“Impero” e “lavoro immateriale”. Su alcune recenti derive teoriche del movimento di classe
Alberto Burgio
|
Stampa |
1. Attualità di Marx? [1]
E’ diffusa nell’attuale dibattito teorico-politico la
propensione a ricavare dall’osservazione delle trasformazioni in atto nei
sistemi di produzione e riproduzione la conseguenza della marginalità del
rapporto capitale-lavoro, della fine della centralità della classe operaia ai
fini del conflitto anti-sistemico, dunque - lo si espliciti o meno - della “obsolescenza”
della critica marxiana del capitalismo. Si pensi a talune analisi del cosiddetto
lavoro autonomo “di seconda generazione” (frainteso nel senso di una “ri-artigianalizzazione”
del lavoro, emancipato dalla dimensione salariata); alle apologie del “terzo
settore” (presentato come àmbito sottratto alla relazione mercantile); alla
discussione sulla disoccupazione strutturale (nella misura in cui si manca di
riconoscervi una forma di impiego delle forze produttive funzionale al
contenimento del “costo” del lavoro vivo, e in questo senso una figura del
lavoro sociale). [2] Al medesimo esito approda anche la linea di ricerca che fa capo ad
Antonio Negri e alla cerchia dei suoi allievi, [3] ma in questo caso occorre segnalare una peculiarità.
Se altri autori arrivano a dichiarare Marx più o meno
inservibile perché considerano il lavoro “finito” o comunque talmente
cambiato (“autonomo” e quindi non più salariato) da non poter essere
correttamente indagato sulla scorta del modello analitico marxiano; l’ipotesi
elaborata da Negri perviene allo stesso risultato (anche per Negri si tratta di
andare decisamente “oltre Marx”) muovendo da premesse analitiche opposte,
cioè dall’idea che lo spazio occupato dal lavoro (da un lavoro per di più
morfologicamente identico alla stessa prassi vitale, perché sempre più
incentrato su competenze linguistiche e su dinamiche relazionali) si sia a tal
punto dilatato da coincidere con la vita stessa degli individui, sicché
appare ormai impossibile distinguere tra attività produttive, improduttive e
riproduttive; tra occupazione e disoccupazione; tra capitale costante e capitale
variabile e, a maggior ragione, tra mezzi di produzione e forze produttive. Ne
discendono, analiticamente, due conseguenze, entrambe rilevanti.
Negri fa propri e radicalizza spunti elaborati dall’operaismo
italiano e dal pensiero post-marxista d’Oltralpe (Debord, Guattari, Deleuze).
Su questa base teorica generale si definisce, nei più recenti scritti di Negri,
la categoria del “lavoro immateriale”, che può essere considerata l’esito
coerente ed estremo di una riflessione più che venticinquennale, governata da
una intuizione indubbiamente significativa. L’idea che sta alla base dell’attuale
percorso critico di Negri è che nel suo sviluppo postfordista (coincidente la
crisi della grande fabbrica e la scomparsa dell’operaio massa), il capitale
tenda a sussumere sotto il proprio controllo diretto l’intero àmbito
sociale e la prassi vitale nel suo complesso. La fabbrica si
socializza, nel senso che, per il fatto stesso di vivere e di riprodursi, l’intera
collettività diviene terreno di attività produttive immediatamente soggette
al comando capitalistico. Il capitale diviene compiutamente “capitale
sociale” nella misura in cui si appropria completamente (“sussume realmente”)
la società, la quale diviene nel suo insieme forza produttiva alle dirette
dipendenze del capitale. [4] L’operaio massa cede il passo all’operaio
sociale, il quale a sua volta, dacché il lavoro non è più distinguibile dalla
vita stessa, diviene “moltitudine bio-politica”.
Al di là delle esasperazioni che tra breve cercherò di
porre in evidenza, non si può negare che questa interpretazione (coerente con l’intuizione
marxiana della tendenza specifica del capitalismo alla “diretta socializzazione”
del lavoro) [5] colga anche aspetti reali dei fenomeni verificatisi nel corso della
ristrutturazione capitalistica seguita alla crisi sociale, economica e politica
verificatasi a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, allorché il capitale
risponde alla radicalizzazione del conflitto operaio attraverso una generale
trasformazione dei rapporti tra fabbrica e territorio e tra classe operaia e
forza-lavoro sociale, volta a ostacolare la costituzione di soggettività
antagonistiche.
