1. Il libro No/Made Italy, insieme con Eurobang 1
e, prima ancora, la ricerca sul Profit State, è - a mio modo di vedere -
un passo avanti. E lo è doppiamente. Per la premessa implicita, che sostiene la
ricerca e l’attività dei suoi Autori, e del CESTES; e per il carattere
analitico dell’indagine che offre. Infatti non si tratta di "cercare un
colpevole" dello stato presente del dominio di classe in genere, e poi del
centro imperiale sulla vita degli uomini a livello ormai globale, ma -
innanzitutto - di capire le condizioni, modalità, tendenze interne di
quel dominio (come è stato detto anche qui). E non si tratta di "cercare
il colpevole", aggiungerei, neppure dalla parte degli oppressi, delle loro
organizzazioni storiche, che hanno subìto, come si sa, una sconfitta tanto
grande, da poter esser solo paragonata, forse, a quella del 1914 - quando il
movimento democratico e operaio nei Paesi più avanzati e di vecchia civiltà,
che obiettivamente metteva in forse la barbarie imperialistica all’esterno, fu
deviato e distorto a quel reciproco e inaudito massacro, che cementò la
barbarie imperialistica all’interno, proseguita nei fascismi e nelle guerre
successive. La sconfitta del 1989-91 è, in una diversa configurazione politica
e dei rapporti tra le nazioni, paragonabile a quella del ’14. Per cui si tratta,
mutatis mutandis, ma come allora, di ricominciare (sebbene la guerra
presente infurii direttamente, per ora, "solo" nelle periferie del
capitale).
Ricominciare. Dunque, innanzitutto, capire le nuova
configurazione dell’imperialismo e degli imperialismi (al plurale! - e compreso
quello nostrano!); capire le modalità dell’egemonia attuata anche separando i
lavoratori dei "centri" dalle masse diseredate e sfruttate, per
mandarli eventualmente in guerra contro quelle, o ottenendo, come già oggi, che
i lavoratori la politica di guerra "non sabotino", o a lei
tiepidamente "aderiscano" (eh, sì: come nel ’15 in Italia, e
diversamente dal ’15. Ma c’è già chi va a salutare le "nostre" -
"nostre"!! - navi in partenza per la zona di guerra: consentitemi di
tacere i nomi di questi "dirigenti" della "sinistra").
Vedere sotto tutti gli aspetti, economici, sociali, statuali,
culturali, come è fatto e come funziona l’imperialismo di oggi - questo è
compito primario e urgente, preliminare a ogni nuova strategia, senza la quale,
come sappiamo, si agirà solo sempre di rimessa e a corto respiro.
Ma d’altra parte, la necessaria ricognizione del presente non
importa affatto un’assolutoria per il passato, né la rinuncia alla critica di
quello che è il nostro passato, non obliterabile né rinunciabile - il
passato di tutto il movimento operaio e democratico, e dunque anche dei
comunisti e della loro storia tutt’intera. Sarebbe inutile sottolinearlo, se non
fosse una delle premesse implicite del lavoro che esaminiamo, e che già per
questo si pone del tutto al di là delle vacue e distruttive diatribe sulla
"identità" della sinistra e dei comunsti, utili solo ai padroni del
vapore. Saltare a pié pari quelle diatribe identitarie significa
precisamente instaurare la continuità con la tradizione della democrazia e del
socialismo, non già romperla. E il motivo è semplice. Eccolo: Riconoscere
che la generazione ora al tramonto ha operato in un contesto di conoscenza e di
azione in cui era possibile evitare i due estremi astratti del "dover
essere" e della rassegnazione, significa riconoscere che essa (o insomma:
la o le generazioni dei "comunisti", dei
"terzinternazionalisti") hanno operato in una determinata
configurazione del processo storico, quella dell’imperialismo, in una fase ora
conclusa, senza che sia concluso né il processo plurisecolare della
unificazione capitalistica del genere umano via sfruttamento e valorizzazione,
né la forma imperialistica che quel processo assume tra fine ’800 e inizio
’900. Conclusa è bensì quella figura dell’imperialismo, quel tipo di
lotte interimperialistiche, quella possibilità di uscirne che si aprì
nel 1917, trasformando, ma solo in parte, "la guerra imperialistica in
guerra civile". Proprio per questo non poteva non seguire una fase in cui
le "idealità di giustizia e di eguaglianza, che sono proprie delle classi
lavoratrici" (come ebbe a dire Togliatti) non erano più, per milioni di
uomini, e per l’intelligenza, dover essere, speranza soltanto e soltanto
nobiltà dell’impegno soggettivo, ma azione e programma. Non poteva non seguire
una fase, per milioni di uomini e per l’intelligenza, in cui era possibile -
purché si fosse disposti al lavoro e al sacrificio - amare la realtà - non
aborrirla e sfuggirla, come insistentemente e subdolamente si suggerisce oggi.
