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3. Eurobang

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Luciano Vasapollo
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Docente di Economia Aziendale, Fac. di Scienze Statistiche, Università’ “La Sapienza”, Roma; Direttore Responsabile Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali (CESTES) - Proteo.

Rita Martufi
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Consulente ricercatrice socio-economica; membro del Comitato Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico Sociali (CESTES) - PROTEO

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Il nuovo paradigma imprenditoriale nell’Europa del capitale. Il ruolo delle PMI

Luciano Vasapollo

Rita Martufi

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1. Nuove frontiere della funzione imprenditoriale e controllo sociale

Per definire o analizzare la figura dell’imprenditore va ricordato che già nel 1700 Cantillon si riferiva all’imprenditore come a colui che prendeva le decisioni, si assumeva i rischi e dirigeva la propria impresa. Nella teoria classica, poi, l’imprenditore altri non era che il capitalista; questa visione è cambiata con i marginalisti i quali definivano l’imprenditore come colui che rischia e coordina mentre il capitalista è chi investe il capitale. È poi Schumpeter a definire l’imprenditore come colui che ha la capacità di intuire, rischiare, prevedere, creare; mentre Knight sostiene che l’imprenditore è colui che sopporta il rischio e affronta l’incertezza.

Per poter comprendere e analizzare il ruolo svolto oggi dall’imprenditore è necessario specificare gli aspetti che maggiormente lo caratterizzano secondo i principi generali dell’approccio economico neoliberista: da un lato vi è la capacità di gestire l’incertezza, da un altro la capacità di svolgere un’attività innovativa e di agire in modo razionale rispetto allo scopo prefissato [1].

Per quanto riguarda il ruolo di innovatore va evidenziato che la diversificazione tra innovazione e attività di “routine” o ripetitiva è un elemento sostanziale per caratterizzare le diverse imprese; l’imprenditore deve saper gestire, coordinare e trasferire sia gli uomini sia i mezzi dai vecchi ai nuovi impieghi. E a questo ruolo si collega il fattore dell’incertezza, in quanto l’imprenditore deve essere in grado di gestire le novità; inoltre è chiaro che è necessaria anche la razionalità economica ed imprenditoriale per raggiungere lo scopo prefissato; se è vero però che lo scopo da raggiungere è legato al profitto, a volte possono intervenire altri fattori quali il prestigio, la soddisfazione personale, lo status, ecc.

L’approccio neoliberista, e non solo, riferisce la funzione imprenditoriale sia ad un fenomeno “interno”, ossia ad una impresa già esistente ed attiva, sia come fenomeno “nuovo” ossia riferita alla nascita di una nuova impresa. [2] L’attività imprenditoriale ha, per questo, tra le sue caratteristiche la dinamicità, la soggettività e l’aspettativa di profittabilità. In sostanza la nascita di nuove imprese può essere considerato, almeno in parte, un atto imprenditoriale (nel significato di Weber, ad esempio, una forte motivazione al successo e il desiderio di indipendenza esaltano le doti richieste ad un imprenditore quali autonomia, capacità di gestire il rischio e l’incertezza, ecc.) [3].

2. Negli anni ’60 il sistema economico e produttivo era governato dalle grandi imprese, a conferma delle teorie di Galbraiht, il quale sosteneva che la principale fonte di progresso per un sistema economico era rappresentato proprio dalle grandi imprese perché avevano una maggiore possibilità di sfruttare le economie di scala e una maggiore capacità di innovare.

Questa tendenza si è però modificata negli anni ’70; infatti i numerosi cambiamenti intervenuti nell’economia del mondo, la crescente importanza dell’innovazione come fattore fondamentale di successo per le imprese e il potenziamento del processo di formazione di nuove imprese hanno riportato ad attualità il concetto dell’imprenditore innovatore di Schumpeter [4].

Negli anni ’80 poi le varie modificazioni strutturali hanno messo in risalto il ruolo prevalente della creatività imprenditoriale soprattutto nelle imprese più piccole.

È in funzione della mutata realtà che si rende sempre più evidente la separazione fra soggetto economico proprietario (imprenditore-proprietario) e soggetto gestore e di controllo (imprenditore-manager-gestore) a cui è riservata la guida dell’impresa e la capacità di realizzare le potenzialità provenienti dai processi innovativi, attuando processi decisori a carattere strategico. Le due specificità si ricompongono poi a momento e funzione unitaria essendo superata ormai la figura classica dell’imprenditore individuale, legata alla fase dello sviluppo delle imprese definita "fordista" o "tradizionale". Da più di quindici anni si è aperta la fase di sviluppo definita del management imprenditoriale subentrata all’era dell’impresa manageriale, fino addirittura a giungere alla fase dell’impresa post-manageriale che proietta nell’era post-fordista un’impresa diffusa socialmente nel sistema territoriale.