È un fatto che le risposte del capitale (investimenti labour
saving ed esternalizzazione) abbiano portato l’impresa da un lato a
contrarsi, dall’altro a intrecciare un più stretto rapporto con il territorio
nel quale la catena della valorizzazione è disseminata. I processi produttivi
si destrutturano, tendono ad assumere assetti informali (“flessibili”) per
quanto riguarda lo statuto giuridico dei lavoratori e la determinazione delle
figure professionali. L’hinterland metropolitano e le reti intercittadine che
hanno trasformato intere regioni in megalopoli, divengono retroterra della
grande impresa (“distretti” produttivi), dando, se non altro, l’impressione
che ad essere incaricata della gestione di segmenti del processo di produzione
immediato sia ormai la società stessa, nel suo insieme.
La seconda conseguenza della interpretazione data da Negri
alle nuove caratteristiche della riproduzione capitalistica concerne l’agenda
politica. L’ipotesi della sostanziale indistinzione tra attività lavorative e
attività vitali induce a porre al centro dell’interesse il tema della
cittadinanza quale referente funzionale della rivendicazione critica. L’idea
è che ciascun individuo abbia titolo alla retribuzione non perché erogatore di
forza-lavoro in una forma e in un contesto determinati, bensì in quanto membro
di una comunità civile, sussunta come tale in toto nel processo di
valorizzazione. Per usare le categorie di Marx oltre Marx, la “separazione”
tra tempo e quantità di lavoro vivo erogato e potenza degli agenti messi in
moto durante il tempo di lavoro si è ormai spostata “dall’interno del
processo” di produzione immediato “all’esterno”, coinvolgendo “una
soggettività indipendente” [6] dal processo
stesso (e, a maggior ragione, dal rapporto salariale) che ha quindi titolo a
vedersi retribuita la propria attività produttiva di ricchezza. È questa la
base teorica della richiesta di un “reddito di cittadinanza”, la cui
plausibilità andrebbe considerata in relazione a queste premesse analitiche e
non in base a considerazioni di opportunità politica contingente. Al di là
della approssimativa convergenza con altre proposte consimili (come per es.
quella di un “salario sociale minimo”, da corrispondersi alle fasce sociali
più povere), l’idea di un “reddito di cittadinanza” muove da
premesse radicalmente differenti da quelle proprie di qualsiasi tradizionale
misura di welfare.
Come si diceva, fonte del diritto al reddito non è ciò che
si fa (o non si fa), né ciò che si ha (o non si ha), bensì il fatto stesso di
essere, poiché essere (vivere nell’ambito di una collettività) implica di
per sé produrre valore. L’idea è che la differenza apparentemente ovvia tra
“lavoro sommerso” e “vita non retribuita” non trovi più alcun riscontro
nei reali meccanismi di riproduzione, e si riduca quindi a un “pregiudizio
lavorista”. Ogni “fare” individuale (compresa l’attività del bambino
intento al gioco o del telespettatore che assiste a uno spettacolo) è lavoro,
benché “lavoro immateriale”, cioè caratterizzato da “produzioni
intangibili”, qualitativamente identiche ai flussi affettivi generati dall’interazione
e dal contatto umano. Dopodiché il cerchio della sussunzione totale della vita
al capitale e della loro identità reciproca si chiude.
