1. In questi giorni a Laeken si è prodotto un fatto
nuovo. Nonostante le incertezze, le difficoltà, gli scontri per l’attribuzione
delle sedi delle diverse Agenzie, la mancata soluzione di alcuni problemi di
fondo in ordine la funzionamento della macchina istituzionale, il percorso di
integrazione europea registra un passaggio che può essere decisivo. A circa un
anno dall’adozione a Nizza della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea - rispetto alla quale si è registrato un dibattito significativo, a
partire dai limiti che la caratterizzavano sia sul piano del percorso che con
riferimento ai contenuti - si avvia, in forme sicuramente anomale, un percorso
che potrebbe essere definito “costituente”.
Certo è che tutto il processo di costruzione dell’Unione
Europea è stato ed è caratterizzato da particolari anomalie, a partire dal
lancio di una moneta unica (che si avvia concretamente a partire dal 2002) -
peraltro limitato a solo undici dei quindici paesi che costituiscono oggi l’Unione
europea - al ruolo di un Parlamento che, sia pure eletto a suffragio universale,
di fatto riveste poco più che un ruolo consultivo, al disordinato sovrapporsi
delle competenze tra Consiglio (ovvero l’organismo di raccordo tra i governi
nazionali dei Paesi che fanno parte dell’Unione), Commissione e Parlamento.
Basti pensare al fatto che nell’organismo - presieduto dall’ex Presidente
francese Giscard D’Estaing - che a partire dal marzo 2002 e per un anno dovrà
elaborare un testo da sottoporre, dopo un periodo di riflessione, agli organi
competenti per l’approvazione fanno parte - tra gli altri - anche alcuni
componenti nominati dai Parlamenti nazionali.
Ma è altresì vero che sia pure con tutti i limiti (che
abbiamo segnalato nel precedente numero della rivista) il processo di
costruzione dell’Europa va avanti inesorabilmente, la normativa elaborata in
sede europea si impone nei nostri ordinamenti, le istituzioni sovranazionali (a
partire dalla Banca Centrale Europea) si moltiplicano ed ampliano il proprio
ruolo, lo spazio lasciato alle decisioni dei singoli Stati che compongono l’Unione
specie sul piano della definizione delle politiche economiche --si riduce ogni
giorno di più. E tutto questo avviene nel mentre i confini di questa nuova
entità (l’Unione Europea) si allargano: sono ormai quattordici (al vecchio
elenco si è aggiunta la Croazia) i paesi - prevalentemente dell’Est europeo -
candidati a far parte dell’Unione.
Il processo è di difficile preventiva definizione eppure
avanza, entra nella Costituzione del nostro paese (a seguito della riforma del
titolo V della parte seconda approvato con il referendum costituzionale dell’ottobre
2001), si afferma sia pure senza la fissazione di una cornice certa e la
delineazione di un ordinamento dai contorni sicuri.
Il momento è particolarmente importante, probabilmente
decisivo rispetto a ciò che dell’Europa sarà (e quindi anche del futuro dei
nostri ordinamenti).
Se si avvia - sia pure senza l’elezione di un’Assemblea
Costituente o senza l’attribuzione al Parlamento europeo di poteri costituenti
un processo di costruzione costituzionale, che consiste nella fissazione di
principi sovraordinati rispetto alla legislazione ordinaria e nell’individuazione
dell’assetto istituzionale stabile dell’Europa unita, le forze sociali e
sindacali non possono collocarsi nella posizione di spettatori passivi, pronti
ad applaudire o a fischiare, ma devono acquisire un proprio protagonismo ed una
propria capacità di elaborazione, di intervento, di raccordo con altre forze
che si collocano sullo stesso versante.