3. È la funzione imprenditoriale sul sociale che predomina rispetto al soggetto, di conseguenza la nuova figura imprenditoriale non può che essere di natura plurima e identificata, quasi esclusivamente, nel top-management, anche se solo a volte può anche essere apportatore di capitale di rischio. Si tratta di un nuovo soggetto, meglio di un pool di soggetti, capace di dinamizzare la funzione imprenditoriale in particolare verso l’immagine nel sociale. Quest’ultima proiezione nel sociale della cultura d’impresa viene individuata come una qualsiasi iniziativa imprenditoriale caratterizzata da innovazione, soggettività, gestione del consenso al potere economico e politico d’impresa, derivante dall’innovazione di qualsiasi tipo proiettata nel territorio, nel sociale tutto.

Se la funzione imprenditoriale ha ancora come compito strategico quello di modificare l’equilibrio di mercato, allora le informazioni e la conoscenza diventano risorse intangibili a valenza strategica; pertanto saranno sempre più utilizzate dal decision making per le strategie globali di controllo sociale finalizzato alla competitività di mercato nazionale e a livello internazionale diventano risorsa chiave e fondamentali nella competizione globale. La grande capacità risiede, poi, non solo nel reperire conoscenza e informazioni ma nell’utilizzarle in maniera altamente competitiva e diversa rispetto alla concorrenza, ma, comunque, con l’unico vincolo di trasmettere nel sociale le idee-forza del mercato, che devono diventare idee-guida della società tutta.

Si può, quindi, affermare che la conoscenza è diventata negli ultimi anni un vero e proprio input di straordinaria importanza inserito nel processo produttivo e decisionale, ma nello stesso tempo anche un output che contribuisce in maniera essenziale a svolgere la mobilitazione di risorse per creare redditività e distribuire il bene o il servizio prodotto, ma soprattutto per diffondere la cultura d’impresa allargando gli orizzonti delle nuove frontiere dell’accumulazione flessibile del capitale.

Per realizzare in pieno la funzione imprenditoriale, allora, naturalmente l’impresa muta in continuazione i processi comunicazionali e decisionali, innovandosi e producendo, così, un progresso non solo economico, tecnico-informativo ma anche incidendo significativamente nella soggettualità del lavoro; cioè nei soggetti applicati ad un lavoro che cambia, lavoratori che devono essere capaci di arricchire la qualità della accumulazione di capitale attraverso l’innalzamento delle strutture produttive e dell’intera organizzazione del lavoro in termini di subordinazione completa, voluta o meno, alla modernizzazione e alla flessibilità d’impresa.

I comportamenti produttivi e culturali d’impresa interagenti con l’esterno devono essere capaci di dominare le nuove figure del lavoro e l’incertezza del sociale derivante dai processi innovativi, piegando agli interessi d’impresa tutte le forme che assume o può assumere il conflitto o comunque la competizione fra capitale e lavoro.

La funzione imprenditoriale è, allora, sempre più basata su un processo decisorio-comunicazionale che invade il territorio, è cioè momento decisionale sulle scelte inerenti le formule economico-culturali della società. Decisioni che assumono valenza strategica nel momento in cui per trasformare la realtà sociale si incide sulla potenzialità dei processi di organizzazione dell’antagonismo, mutando completamente la tipologia e le dinamiche del lavoro.

Nel nuovo modello assumono forte rilevanza i processi endogeni di sviluppo che sono specifici di particolari formazioni sociali e territoriali, che facilitano le dinamiche di ristrutturazione di un capitalismo sempre più basato sulla crescita di un’imprenditoria di tipo europeo ma a specifici connotati locali. Quindi piccola e media impresa, affiancata alla grande impresa delocalizzata ed esternalizzata e sviluppo diffuso, caratterizzano un nuovo modo di organizzare la produzione con profonde caratteristiche autonome, ma sempre basate su forme più o meno sofisticate di aumento dello sfruttamento della forza lavoro.

La flessibilità tecnologica consente contemporaneamente sia di incrementare la produttività sia di creare flessibilità nella produzione, producendo così una notevole contrazione del volume della forza lavoro e una diminuzione del tempo di lavoro necessario alla produzione. Il lavoro non è disponibile per tutti, e la flessibilità dei rapporti lavorativi rende lo stesso vivere precario e instabile anche per coloro che ancora godono del posto di lavoro più o meno stabile. Quindi, ogni forma di garanzia dell’epoca fordista viene completamente eliminata dalla trasformazione produttiva del nuovo modello capitalistico cosiddetto post-fordista dell’accumulazione flessibile.

4. È così che si passa dai modelli di capitalismo all’unico modello di capitalismo selvaggio.

È importante ricordare che gli elementi che caratterizzano il ruolo dell’imprenditore hanno dato vita nel tempo a diversi modelli di capitalismo in vari paesi; tra i più importanti si ricordano:

1) il modello “renano- nipponico”,

2) il modello anglosassone,

3) il modello italiano o familiaristico.