Se ogni forma di vita, di esperienza e di cooperazione “è
completamente immanente all’attività lavorativa” e produttiva, quest’ultima,
specularmente, prende la forma “dell’interazione cooperativa tramite reti
linguistiche, comunicazionali e affettive”. [7] È, almeno in apparenza, un
sillogismo impeccabile, tramite il quale Negri mette fuori gioco la teoria
marxiana del valore e costruisce, ad un tempo, la teoria - come egli stesso
scrive - di un “comunismo spontaneo ed elementare”. [8]
2. Il paradigma imperiale
Fin qui, per così dire, la metacritica dell’economia
politica elaborata da Negri negli anni Settanta e Ottanta. Ad essa si è
aggiunto in tempi recenti un nuovo, cospicuo capitolo (il grosso volume, Empire,
scritto a quattro mani con Michael Hardt), rapidamente assunto dalla sinistra
“critica” tra i principali punti di riferimento per l’analisi della
situazione politica internazionale sullo sfondo della cosiddetta “globalizzazione”.
Vediamo di delineare in poche righe la rappresentazione della realtà
prospettata in queste pagine, [9] che, benché non ancora tradotte in italiano, parrebbero
essere già divenute senso comune.
Che cos’è l’“Impero”, nella lingua di Negri e Hardt?
È la “nuova formazione storica” sorta dal tramonto della sovranità moderna
e dal declino della struttura politica (lo Stato nazionale) in cui la sovranità
moderna si è incarnata. È il soggetto politico nel quale convergono “una
nuova logica e una nuova struttura del potere”, idonee a governare i circuiti
mondiali della produzione e il mercato mondiale. In una battuta, l’Impero è
“il potere sovrano che governa il mondo”. [10] Nato
sulle ceneri degli Stati nazionali, esso rappresenta l’approdo e il
superamento dell’imperialismo, dimodoché - osservano Hardt e Negri - alla
triade Stato nazionale-imperialismo-modernità fa oggi riscontro il binomio
Impero-post-modernità.
Con questa definizione, Hardt e Negri parrebbero discostarsi
dalla vulgata economicistica che raffigura l’attuale fase dei processi di
mondializzazione come una dinamica di sostituzione del capitale transnazionale
all’autorità politica degli Stati, dunque come la costituzione di un dominio
immediatamente economico sul mondo. La loro prospettiva sembrerebbe
riservare un ruolo decisivo al comando politico e porre l’accento,
equilibratamente, sul rapporto tra le logiche materiali della riproduzione e le
dinamiche di potere e di regolazione inerenti al governo dei corpi sociali. In
realtà, questa importante intuizione va perduta, per effetto della prepotente
ispirazione riduzionistica che percorre anche l’analisi dei processi di
riproduzione formulata da Negri.
Come lo sfruttamento, anche il potere dell’autorità
imperiale è dappertutto e in nessun luogo. E come si darebbe totale identità
tra vita e lavoro, così anche la politica coinciderebbe ormai totalmente con l’economia.
La politica come “sfera di mediazione tra forze sociali in conflitto”,
scrivono Hardt e Negri, non ha più ragion d’essere; [11] l’Impero
rappresenta un “mutamento radicale” che finalmente rende possibile “il
progetto capitalista di riunire potere economico e potere politico”, di “realizzare
un ordine propriamente capitalista”, nel quale “lo Stato e il capitale
coincidono effettivamente”. [12] La realtà imperiale è
monistica, abolisce le dualità che innescavano il conflitto moderno. Il potere
trionfa in virtù della sua immediata totalità, raggiungendo i più profondi
recessi del corpo sociale: l’Impero sorge da “una trasformazione radicale
che rivela la relazione immediata tra il potere e le soggettività”, e che
consente al nuovo sovrano “di dominare gli spazi infiniti del pianeta, di
penetrare le profondità del mondo biopolitico e di affrontare una temporalità
imprevedibile”. [13]
Deriva da qui uno dei tratti caratteristici del “paradigma
imperiale”, su cui più si è concentrata l’attenzione, complici i recenti
sviluppi della situazione internazionale. L’idea che il mondo sia ormai
unificato sotto un’unica autorità economico-sociale (“il concetto di Impero
è caratterizzato in modo fondamentale dall’assenza di frontiere”) [14] sorregge la tesi della fine della guerra e della sua riduzione a
conflittualità inter-regionale, di volta in volta sedata, dal sovrano
imperiale, per mezzo di operazioni di polizia internazionale. Empire
è stato scritto, ovviamente, prima dell’attacco anglo-americano all’Afghanistan,
ma riflette sulle vicende balcaniche e sulla Guerra del Golfo che ha inaugurato
l’epoca del “nuovo ordine mondiale”. Secondo Hardt e Negri, la guerra
contro l’Iraq “ha rappresentato la prima occasione in cui esercitare appieno
un potere di polizia internazionale”, [15] il che significa che
sbaglierebbe, a loro giudizio, chi riconducesse la Guerra del Golfo a un quadro
strategico definito da interessi geopolitici contrapposti. “In realtà - essi
puntualizzano, a scanso di equivoci - la guerra è stata una operazione di
repressione ben poco interessante dal punto di vista degli obiettivi strategici,
degli interessi regionali e delle ideologie politiche implicate”. [16]
L’unica posta in gioco era, per dir così, simbolica: “l’importanza
della guerra del Golfo deriva piuttosto dal fatto che presentò gli Stati Uniti
come la sola potenza capace di amministrare la giustizia internazionale, non
in funzione di proprie ragioni nazionali, bensì nel nome del diritto mondiale”.