Cosa dirà la nuova Carta in ordine ai diritti del lavoro, al
diritto di sciopero, al diritto alle prestazioni sociali, all’assistenza, allo
status dei lavoratori extraeuropei, al riconoscimento dei diritti civili? E
quale sarà il ruolo del Parlamento, chi stabilirà regole e forme di tutela dei
diritti, chi controllerà sulla loro applicazione, come si articolerà il
governo dei processi economici e sociali? La nuova Carta, forse la nuova
costituzione europea, conterrà cioè l’indicazione dei diritti classici di
natura liberale (il loro rispetto o il loro sacrificio), la dimensione dei
diritti di natura sociale, il funzionamento concreto della vita pubblica a
livello continentale. Lo stesso ruolo del sindacato sarà coinvolto da questo
processo, che non avviene in un clima di forte mobilitazione ed avanzamento
delle battaglie democratiche e sociali ma in un quadro storico contrassegnato da
una filosofia liberistica (e bellicista) sottoposta a critiche di massa ma
certamente forte e per nulla disposta a lasciarsi scavalcare da istanze di
trasformazione culturale e sociale. Una filosofia, un pensiero, una cultura che
hanno segnato tutto il processo di integrazione europea, le direttive della
Commissione europea, il lavoro degli organismi comunitari, spesso scontrandosi
con le “resistenze” delle società europee: ma è un processo che ci
coinvolge e che forse può fornire una grossa occasione di partecipazione
popolare, dare una spinta all’avvicinamento delle forze sociali, democratiche
e sindacali presenti nei diversi paesi, dare un orizzonte politico di ampio
respiro alle istanze antiliberiste che agitano la società, dopo anni di torpore
da pensiero unico.
Questa rivista può offrire uno strumento per la costruzione
di una sorta di “Consulta europea delle forze sociali e sindacali
antiliberiste” per un puntare ad una Costituzione europea avanzata e permeata
da istanze sociali e dalla necessità di un rilancio del ruolo della sfera
pubblica, non solo per la tutela dei diritti ma anche per la progettazione di
uno sviluppo che non sia soltanto la regolazione delle esigenze imprenditoriali
e la ricerca del profitto ad ogni costo.
2. Un esempio di cosa significhi il rapporto tra
produzione normativa a livello europeo e legislazione del nostro paese è
ricavabile dalla vicenda delle disposizioni dettate per contrastare il
cosiddetto “terrorismo internazionale”. Essa si colloca nella vicenda della
costruzione dello “spazio giuridico europea”, vicenda controversa (si pensi
alle polemiche relative alla questione del “mandato di cattura europeo”) in
quanto organismi non legislativi - senza la preventiva definizione di un quadro
costituzionale che ne legittimi l’azione - di fatto determinano il modo di
agire e le scelte dei Parlamenti dei diversi paesi in materia penale, cioè in
quella materia in cui solo la legge (cioè il prodotto del potere legislativo,
del Parlamento) può intervenire per disciplinare la possibilità di incidere
sui casi e i modi che possono condurre alla limitazione della libertà personale
dei singoli cittadini.
Orbene la proposta di decisione quadro del Consiglio dell’Unione
Europea sulla lotta contro il terrorismo, nell’indicare che “è
indispensabile che gli Stati membri dell’Unione Europea dispongano di una
legislazione penale efficace per lottare contro il terrorismo e che siano prese
misure per rafforzare la cooperazione internazionale contro il terrorismo”,
detta all’art.3- affinché sia adottata dagli stati membri - una definizione
di “terrorismo” così ampia ed indefinita da poter essere la base per
una potenziale criminalizzazione di forme di dissenso, di ribellione sociale, di
disordini di piazza.
Val la pena richiamare tale disposizione - contro cui si sono
alzate pochissime voci e che rischia di essere assunta nel nostro ordinamento
penale, e nell’ordinamento degli altri paesi europei, in un clima distratto e
disinteressato (salvo piangerne gli effetti in un momento successivo): “1.
Ciascuno stato membro adotta le misure necessarie per garantire che i seguenti
reati, definiti in base ai diritti nazionali, commessi da singoli individui o da
gruppi di persone contro uno o più paesi, contro le loro istituzioni o
popolazioni, a scopo intimidatorio e al fine di sovvertire o distruggere le
strutture politiche, economiche o sociali del paese, siano punibili come reati
terroristici;
a) l’omicidio;
b) le lesioni personali;
c) il sequestro di persona e la cattura di ostaggi;
d) le estorsioni;
e) i furti e le rapine;
f) l’occupazione abusiva o il danneggiamento di
infrastrutture statali e pubbliche, mezzi di trasporto, luoghi pubblici e beni;
g) la fabbricazione, il possesso, l’acquisto, il trasporto
o la fornitura di armi e esplosivi;
h) la diffusione di sostanze contaminanti o atte a provocare
incendi, inondazioni o esplosioni che arrechi danno alle persone, ai beni, agli
animali e all’ambiente;
i) l’intralcio o l’interruzione della fornitura di acqua,
energia o altre risorse fondamentali;
j) gli attentati mediante manomissione dei sistemi di
informazione;
k) la minaccia di commettere uno dei reati di cui sopra;
l) la direzione di un’organizzazione terroristica;
m) la promozione, il sostegno e la partecipazione ad un’organizzazione
terroristica.
