni” le adesioni su quella giornata pattuita hanno
interessato un numero aggiuntivo di 230.000 lavoratori, possiamo essere
ottimisti con Méndez: avremo bisogno di soli 100 anni per arrivare ad
impiantare la giornata di 35 ore per i 23 milioni di lavoratori che si presume
raggiunga il nostro paese nell’anno 2102!!! Quindi, nel XXII secolo saremo
in condizione di raggiungere “la co-educazione” che Méndez reclama e che
è “fondamentale recuperare”; ossia, la “partecipazione della famiglia
all’educazione dei figli”.
[7] Devo chiarire al lettore italiano che non
so se nel vostro paese succede qualcosa di simile, ma in Spagna se uno attacca
la Costituzione del 1978 davanti ad un sindacalista, o uno di sinistra in
genere, subito viene etichettato come franchista: non è buffo?