Ai primi del 2000 Arnd Morkel (vedi
articolo), professore emerito di Scienza della politica, e Rettore dell’Università
di Treviri per 12 anni, pubblica in Germania un libro dal titolo difficile da
tradurre: Die Universität muß sich wehren! [1]:
Salvare l’Università! Bisogna che l’Università si difenda, che salvi sé
stessa!
Quest’opera viene da lontano. L’Autore stesso aveva
pubblicato, dall’ormai lontano 1976, una trentina di saggi e studi sull’Università,
la ricerca, il rapporto tra scienze “naturali” e “umanistiche”;
contribuendo alla discussione seguita in Germania alle frettolose innovazioni
apportate dopo la c.d. “rivolta studentesca” del 1968 e seguenti. Ma
riportandola a un quadro più ampio: la funzione della scienza nella vita
collettiva, le possibilità di rinnovamento dell’Università come luogo della
ricerca e della produzione di sapere, da una parte, dall’altra e insieme,
di formazione non solo intellettuale, ma umana e complessiva [“Bildung”],
nella continuità delle generazioni.
Il libro è diviso in tre parti. La prima, e più breve,
riassume la storia tedesca di qualcosa che conosciamo anche in Italia: l’espansione
formale, burocratica e demagogica, della popolazione studentesca, senza una vera
riflessione sulle finalità del far passare nell’Università da un quarto a un
terzo della popolazione giovanile, perciò senza riflessione sul rapporto tra
formazione, scienza, società, senza un obiettivo societario.
Si è prodotta un situazione insostenibile, non già per
singoli e gruppi (“corporativi”, diremmo in Italia), ma per la società tutt’intera:
manca infatti un progetto di scuola, di formazione, quindi di società, che
tenga conto del ruolo che ricerca della verità e conoscenza
scientifica hanno nella vita moderna. Il rinnovamento dell’Università (è
il sottitolo del libro) può venire solo dalla autoriflessione dell’Università
stessa, nella misura in cui essa è ancora sede di ricerca e di
formazione umana, non già di “addestramento” strumentale e privilegiario:
capace perciò di ripensare il suo ruolo nella vita complessiva del corpo
sociale, mentre né “i politici” né “l’economia” si pongono il
problema di questa vita, cioè quello (aggiungiamo noi), di una cittadinanza
vera e di una democrazia non finta.
La seconda parte è divisa in nove capitoli, di cui
ripubblichiamo qui (in un apposito box) la sintesi presentata nel 1999 per la
Wissenschaftliche Buchgemeinschaft di Darmstadt.
L’ultima, più breve, è dubitativa: “C’è speranza?”.
Per la Germania, A. Morkel ripone le speranze nell’Università stessa, in
quanto sia capace di “far comprendere che la ricerca della verità e la
formazione disinteressata è utile, anzi la più utile alla comunità”:
compito non impossibile, forse, dove un dibattito civico serio, la presenza di
vedute a lungo termine nella borghesia colta, di senso dello Stato non nei “politici”
(di cui A. Morkel dispera affatto), ma nei reponsabili amministrativi,
tecnico-scientifici, culturali a tutti i livelli e nei settori più vari della
vita sociale, rendano udibile la voce che dall’Università, non ancora
colonizzata del tutto, può levarsi, e si leva, almeno in alcuni Paesi.
[2]
Ma perché l’Università deve difendersi? Essa è sotto
attacco? E da parte di chi? Per quali scopi?
L’Università è sotto attacco. Non singole strutture,
ordinamenti, gruppi di persone docenti o discenti sono “sotto attacco”.
Certo, strutture, ordinamenti, funzioni vengono modificate, dall’alto e in
peggio. Le cose vanno in fretta, e nel 2001 è diventato palese, se guardiamo
all’Italia, quello che significano “autonomia di bilancio” degli Atenei,
“obiettivi formativi professionalizzanti”, curricola prefigurati, “lauree
brevi”, “velocizzazione” dei corsi ecc.