2. Ai fini della presente decisione quadro, per
organizzazione terroristica si intende un’organizzazione strutturata di più
di due persone, stabilita da tempo, che agisce in modo concertato allo scopo di
commettere i reati terroristici di cui al paragrafo 1, lettere da a) a k)”.
Ed ancora, l’art.4 della decisione quadro recita: “Gli
Stati prendono le misure opportune per garantire che l’istigazione, l’aiuto,
il favoreggiamento e il tentativo di commettere reati terroristici siano
punibili”.
Si tratta evidentemente del tentativo di inserimento nel
quadro legislativo penale dei diversi paesi che compongono l’Unione di
principi dalla possibile indefinita portata applicativa, avviato fuori da ogni
discussione, da organismi tecnici e non controllati, che ipotecano le scelte dei
parlamenti nazionali (secondo il principio per cui “o le misure vengono
adottate o ci si colloca fuori dal quadro europeo”).
3. Veniamo ora - continuando il ragionamento sull’influenza
che le decisioni assunte in sede comunitaria determinano sull’individuazione e
la definizione delle politiche nazionali - alle ultime evoluzioni normative,
attuate o ancora soltanto programmate, in tema di politiche del lavoro.
Il primo caso è quello della disciplina del lavoro a tempo
determinato, il secondo quello dell’insieme delle proposte di leggi delega
formulate dal Governo in materia di mercato del lavoro, e collegate alla legge
finanziaria per l’anno 2002.
A seguito della legge delega del 29 febbraio 2000 - approvata
cioè dalla passata legislatura - è stato approvato dal Consiglio dei Ministri
il decreto legislativo n.368/2001, recante “attuazione della direttiva
1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso
dall’UNICE, dal CEEP e dal CES”. Attraverso le disposizioni contenute
nel decreto legislativo del settembre 2001 si è modificata la parte residua -
dopo due decenni di bombardamenti, cominciati nel 1984 sotto il Governo Craxi e
la cui ultima fase si è registrata nel 1997 con l’approvazione del cosiddetto
pacchetto Treu - di una legge importante, e ricca di garanzie per i lavoratori,
quale la legge n.230 del 1962.
Si discute oggi sulla effettiva corrispondenza tra le
disposizioni contenute nel decreto legislativo e le indicazioni presenti nella
direttiva della Commissione Europea ed alcuni soggetti sono in procinto di adire
la via della giustizia comunitaria, lamentando un infedele trasposizione che si
traduce nella rottura di ogni regola. Ciò che a noi preme sottolineare peraltro
ai fini che qui interessano, e cioè con riguardo alla relazione esistente tra
produzione normativa in sede europea e legislazione nazionale - è che la
direttiva sul lavoro a termine trova la sua genesi nelle conclusioni del
consiglio europeo di Essen del 1995, e che in tali conclusioni si era
sottolineata la necessità di provvedimenti per incrementare l’intensità
occupazionale della crescita, mediante un’organizzazione più flessibile del
lavoro (ovvero la solita ricetta che negli anni non ha prodotto maggiore
occupazione ma solo il crescere di rapporti di lavoro precario, e la
possibilità per le imprese di avere mani libere e maggiori profitti). La
disciplina amplia, facendole diventare quasi illimitate le possibilità di
ricorso a forme di lavoro a tempo determinato, prima - nel 1962 - specificamente
indicate dalla legge quali eccezioni alla forma del rapporto di lavoro
subordinato a tempo indeterminato e poi - dal 1987 (si tratta dell’art.23
della legge 1987) - anche inserite nei “contratti collettivi di lavoro
stipulati con i sindacati nazionali o locali aderenti alle confederazioni
maggiormente rappresentative sul piano nazionale”.