Non basta "riconoscere" la realtà, infatti. È da lei che s’impara,
è grazie a lei che si esce dal misticismo romantico e dalla sua ipocrisia. Per
tutta una fase, amare la realtà e modificare la realtà è stato possibile insieme:
in un’opera che, avendo sempre gli individui come luoghi dell’agire, era però
collettiva nei suoi modi, nelle sue forme, nelle sua finalità.
Dire che quella fase dell’imperialismo, e della lotta
democratica e rivoluzionaria è conclusa, però, non vale nulla, se non è
comprensione del presente, minuziosa, paziente, senza illusioni né conclusioni
frettolose. Di qui il valore grande dell’analisi che gli studiosi del CESTES
pazientemente conducono.
Ma ancora. Riconoscere che quella configurazione del
processo storico è stata appunto una mediazione del processo medesimo, una
fase del capitalismo imperialistico e della lotta in esso e contro di esso,
ora conclusa, significa precisamente che è ancora e di nuovo possibile amare
la realtà, apprendere da lei, e apprendendo da lei in lei operare, uscendo
dall’astrazione e dalla disperazione romantico-impotente. Da questo amore
nasce e fruttifica lo spirito rivoluzionario.
(Tutto questo, come al solito, il nemico di classe lo sa
molto bene. Basta vedere con quanto pertinace accanimento esso diffonda, in
tutti i mezzi di comunicazione, a tutti i livelli di cultura, dal più
raffinato al più triviale, lo spirito di rassegnazione egocentrica, il divieto
intellettuale di uscire dal proprio campicello, la mitologia pseudo-ideologica
della "complessità", cioè dell’impossibilità di pensare il mondo).
2. Al termine dell’analisi statistica,
"tecnicamente" spassionata come lo sono le funzioni econometriche, L.
Vasapollo scrive che "si può ora ben capire... il perché delle tendenze
in atto" a intervenire nei Paesi del centro-est europeo, anche "da
parte dell’Italia" (p. 67).
La condizione in cui si attuano queste tendenze dell’Italia
pare peraltro piuttosto intermedia, se si considerano i "saldi
normalizzati" e il rapporto IDE in entrata - IDE in uscita (pp. 44 a 48),
il "ritardo... della rincorsa multinazionale italiana" quale risulta
dai saggi di crescita nel decennio rispetto alla "media europea" (p.
22), e la prevalenza dell’interscambio con le aree "centrali" (p. 23
ss.).
I dati-base delle elaborazioni di L. Vasapollo e di R.
Martufi (con le interessanti disaggregazioni per settori, per regioni, per
addetti e fatturato, p. 114 a 120) sono, naturalmente, dati CNEL, Eurostat, UIC
etc. - Ma proprio il quadro conoscitivo che i due Autori offrono rende possibile
la domanda: che cosa significa "tendenze in atto" "da parte
dell’Italia"?
Vi è una strategia "italiana"? O più
precisamente: quale è la configurazione "italiana", in senso attivo,
del rapporto tra attività produttive e finanziarie,
investimento-disinvestimento rapido, profitti finanziari e attività dei grandi
gruppi? (Per alcuni aspetti, sembrerebbe ripetersi su scala più larga qualcosa
che conosciamo dai tempi della Cassa per il Mezzogiorno - o no?).
E ancora. L’espressione "tendenze in atto del
capitalismo italiano" s e m b r a designare qui piuttosto un insieme di
correlazioni in rapido e costante riadattamento che un "soggetto"
dotato di di una capacità politica e di una strategia unitaria. Sarebbe di
grade interesse, ora, approfondire questo punto. E si può farlo, tra l’altro,
proprio grazie alle analisi qui presentate.
