Rubrica
Società e processi immateriali

Copyright - Gli articoli si possono diffondere liberamente citandone la fonte e inserendo un link all'articolo

Autore/i

Fabio Sebastiani
Articoli pubblicati
per Proteo (9)

Giornalista di Liberazione

Argomenti correlati

Condizioni di lavoro

Internet

Processi immateriali

Nella stessa rubrica

Per una analisi sistematica dei processi immateriali
Filippo Viola

Cyberissimo
Fabio Sebastiani

 

Tutti gli articoli della rubrica "Società e processi immateriali"(in tutti i numeri di Proteo)


Home
Autori
Rubriche
Parole chiave

 

 

 

Cyberissimo

Fabio Sebastiani

Formato per la stampa
Stampa

Smaltito l’entusiasmo iniziale, svanita la bolla speculativa in Borsa, materializzati i primi licenziamenti di massa - Yahoo ne ha annunciati 3.500 e Cisco diverse migliaia - per Internet e dintorni è venuto il momento del Grande Ripensamento. Stanno saltando tutte le previsioni, naturalmente, specie quelle sullo sviluppo dell’e-commerce, e nessuno è in grado di dire con precisione da quale parte tirerà la Rete nel prossimo futuro. Molti ridimensionano anche lo sviluppo della stessa new-economy, sulla cui accezioni non ci sono più nemmeno opinioni concordi. . Nel suo ultimo libro, “Internet Depression” Michael J. Mandel, redattore economico di “Business Week”, scrive che la crisi dell’universo informatico avrà un disastroso effetto trascinamento su tutta l’economia. Il boom della new economy è destinato a trasformarsi in una recessione.

In termini di occupazione la Net Economy, secondo Nicola Cacace, oggi pesa l’8% in America, il 6% in Europa e il 5% in Italia. Tra dieci anni il lavoro. com sarà il 6,9% del totale. Non si prevede, comunque, che il peso diretto di fornitori ed utilizzatori specifici superi il 10% dell’economia neanche tra 10 anni, “e neanche nelle punte avanzate”. Tassi tutto sommato molto più modesti di quelli favoleggiati negli scorsi anni. Secondo Mandel la crisi <farà sentire il suo impatto più devastante sui lavoratori istruiti, ben pagati, capaci di usare il computer, che si credevano immuni dagli alti e bassi dell’economia. Particolarmente colpita sarà la forza lavoro mobile dei lavoratori temporanei, i consulenti indipendenti, i freelance, i programmatori e i Web designer “in affitto”, che durante il boom della New Economy hanno prosperato>>.

Il 2001, secondo un altro esperto, Giancarlo Radice, ha decretato la crisi dei cosiddetti portali generalisti, tipo CiaoWeb, di proprietà dell’Ifil, la finanziaria della famiglia Agnelli, che nel 2000 ha perso 46 miliardi, e Kataweb che di miliardi ne ha bruciati 100. È la crisi dell’easy Internet, dell’accesso gratis. Le aziende che sono riuscite ad arricchirsi con la miniera d’oro della pubblicità potranno continuare a “viaggiare” verso il modello a pagamento, chi non ce l’ha fatta perirà inesorabilmente. In Italia c’è ancora un po’ di spazio per le web agency, ma durerà poco. Lo dimostra un dato che, manco a dirlo arriva dagli States. “Se fino a gennaio del 2000 negli Usa ogni visitatore di un sito veniva “valorizzato” fino a 6.000 dollari - scrive Claudio Jampiglia sull’ultimo numero di “Guerra e Pace” - dopo la caduta dei titoli tecnologici la valutazione è scesa a 1.500 dollari”. Insomma, se cade il finanziamento della pubblicità cade uno dei pilastri fondamentali che tiene in piedi Internet. Le aziende tenderanno ad offrire altri tipi di servizi più completi e rigorosamente a pagamento e per far questo dovranno sottrarre informazioni da altre fonti “naturali”.

I primi a fare le spese di questa situazione saranno ovviamente quelli che in Internet ci lavorano. Passeranno da una condizione di lavoro duro e salari discreti ad una condizione di disoccupazione o, nel migliore dei casi, lavoro duro e salari da fame. Molti rimpiangeranno la cosiddetta old economy.

Bill Lessard e Steve Baldwin hanno raccolto le storie di vita di questi nuovi proletari in un libro dal titolo “Netslaves, i forzati della rete“ (Fazi Editore, 382, 35mila). Un po’ per esigenze di copione un po’ per demistificare il codice, “imbrigliato da un gergo astruso”, i nomi dei netslavers sono tutti inventati. Lo stile è quello della fiction. Ma quello che raccontano è tutto vero.

Mentre nella vecchia economia si porta avanti la battaglia per le 35 ore, loro pagherebbero oro per lavorarne meno di 60-70 a settimana. Il loro grado di flessibilità è al massimo. Al massimo è il loro livello di sfruttamento. I padroni della rete saccheggiano i siti a suon di miliardi arricchendosi attraverso spericolate operazioni finanziarie e loro sono costretti a “stare al pezzo” anche per tre giorni di seguito, perché “c’è un lavoro urgente da consegnare”. In Internet tutto è urgente. Tutto si gioca sulla competitività. E la competitività è l’urgenza fatta schiavitù. Si lavora di domenica e di notte. La reperibilità totale è la prima regola. Si lavora fino a soffrire di gastrite acuta, mal di fegato, ansia e dissociazione mentale. Si lavora fino a quando il tuo capo, anzi il tuo padrone, ti dice basta e ti licenzia. Questo racconta il libro. E racconta pure che quando il gruzzoletto intascato è finito e le stock option diventano carta straccia si affaccia l’ombra del suicidio. “I giornali sono pieni di biografie di ragazzini che dalla sera alla mattina sono diventati miliardari con Internet - raccontano Lessard e Baldwin - e sono storie vere, come quella di Jerry Yang o Marc Andeesen. Ma le storie di questo tipo sono qualche decina, quelle degli schiavi della rete sono milioni”.