[17]
[1] I primi quattro paragrafi riprendono senza sostanziali
variazioni una parte della relazione presentata al convegno sul tema Marx nel
terzo millennio svoltosi a Milano il 26 e 27 ottobre 2001. Il testo integrale è
in corso di pubblicazione su “marxismo oggi”.
[2] Cfr. al riguardo Giorgio Lunghini, L’età dello spreco.
Disoccupazione e bisogni sociali, Bollati Boringhieri, Torino 1995; Luigi
Cavallaro, La caduta tendenziale della “nuova economia”, manifestolibri,
Roma 2001; sulle nuove forme di lavoro “autonomo” cfr. Sergio Bologna -
Andrea Fumagalli (a cura di), Il lavoro autonomo di seconda generazione. Scenari
del postfordismo in Italia, Feltrinelli, Milano 1997; mi soffermo su questi temi
anche in un precedente intervento su “Proteo” (Una discussione
indispensabile, “Proteo”, v [2001], 2) e nel mio Modernità del conflitto.
Saggio sulla critica marxiana del socialismo, DeriveApprodi, Roma 1999, Parte
seconda.
[3] Il riferimento concerne - oltre
a Michael Hardt, insieme al quale Negri ha scritto i volumi Labor of Dionysus. A
Critique of the State-Form (1994; trad. it., manifestolibri, Roma 1995) e Empire
(2000) - Christian Marazzi e Maurizio Lazzarato, autori l’uno del notevole: Il
posto dei calzini. La svolta linguistica dell’economia e i suoi effetti nella
politica (Casagrande, Bellinzona 1994), l’altro dei volumi: Videofilosofia. La
percezione del tempo nel postfordismo (manifestolibri, Roma 1996) e: Lavoro
immateriale. Forme di vita e produzione di soggettività (ombre corte, Verona
1997).
[4] Marx oltre Marx. Quaderno di lavoro su Grundrisse,
Feltrinelli, Milano 1979, pp. 150-2.
[5] Resultate des unmittelbaren Produktionsprozesses (Sechstes Kapitel
des ersten Bandes des “Kapitals”. Entwurf 1863-1864), Dietz, Berlin 1988, p.
125.
[6] Marx oltre Marx, cit., p. 152.
[7] Michael Hardt - Antonio Negri,
Empire, trad. franc., Exils, Paris 2000, p. 359.
[8] Ibidem.
[9] Per un’analisi più ampia rinvio alla
recensione apparsa a mia firma sul numero di marzo del 2001 della “rivista del
manifesto”; si veda ora anche il fascicolo 5/2001 di “MicroMega” (“Almanacco
di filosofia”), con un dialogo a tre voci tra Negri, Roberto Esposito e
Salvatore Veca.
[10] Empire, cit., p. 15.
[11] Ivi, p. 375.
[12] Ivi, pp. 31-2.
[13] Ivi, p. 52.
[14] Ivi, p.
19.
[15] Ivi, p. 227.
[16] Ibidem.
[17] Ibidem.