Se prendiamo in esame il “libro bianco sul mercato del
lavoro in Italia”, pubblicato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche
sociali nell’ottobre del 2001 - da cui prende le mosse il disegno di legge
delega collegato alla finanziaria -, ed in particolare la parte seconda
(dedicata alle proposte) leggiamo che “primario obiettivo del Governo è la
promozione di azioni funzionali al rapido innalzamento del tasso di occupazione,
in modo tale da conseguire gli obiettivi - quantitativi ma anche qualitativi -
indicati dal Consiglio europeo di Lisbona del 2000 e da quello di Stoccolma di
quest’anno”. Ed ancora si rammenta (pag.26) “che le politiche del
lavoro devono essere condotte coerentemente con le Strategia Europea sull’Occupazione,
prevista dal Trattato di Amsterdam e varata dal Consiglio Europeo straordinario
sull’occupazione di Lussemburgo (novembre 1997). [...] I diversi
soggetti istituzionali territoriali (Regioni ed enti locali) e le stesse parti
sociali devono contribuire in modo più efficace alla realizzazione delle “linee
guida” sull’occupazione che ogni anno vengono concordate in sede comunitaria
e quindi diventano vincolanti”.
In questa sede non si intende ragionare (anche se trattasi di
questione essenziale) del rapporto esistente tra le proposte della Commissione
Europea (inserite nel libro bianco del 2001 European Governance: A White
Paper) e le previsioni legislative, ovvero sul fatto - contestato - se il
contenuto delle misure previste nel libro bianco del Ministro Maroni siano o
meno conformi alle determinazioni assunte in sede europea, ma si vuole porre l’accento
sul punto che ancora una volta si verifica un intrusione di decisioni assunte in
un quadro sovraordinato, al di fuori della previsione di modelli istituzionali
in ordine all’approvazione di decisioni di enorme portata, che incidono sulle
scelte di politica del lavoro e sulle strategie occupazionali.
L’argomento non ci esime tuttavia da uno sguardo di massima
sul complesso delle deleghe richieste alle camere dal governo Berlusconi.
Accanto ad alcuni interventi definiti “di
semplificazione e riordino” per il sistema di collocamento pubblico (si
veda la comunicazione n.23 del Consiglio dei Ministri del 15 novembre 2001) si
prevede che “gli operatori privati potranno agire nell’incontro tra
domanda e offerta sulla base di un regime autorizzatorio che supererà l’attuale
oggetto sociale esclusivo delle società di lavoro temporaneo e delle agenzie di
collocamento privato”.
Tra l’altro sul punto si specifica che “poiché la
materia del mercato del lavoro, con particolare riferimento ai servizi pubblici
per l’impiego, è di competenza delle Regioni (che potranno legiferare in modo
concorrente sulla base della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.3) la nuova
normativa in materia si pone come legislazione cornice che definirà gli ambiti
entro i quali potrà esercitarsi la suddetta potestà legislativa concorrente”.
Uno dei punti centrali è la previsione di superamento della
legge 23 ottobre 1960 n.1369, che vietava l’interposizione nelle prestazioni
di lavoro, “consentendo a soggetti privatistici, preventivamente
autorizzati, di somministrare manodopera anche a tempo determinato, utilizzando
la positiva esperienza del lavoro interinale”. Siamo a ciò che fino a
poco tempo fa appariva impensabile: si può restare lavoratori in affitto per
tutta la vita.
Accanto alle misure sul piano dell’occupabilità, termine
mutuato dal lessico comunitario (delega al governo per la revisione della
disciplina dei servizi pubblici e privati per l’impiego, nonché in materia di
intermediazione e interposizione privata nella somministrazione al lavoro -
art.1, delega al governo in materia di incentivi all’occupazione - art.2,
delega al governo in tema di ammortizzatori sociali - art.3, delega al governo
in materia di agenzie tecniche strumentali per l’occupazione - art.4, si
prevede una serie di interventi “volti a realizzare una razionalizzazione
delle tipologie contrattuali esistenti, nonché a introdurre contratti di lavoro
innovativi, al fine di accrescere la flessibilità (sia pure regolata dalla
contrattazione collettiva) del mercato del lavoro e assicurare un rapido
adattamento tra esigenze delle imprese e bisogni dei lavoratori”. In
particolare si prevede il “riordino dei contratti a contenuto formativo nel
rispetto delle competenze delle Regioni e della nuova legge costituzionale”,
l’estensione delle direttive comunitarie sul lavoro notturno ai settori del
commercio, del turismo, dei pubblici esercizi, la “riforma della disciplina
del lavoro a tempo parziale con agevolazione del ricorso al lavoro supplementare
ed alle clausole flessibili ed elastiche, disponendo altresì l’integrale
estensione di questa tipologia al settore agricolo”, una “disciplina
delle tipologie di lavoro (a chiamata, temporaneo, coordinato e continuativo,
occasionale, accessorio e a prestazioni ripartite) per modernizzare l’attuale
normativa lacunosa e obsoleta”. Su tale punto si afferma che “tutte
queste forme sono ampiamente diffuse in Europa e consentiranno di regolarizzare
il mercato del lavoro, realizzando nel contempo un allargamento della base
occupazionale”.
