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La transizione difficile

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Alessandro Mazzone
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Professore di Filosofia della Storia, Università di Siena

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La posta in gioco nell’Università

Alessandro Mazzone

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Ai primi del 2000 Arnd Morkel (vedi articolo), professore emerito di Scienza della politica, e Rettore dell’Università di Treviri per 12 anni, pubblica in Germania un libro dal titolo difficile da tradurre: Die Universität muß sich wehren! [1]: Salvare l’Università! Bisogna che l’Università si difenda, che salvi sé stessa!

Quest’opera viene da lontano. L’Autore stesso aveva pubblicato, dall’ormai lontano 1976, una trentina di saggi e studi sull’Università, la ricerca, il rapporto tra scienze “naturali” e “umanistiche”; contribuendo alla discussione seguita in Germania alle frettolose innovazioni apportate dopo la c.d. “rivolta studentesca” del 1968 e seguenti. Ma riportandola a un quadro più ampio: la funzione della scienza nella vita collettiva, le possibilità di rinnovamento dell’Università come luogo della ricerca e della produzione di sapere, da una parte, dall’altra e insieme, di formazione non solo intellettuale, ma umana e complessiva [“Bildung”], nella continuità delle generazioni.

Il libro è diviso in tre parti. La prima, e più breve, riassume la storia tedesca di qualcosa che conosciamo anche in Italia: l’espansione formale, burocratica e demagogica, della popolazione studentesca, senza una vera riflessione sulle finalità del far passare nell’Università da un quarto a un terzo della popolazione giovanile, perciò senza riflessione sul rapporto tra formazione, scienza, società, senza un obiettivo societario.

Si è prodotta un situazione insostenibile, non già per singoli e gruppi (“corporativi”, diremmo in Italia), ma per la società tutt’intera: manca infatti un progetto di scuola, di formazione, quindi di società, che tenga conto del ruolo che ricerca della verità e conoscenza scientifica hanno nella vita moderna. Il rinnovamento dell’Università (è il sottitolo del libro) può venire solo dalla autoriflessione dell’Università stessa, nella misura in cui essa è ancora sede di ricerca e di formazione umana, non già di “addestramento” strumentale e privilegiario: capace perciò di ripensare il suo ruolo nella vita complessiva del corpo sociale, mentre né “i politici” né “l’economia” si pongono il problema di questa vita, cioè quello (aggiungiamo noi), di una cittadinanza vera e di una democrazia non finta.

La seconda parte è divisa in nove capitoli, di cui ripubblichiamo qui (in un apposito box) la sintesi presentata nel 1999 per la Wissenschaftliche Buchgemeinschaft di Darmstadt.

L’ultima, più breve, è dubitativa: “C’è speranza?”. Per la Germania, A. Morkel ripone le speranze nell’Università stessa, in quanto sia capace di “far comprendere che la ricerca della verità e la formazione disinteressata è utile, anzi la più utile alla comunità”: compito non impossibile, forse, dove un dibattito civico serio, la presenza di vedute a lungo termine nella borghesia colta, di senso dello Stato non nei “politici” (di cui A. Morkel dispera affatto), ma nei reponsabili amministrativi, tecnico-scientifici, culturali a tutti i livelli e nei settori più vari della vita sociale, rendano udibile la voce che dall’Università, non ancora colonizzata del tutto, può levarsi, e si leva, almeno in alcuni Paesi.  [2]

Ma perché l’Università deve difendersi? Essa è sotto attacco? E da parte di chi? Per quali scopi?

L’Università è sotto attacco. Non singole strutture, ordinamenti, gruppi di persone docenti o discenti sono “sotto attacco”. Certo, strutture, ordinamenti, funzioni vengono modificate, dall’alto e in peggio. Le cose vanno in fretta, e nel 2001 è diventato palese, se guardiamo all’Italia, quello che significano “autonomia di bilancio” degli Atenei, “obiettivi formativi professionalizzanti”, curricola prefigurati, “lauree brevi”, “velocizzazione” dei corsi ecc.