Ma ormai è in atto una trasformazione che oltre ad identificare un solo e sempre lo stesso modo di produzione capitalistico con i propri connotati di sfruttamento, identifica allo stesso tempo un accorpamento dei vari modelli verso forme sempre più prive di mediazione.

La trasformazione è sia di tipo quantitativo con una disoccupazione elevatissima nell’Europa ex continentale, sia di tipo qualitativo. Infatti non si può più considerare la fabbrica il luogo della concentrazione del lavoro e della produzione, né lo Stato è la forma di mediazione e regolamento del conflitto sociale. L’intero ciclo produttivo ha scavalcato le mura della fabbrica generalizzandosi alla società intera, lo Stato, adempiendo solo in parte alla funzione di mediazione sociale, si fa portatore nel sociale nelle sue diverse forme della cultura del mercato e degli interessi dell’impresa. Alla produzione viene riconosciuto un ruolo di manipolatrice di oggetti intellettuali, relazionali, affettivi e tecnico-scientifici. Il lavoro è diventato un’insieme di figure produttive inserite in un complesso ambiente sociale.

E la funzione è ancora più dinamica, rendendo realmente attivo il soggetto plurimo imprenditoriale, tanto più l’utilizzo di esperienze e di know-how, di comunicazione, di conoscenza è utilizzato per gestire l’incertezza derivante dall’innovazione, dominando e piegando ai propri obiettivi eventi di cui non si conosce aprioristicamente la distribuzione di probabilità di accadimento e tra questi le potenzialità e le forme che va assumendo il dinamismo sociale, anche con momenti di forte contrapposizione e di conflittualità politico-sindacale. La funzione imprenditoriale non può, quindi, limitarsi a reperire e coordinare le risorse produttive; il suo ruolo, e con essa quello del soggetto-imprenditore, sia esso individuale o collettivo, diventa attivo e si dinamizza nel momento in cui attraverso il recepimento dei flussi conoscitivi, informativi e comunicativi e con l’attuazione dei processi decisori strategici modifica, recependo le innovazioni, l’equilibrio di mercato, ma nel contempo controlla socialmente, influenzandolo, l’intero macro-sistema ambientale in cui l’attività imprenditoriale si esplica.

5. Si sviluppa, comunque, una linea di evoluzione anche delle economie locali che preme sulla distruzione di qualsiasi forma di rigidità per l’impresa, anche di rigidità sociale. Il sistema imprenditoriale si ricentra, perciò, su alcune linee di tendenza che portano il sistema economico nel suo insieme, ed i sistemi di sviluppo locale in particolare, da una partecipazione diffusa ad almeno alcune forme di garanzie sociali universali, al passaggio ad un sistema di accessi selettivi.

Per contraddistinguere i soggetti di comando del localismo si deve guardare al nuovo ruolo assunto anche dagli attori istituzionali di rappresentanza e a quelli finanziari tradizionalmente radicati sul territorio, che diventano soggetti determinanti del dominio locale, come parte attiva del ruolo svolto da uno Stato che ha dismesso il ruolo di regolatore sociale.

Processi ormai finalizzati all’imposizione sociale dell’assunzione dei comportamenti di potere incentrati sui modelli relazionali tra le imprese, focalizzando contestualmente le modalità per una partecipazione qualificata del corpo sociale nei rapporti con le istituzioni, attraverso la scommessa della qualità e della flessibilità produttiva da un lato e la scommessa dell’autorealizzazione, abbattendo qualsiasi logica solidaristica e di tolleranza.


[1] Cfr. Mussati G. (a cura di), “Alle origini dell’imprenditorialità. Nascita di nuove imprese: analisi teorica e verifiche empiriche, ETASLIBRI, Milano, 1990.

[2] Cfr. Vasapollo L., “Dall’entrepreneur all’imprenditore plurimo. Sulla teoria economica della funzione imprenditoriale”,CEDAM, Padova, 1996.

[3] Va però sottolineato che la nascita di nuove imprese può incontrare ostacoli per le cosiddette “barriere di entrata” rappresentate, ad esempio, dai forti investimenti necessari per gli impianti, l’accesso a tecnologie complesse, ecc. Anche le istituzioni possono favorire o ostacolare la natalità imprenditoriale, in quanto la disponibilità di una accessibile rete finanziaria, la possibilità di formare dei consorzi o associazioni, gli incentivi, ecc. possono facilitare la nascita di nuove imprese ma al contempo, come avviene puntualmente in Italia, possono anche creare la cosiddetta figura “dell’imprenditorialità assistita” che ha caratterizzato per molto tempo interi settori e vaste aree del nostro Paese.

[4] Soprattutto nella “Teoria dello sviluppo economico” infatti, Schumpeter sosteneva che l’innovazione è il frutto di ogni individuo che crea una nuova impresa e che l’azione di imprese di minori dimensioni sono il risultato dell’innovazione.