Chiedere se vi è, e in che senso, una "strategia
italiana", non significa, beninteso, chiedere se vi sia un Governo e dei
Ministri! Ma, sì, esaminare se non siamo in presenza solo di gruppi di
pressione, di uso spregiudicato di leve amministrative, fiscali, finanziarie, ma
non, propriamente, di una "politica" e "politica nazionale".
Anche questo è un passo avanti, che apre prospettive più
utili della discussione astratta sulla c.d. "fine degli
Stati-Nazione". E anzi: partendo di qui si può allargare la visuale,
anzitutto, nel tempo. La tendenza a uscire dalla "tradizionale
subalternità" dell’imperialismo italiano, che L. Vasapollo e R. Martufi
individuano, con la "delocalizzazione nomade" verso est (e sud?),
andrà verificata anche nel confronto con almeno 4 fasi storiche dello sviluppo
del capitalismo in Italia: la espansione 1890-1915; il periodo fascista fino
alla "guerra parallela" e alla revisione d’orizzonti nel 1941-42;
l’espansione nelle industrie "mature" nel dopoguerra
"atlantico"; da ultimo, la integrazione nell’impero
"occidentale" per gradi di gerarchie centro-periferia, e di
"stabilità imposta" (p. 15). - Gli Autori sanno bene, del resto, che
lo scopo primario dell’analisi econometrica è proprio quello di offrire materia
elaborata a riflessione ulteriore. Non si può chiedere di meglio.
3. Un altro aspetto della questione dello sviluppo reale del
Paese, nella sua economia e nella sua configurazione istituzionale, e quindi
dell’individuazione di una strategia possibile, è quello esaminato da S.
Cararo nel capitolo Lo Stato.
Prima di tutto. Cararo rivaluta la espressione "comitato
d’affari", non con citazioni da testi onorandi, ma dandole un significato
analitico. Il tipo di rapporto tra "affari" e "società"
complessivamente intesa, nella quale opera la "mano pubblica" in ogni
senso, dalla polizia all’istruzione al Tesoro - questo è l’oggetto
dell’indagine. È un rapporto che c’è sempre, poiché ci sono
"affari" e non si fanno affari nel vuoto. Ma è un rapporto, perciò
stesso, che necessariamente varia nel tempo, secondo la configurazione della
valorizzazione del capitale in genere, e delle istituzioni e forze sociali in
presenza. Cararo dunque domanda, prima, che scopi può perseguire il
"comitato d’affari" nell’ Italia di oggi, col suo tipo di capitalismo
oggi presente; e, poi, quali funzioni esso, il "comitato
d’affari" statualmente articolato, può assumere in concreto.
Anche qui, siamo "in più respirabil aere" che non
nell’astrattezza e judicial blindness (Marx) di tante teorie
aprioristiche su "poteri e funzioni dello Stato".
Ma in secondo luogo, S. Cararo mette in luce alcuni aspetti a
dir poco inquietanti. Il "Nuovo sceriffo di Nottingham", p. es., nella
sez. IV, non pare proprio un fenomeno "abnorme", ma casomai, una
patologia molto "fisiologica", se si ricorda che la malattia della
Repubblica Italiana, il suo non esser mai riuscita a diventare repubblicana per
davvero e fino in fondo, è cosa più antica e profonda della sintomatologia
attuale.
Il mondo degli "sceriffi", in cui prosperano
accomunati ex-sinistri ed ex-moderati, è, parrebbe, un aspetto (simile per
certi versi a fenomeni presenti nell’attuale Europa Orientale), di una
condizione intermedia tra "regolare" amministrazione
"borghese" nei Paesi centrali (con relativa corruzione, s’intende), e
figure compradoras-mafiose nelle periferie.
Ma ancora una volta. Vedere la realtà in faccia, senza
illusioni sulla nostra Res-publica, non significa affatto cadere nella vacua
ironia romantico-nichilistica (o al livello più basso, nel qualunquismo dello
"italiano meschino"): bensì sapere che c’è sempre tanta legge, e
dunque tanto realizzata libertà, quanto forti sono stati, o sono, coloro che
legge e libertà vogliono. Ed è per questa via, finalmente, che si arriva a
porre la questione di classe! (Cfr. i due contributi di M. Casadio).