Nessuno afferma, né in Germania né in Italia, che “prima” tutto andasse bene! Ma l’essenziale sta altrove. L’attacco immediato, la tendenza alla trasformazione dell’Università in un servizio non pagato al c.d. “mercato”, comune alla Germania e all’Italia ed altri Paesi con modalità diversificate, è la manifestazione di un processo di fondo, più antico, che riguarda la società intera; e che era cominciato da tempo anche dentro l’ Università stessa, minandone lo spirito e la forma di azione, che non può essere quella di un “conglomerato poco omogeneo di corsi”, più o meno “professionalizzanti”, ma quello di una comunità attiva di ricerca della verità nelle e attraverso le scienze, tutte le scienze, e “umanistiche” e “naturali”. È il ruolo, la funzione possibile di questa attività, della ricerca del vero, per tutta la collettività sociale, che viene messo in forse, e - non si può escluderlo - per un periodo non breve.

Se guardiamo all’Italia, l’Università viene trasformata:

- dal lato della “preparazione dei giovani”, in largitrice di servizi non pagati alle imprese, sotto l’egida dei “curricola professionalizzanti” sempre e dovunque, che svuota la coerenza scientifica dei corsi d’insegnamento e, soprattutto, dello studio e della autoformazione dei giovani stessi; questo porta de facto (vedi il c.d. “3+2”, etc.) a dispensare a molti “titoli” di facile acquisizione, che hanno carattere di distinzione sociale come il vestito “firmato”, e non molto maggior valore; e a fornire, a pochi, un primo anello di carriera e denaro, di cui la qualificazione conoscitiva (“competenze”) è essenzialmente strumento ;

- dal lato dell’attività dell’Università stessa (e quindi della sua strutturazione interna) in campo di colonizzazione per iniziative imprenditoriali (cui già ora taluni Atenei partecipano, sottoscrivendo in partenza quote di capitale): cosicché l’attività di ricerca diventa inevitabilmente preparazione e partecipazione a singoli progetti, la cui logica immanente è quella del profitto specifico, con brevettazione privata di risultati della ricerca, condotta negli Istituti universitari pubblici (o già semi-pubblici?) - Qui, in sostanza, gli Atenei diventano, sotto l’insegna della “autonomia” finanziaria, carrozzoni privato-pubblici, dove i mezzi, tuttora di gran lunga preponderanti, derivanti dal bilancio dello Stato, vengono gestiti per interessi particolari, non solo “del profitto” e capitalistici in generale, ma anche e senz’altro di arricchimento personale.

L’entrata massiccia di questo motivo nelle vecchie vene dell’istituto universitario darà nuova linfa a tutto l’organismo! - affermano i suoi sostenitori. Forse. Ma è facile vedere che sarà un organismo diverso: quello dell’Università-merce, campo di tutte le manovre di potere-per-arricchirsi. (E non a caso già ora ai circuiti istituzionali, consigli di Facoltà etc., se ne sovrappone in alcuni Atenei un altro, informale e segreto, che “prepara” tutte le decisioni nell’ombra).

Tutto questo è ormai palese, dentro l‘Università italiana. Protestare in nome dei principi repubblicani di libertà della scienza, della cultura aperta a tutti, del carattere essenzialmente pubblico del sapere e di ogni sapere, sia “scientifico” che “umanistico” - è giusto e doveroso. Ma non basta. Bisogna comprendere il processo in corso. E il libro di Arnd Morkel aiuta a comprenderlo, proprio perché pone la questione sul terreno più generale. È il terreno della “idea dell’Università”, del suo senso nella vita associata. Può sembrare, al lettore affrettato, un terreno “idealistico”. Ma non è così. Che il profitto capitalistico sia dominante, oggi, è davvero la scoperta dell’acqua calda. Ripeterlo di fronte a ogni problema reale della vita collettiva non serve a capire quel problema concreto. Diventa una giaculatoria, e il critico “materialista” dell’idealismo dovrebbe almeno sapere che le giaculatorie non danno fastidio ai padroni del vapore - anzi, talvolta, sono loro utili.