Nessuno afferma, né in Germania né in Italia, che “prima”
tutto andasse bene! Ma l’essenziale sta altrove. L’attacco immediato, la
tendenza alla trasformazione dell’Università in un servizio non pagato al
c.d. “mercato”, comune alla Germania e all’Italia ed altri Paesi con
modalità diversificate, è la manifestazione di un processo di fondo, più
antico, che riguarda la società intera; e che era cominciato da tempo anche dentro
l’ Università stessa, minandone lo spirito e la forma di azione, che non
può essere quella di un “conglomerato poco omogeneo di corsi”, più o meno
“professionalizzanti”, ma quello di una comunità attiva di ricerca della
verità nelle e attraverso le scienze, tutte le scienze, e “umanistiche”
e “naturali”. È il ruolo, la funzione possibile di questa attività, della
ricerca del vero, per tutta la collettività sociale, che viene messo in
forse, e - non si può escluderlo - per un periodo non breve.
Se guardiamo all’Italia, l’Università viene trasformata:
- dal lato della “preparazione dei giovani”, in
largitrice di servizi non pagati alle imprese, sotto l’egida dei “curricola
professionalizzanti” sempre e dovunque, che svuota la coerenza scientifica dei
corsi d’insegnamento e, soprattutto, dello studio e della autoformazione dei
giovani stessi; questo porta de facto (vedi il c.d. “3+2”, etc.) a
dispensare a molti “titoli” di facile acquisizione, che hanno carattere di
distinzione sociale come il vestito “firmato”, e non molto maggior valore; e
a fornire, a pochi, un primo anello di carriera e denaro, di cui la
qualificazione conoscitiva (“competenze”) è essenzialmente strumento
;
- dal lato dell’attività dell’Università stessa (e
quindi della sua strutturazione interna) in campo di colonizzazione per
iniziative imprenditoriali (cui già ora taluni Atenei partecipano,
sottoscrivendo in partenza quote di capitale): cosicché l’attività di
ricerca diventa inevitabilmente preparazione e partecipazione a singoli
progetti, la cui logica immanente è quella del profitto specifico, con
brevettazione privata di risultati della ricerca, condotta negli Istituti
universitari pubblici (o già semi-pubblici?) - Qui, in sostanza, gli Atenei
diventano, sotto l’insegna della “autonomia” finanziaria, carrozzoni
privato-pubblici, dove i mezzi, tuttora di gran lunga preponderanti, derivanti
dal bilancio dello Stato, vengono gestiti per interessi particolari, non solo
“del profitto” e capitalistici in generale, ma anche e senz’altro di
arricchimento personale.
L’entrata massiccia di questo motivo nelle vecchie vene
dell’istituto universitario darà nuova linfa a tutto l’organismo! -
affermano i suoi sostenitori. Forse. Ma è facile vedere che sarà un organismo
diverso: quello dell’Università-merce, campo di tutte le manovre di
potere-per-arricchirsi. (E non a caso già ora ai circuiti istituzionali,
consigli di Facoltà etc., se ne sovrappone in alcuni Atenei un altro, informale
e segreto, che “prepara” tutte le decisioni nell’ombra).
Tutto questo è ormai palese, dentro l‘Università
italiana. Protestare in nome dei principi repubblicani di libertà della
scienza, della cultura aperta a tutti, del carattere essenzialmente pubblico
del sapere e di ogni sapere, sia “scientifico” che “umanistico” - è
giusto e doveroso. Ma non basta. Bisogna comprendere il processo in corso. E il
libro di Arnd Morkel aiuta a comprenderlo, proprio perché pone la questione sul
terreno più generale. È il terreno della “idea dell’Università”, del
suo senso nella vita associata. Può sembrare, al lettore affrettato, un terreno
“idealistico”. Ma non è così. Che il profitto capitalistico sia dominante,
oggi, è davvero la scoperta dell’acqua calda. Ripeterlo di fronte a ogni
problema reale della vita collettiva non serve a capire quel problema
concreto. Diventa una giaculatoria, e il critico “materialista” dell’idealismo
dovrebbe almeno sapere che le giaculatorie non danno fastidio ai padroni del
vapore - anzi, talvolta, sono loro utili.