Ed ancora si prevede una pericolosissima “procedura per
la certificazione dei rapporti di lavoro, al fine di ridurre il rischio di
contenzioso nella qualificazione giuridica dei rapporti stessi, utilizzando enti
bilaterali delle parti sociali o sedi amministrative per supportare le parti
individuali del rapporto di lavoro nella ricerca di forme contrattuali più
confacenti alle reciproche aspettative” - e cioè la possibilità di
definire privatamente e contrattualmente, la parte forte (il datore di lavoro) e
la parte debole (la persona disoccupata alla ricerca di un posto di lavoro
comunque sia), la natura del contratto (per cui un contratto in concreto
connotato dalla subordinazione può essere ad esempio definito come di lavoro
autonomo), ipotecando fortemente le possibilità di successivo intervento
giudiziale.
E sempre sul piano di ridurre i rischi di vertenze avanti ai
tribunali ci si muove sul piano dell’”incentivazione dell’arbitrato
volontario nella definizione delle controversie individuali di lavoro,
ammettendo che il lodo arbitrale, pronunciato secondo equità, disponga in
materia di licenziamento la reintegrazione o il licenziamento del lavoratore”.
Infine - last but not least - la questione più
controversa, che nella comunicazione del Consiglio dei Ministri n.23/2001 viene
così descritta: “Sperimentazione di un regime provvisorio, in deroga all’art.18
dello Statuto dei Lavoratori, per la durata di quattro anni, disponendo il
risarcimento - in luogo del reintegro - del lavoratore ingiustamente licenziato.
Tale sperimentazione potrà avvenire per favorire processi di riemersione del
lavoro non dichiarato, per incentivare trasformazioni di assunzioni a termine in
impiego stabile e per incoraggiare la crescita occupazionale delle piccole
imprese, che fino a 15 dipendenti hanno già questo regime”. Si tratta, e
non soltanto sul piano simbolico, di un attacco profondissimo alle conquiste del
mondo del lavoro. Si pensi alla possibilità, oggi esistente, di ricorrere senza
più alcun limite (grazie al decreto legislativo del settembre 2001, che già
abbiamo richiamato) a contratti di lavoro a tempo determinato: dal momento della
trasformazione anche da parte di una grossa azienda non avremmo più un
lavoratore garantito in caso di licenziamento dalla tutela cosiddetta reale
(ovvero con la possibilità di essere reintegrato dal giudice nel posto di
lavoro in caso di licenziamento senza giusta causa) ma questo dipendente potrà
soltanto reclamare - nell’ipotesi di illegittima risoluzione del rapporto di
lavoro - un limitato risarcimento. E quindi è prevedibile, nell’ipotesi di
approvazione della proposta di delega, il fatto che non esisteranno più
assunzioni a tempo indeterminato (quantomeno all’inizio del rapproto di lavoro
tra una data azienda ed un determinato lavoratore): l’azienda assumerà sempre
a tempo determinato, se del caso trasformerà il rapporto a tempo indeterminato,
ma avrà alle sue dipendenze un soggetto perennemente sotto il ricatto di una
risoluzione del rapporto cui mai potrà conseguire una reintegrazione nel posto
di lavoro, ovvero un soggetto sicuramente mai sindacalizzato, costretto a
digerire ogni decisione del datore di lavoro, ogni sopruso, ogni irregolarità,
ogni violazione dei suoi diritti.
La tutela del contraente più debole che ha sempre
caratterizzato il diritto del lavoro, quale ramo peculiare del diritto civile,
è posta sotto un attacco senza precedente. Il quadro è quello descritto, ma
più di ogni altro commento può il richiamo al testo delle proposte
governative.
Per il mondo sindacale si apre una nuova durissima fase.