2. L’Università è, di fatto, sotto attacco. E l’attacco riguarda l’Università come luogo della ricerca della verità. Ricerca, non “possesso”. La verità non può essere posseduta, mai. Ma la sua ricerca è critica infinita, e dunque discussione e ridefinizione, sempre di nuovo nel tempo, non solo delle singole “discipline” o “materie”, e dei loro parziali e temporanei assetti metodici, ma anche delle concezioni del mondo, cioè della vita associata degli uomini, in presenza nella società. Le quali ultime l’Università non può ospitare come tali (facendolo, si identificherebbe con la vita politica), ma può e deve fare oggetto suo, cioè di ricerca critica dei loro presupposti concettuali e conseguenze teoriche e pratiche (offrendo così un servizio inestimabile, e che essa sola può dare, alla società tutt’intera).

Ricerca della verità, non “possesso”. La verità è un compito infinito, in cui operano tutte le ricerche, a monte della divisione in discipline, a monte anche della dicotomia di “umanistico” e “scientifico-naturalistico”. Quindi la sua ricerca è inscindibilmente negazione di quello che valeva ieri, e oggi non più, sapendo che quello che si acquisisce e vale oggi, sarà superato domani (senza per questo esser “distrutto”).

(Nasce da qui anche l’esigenza dell’apprendimento della storia delle loro scienze per i giovani e futuri ricercatori, per educarne lo spirito critico, e per contribuire a formare in loro il necessario distacco dal “risultato” immediato: un distacco, che li renderà meno corrivi alle potenze esterne, economiche, politiche, o altre, che mireranno a servirsi di loro.)

Nella ricerca infinita della verità non ci sono “settori”, ma solo una molteplicità di ricerche. L’Università è il luogo di queste, e perciò del loro possibile, permanente confronto. Questo confronto non è formalistica “interdisciplinarità” - se l’Università opera effettivamente come Universitas studiorum - non come agglomerato di ammaestramenti all’esercizio di “competenze” predeterminate. Notiamo che la reale rottura delle barriere settoriali sembra al senso comune cosa molto ardua. Essa, però, non si attua con regolamenti o sedute d’incontro, che son mezzi via via predisponibili, ma mediante la formazione, nella vita intera della comunità universitaria, docenti e discenti insieme, di una coscienza critica di se stessi, dello stato delle ricerche diverse, del loro ruolo attuale e possibile nella vita sociale complessiva. E in effetti, si tratta di qualcosa che è stato relizzato: non completamente, e non sempre (ma, per esempio, nell’Università humboldtiana). Quando è stato così, si sono avute anche epoche di gradi avanzamenti scientifici e culturali, come nell’Università tedesca dell’‘800. (Cfr. il 3° capitolo-tesi del Morkel: L’Università deve intender sé stessa come un’unità ).


[1] La radice germanica wehr, con senso di forza militare, ha dato luogo anche all’italiano “guerra”. Il riflessivo sich wehren vale “difendersi attivamente”. Il libro è stato pubblicato in prima edizione dalla Wissenschaftliche Buchgesellschaft di Darmstadt. In un capitolo apposito, l’A. rende chiaro come un’Università rinnovata sia possibile solo insieme al rinnovamento della scuola: e infatti questa è poi, più largamente, la “posta in gioco”. Qui non se ne è potuto trattare esplicitamente: ne ho toccato in breve, per quel che riguarda l’Italia, nella parte finale del saggio Chi vuole l’Università?, pubblicato nel “Quaderno n°1” del Laboratorio per la Critica Sociale, Roma 2000.

[2] Recentemente, Werner HOFFACKER, Die Universität des 21. Jahrhunderts - Dienstleistungsunternehmen oder öffentliche Einrichtung? [L’Università del XXI secolo: impresa di servizi o istituzione pubblica?], Neuwied 2000. - In un saggio dello stesso A., Die vermarktete Universität [L’Università messa in mercato], in “Blätter f. deutsche u. internationale Politik”, 10/2000, p. 1365-74, si mostra la improponibilità pratica del “modello mercato” per un governo adeguato della istituzione universitaria. - Interessante poi anche che negli USA, e nonostante che “vengano colà accettate sempre nuove restrizioni della libertà di ricerca a vantaggio degli interessi di valorizzazione monetaria dei committenti” (p. 1372), solo il sette per cento del finanziamento complessivo delle Università è dovuto a esborsi di imprese. (Media sugli ultimi 8 anni). - Un “bell’investimento”
 non c’è che dire!