2. L’Università è, di fatto, sotto attacco. E l’attacco
riguarda l’Università come luogo della ricerca della verità. Ricerca,
non “possesso”. La verità non può essere posseduta, mai. Ma la sua ricerca
è critica infinita, e dunque discussione e ridefinizione, sempre di nuovo nel
tempo, non solo delle singole “discipline” o “materie”, e dei loro
parziali e temporanei assetti metodici, ma anche delle concezioni del mondo,
cioè della vita associata degli uomini, in presenza nella società. Le quali
ultime l’Università non può ospitare come tali (facendolo, si
identificherebbe con la vita politica), ma può e deve fare oggetto suo,
cioè di ricerca critica dei loro presupposti concettuali e conseguenze teoriche
e pratiche (offrendo così un servizio inestimabile, e che essa sola può dare,
alla società tutt’intera).
Ricerca della verità, non “possesso”. La verità è
un compito infinito, in cui operano tutte le ricerche, a monte della divisione
in discipline, a monte anche della dicotomia di “umanistico” e “scientifico-naturalistico”.
Quindi la sua ricerca è inscindibilmente negazione di quello che valeva
ieri, e oggi non più, sapendo che quello che si acquisisce e vale oggi, sarà
superato domani (senza per questo esser “distrutto”).
(Nasce da qui anche l’esigenza dell’apprendimento della
storia delle loro scienze per i giovani e futuri ricercatori, per educarne lo
spirito critico, e per contribuire a formare in loro il necessario distacco dal
“risultato” immediato: un distacco, che li renderà meno corrivi alle
potenze esterne, economiche, politiche, o altre, che mireranno a servirsi di
loro.)
Nella ricerca infinita della verità non ci sono “settori”,
ma solo una molteplicità di ricerche. L’Università è il luogo di queste, e
perciò del loro possibile, permanente confronto. Questo confronto non è
formalistica “interdisciplinarità” - se l’Università opera
effettivamente come Universitas studiorum - non come agglomerato di
ammaestramenti all’esercizio di “competenze” predeterminate. Notiamo che
la reale rottura delle barriere settoriali sembra al senso comune cosa molto
ardua. Essa, però, non si attua con regolamenti o sedute d’incontro, che son
mezzi via via predisponibili, ma mediante la formazione, nella vita intera della
comunità universitaria, docenti e discenti insieme, di una coscienza critica di
se stessi, dello stato delle ricerche diverse, del loro ruolo attuale e
possibile nella vita sociale complessiva. E in effetti, si tratta di qualcosa
che è stato relizzato: non completamente, e non sempre (ma, per esempio, nell’Università
humboldtiana). Quando è stato così, si sono avute anche epoche di gradi
avanzamenti scientifici e culturali, come nell’Università tedesca dell’‘800.
(Cfr. il 3° capitolo-tesi del Morkel: L’Università deve intender sé
stessa come un’unità ).
[1] La radice germanica wehr,
con senso di forza militare, ha dato luogo anche all’italiano “guerra”. Il
riflessivo sich wehren vale “difendersi attivamente”. Il libro è
stato pubblicato in prima edizione dalla Wissenschaftliche Buchgesellschaft di
Darmstadt. In un capitolo apposito, l’A. rende chiaro come un’Università
rinnovata sia possibile solo insieme al rinnovamento della scuola: e infatti
questa è poi, più largamente, la “posta in gioco”. Qui non se ne è potuto
trattare esplicitamente: ne ho toccato in breve, per quel che riguarda l’Italia,
nella parte finale del saggio Chi vuole l’Università?, pubblicato nel
“Quaderno n°1” del Laboratorio per la Critica Sociale, Roma 2000.
[2] Recentemente, Werner HOFFACKER, Die Universität des 21. Jahrhunderts -
Dienstleistungsunternehmen oder öffentliche Einrichtung? [L’Università del
XXI secolo: impresa di servizi o istituzione pubblica?], Neuwied 2000. - In
un saggio dello stesso A., Die vermarktete Universität [L’Università
messa in mercato], in “Blätter f. deutsche u. internationale Politik”,
10/2000, p. 1365-74, si mostra la improponibilità pratica del “modello
mercato” per un governo adeguato della istituzione universitaria. -
Interessante poi anche che negli USA, e nonostante che “vengano colà
accettate sempre nuove restrizioni della libertà di ricerca a vantaggio degli
interessi di valorizzazione monetaria dei committenti” (p. 1372), solo il sette
per cento del finanziamento complessivo delle Università è dovuto a
esborsi di imprese. (Media sugli ultimi 8 anni). - Un “bell’investimento”
non c’è che dire!