Nel ’95 quando Internet era la grande novità un tassista, un progettista di siti, poteva guadagnare fino a 70 dollari l’ora. Oggi la sua paga non arriva ai 10-15 dollari l’ora, tutto compreso, naturalmente. Eppure sono la “fauna” più numerosa della NetSlavery, più del 50%. Fra i vari fattori che stanno contribuendo a rovinare le tasche dei poveri diavoli della Rete c’è l’esplosione dei programmi “Wysiwyg” (what you see what you get, ciò che vedi è ciò che ti serve) e la riduzione di design a un numero ristretto di operatori-chiavi nelle mani di grandi gruppi pubblicitari, che cercano di mantenere i costi di produzione più bassi possibile e di imporre tariffe sempre più alte a una clientela ancora inesperta e ferma alla logica degli old media.

Internet è nata da un “sogno” militare, e ne ha mantenuto lo stampo. La gerarchizzazione interna è molto alta, la frammentazione dei compiti pure. Ognuno è legato ad un risultato e solo apparentemente c’è un “gioco di squadra”. Dal committente, all’utente, “che ha sempre ragione” - proprio come nella vecchia economia - all’usciere del palazzo dove lavori, ma spesso il “palazzo” è la tua camera da letto, sono tutti tuoi potenziali nemici, pronti a saltarti addosso al primo errore. E poi alla prima ventata di crisi, come sta accadendo da circa un anno negli States, viene tutto azzerato. Eri in “cielo” e cadi in terra, quella vera. C’è un elemento sociologicamente interessante che il libro mette in luce solo in parte. La Net Economy è un fenomeno che per il momento coinvolge, soprattutto, la middle class americana, tenendo fuori per una gran massa di persone. Osservata dal punto di vista della sua crisi sta diventando un vero e proprio tritacarne della conoscenza e della professionalità. Esattamente il contrario di quanto sostengono i propagandisti e i sostenitori della società dell’informazione. Sarebbe uno dei pochi casi nella storia in cui la lotta di classe alligna nei quartieri alti.

Un altro elemento interessante è che l’età del “disincanto” si è abbassata notevolmente. Mentre in Europa soffriamo ancora della sindrome di Peter Pan, questo almeno raccontano i sociologi, in America a 28 anni sei già un rottame. Che fai a quel punto? “Se possiamo azzardare un pronostico - aggiungono gli editori - se i web lavoratori non si daranno una calmata, se continueranno a credere alla favola del programmatore di genio di 22 anni che va avanti a pizza e Coca Cola e lavora per 36 ore filate, ci sarà un sacco di gente malata nei prossimi anni, per giunta senza assistenza sanitaria”. Lessard e Baldwin propongono una ricetta europea. “Se i NetSlaves decideranno di investire nelle loro carriere, se si faranno assumere da aziende con un minimo di stabilità e di rispetto per i dipendenti, se avranno attese realistiche riguardo ai frutti del loro investimento, allora potranno sperare per il meglio>>. Peggio dei web workers stanno gli addetti dei Call center. Secondo una recente indagine dell’Ires Cgil il lavoratore di queste unità è giovane, colto, single, guadagna poco e vive nella maggior parte dei casi ancora in famiglia. I call center rappresentano il settore della new economy che si sta avviando con una velocità maggiore sulla via della sindacalizzazione. Per gli oltre 50mila addetti, infatti, la busta paga non arriva ai due milioni al mese (96,5% dei casi) e per molti di loro (58,7%) il contratto di lavoro è “atipico”. Molto spesso il loro “trattamento” sia economico che normativo è inferiore anche rispetto a quanto contrattualmente stabilito per i loro colleghi “dipendenti”. Le prime piattaforme di lotta, che sono cominciate a spuntare proprio lo scorso anno, rivendicano proprio l’equiparazione dei diritti. È il caso, per esempio, degli addetti ai Call center della Telecom di Bologna. L’età media di chi risponde al telefono per le principali società di telecomunicazioni ma anche di Internet e di customer care è pari a 29 anni. Le donne sono più giovani degli uomini (il 77% ha meno di 30 contro il 60% degli uomini). Il livello di scolarizzazione è abbastanza elevato: oltre l’80% ha un diploma di scuola media superiore e il 17,3% ha una laurea contro una percentuale sul totale degli occupati fino a 34 anni dell’11%. La maggior parte dei lavoratori nei Call center ha un rapporto di lavoro atipico(58,7%), naturalmente. Un terzo degli intervistati ha un contratto da lavoratore non dipendente. Nel settore ci sono gradi di tutela molto diversificati. I lavoratori delle aziende delle telecomunicazioni hanno soprattutto contratti a tempo pieno (61%) e di formazione (21%) mentre quelli in outsourcing - in Italia ce ne sono più di 100 - hanno soprattutto contratti di consulenza (64,3%) e di collaborazione coordinata (21,4%). La retribuzione media è più bassa di un milione e mezzo nel 53,7% dei casi. Il 12,7% degli addetti ai call center guadagna meno di un milione al mese (21,8% dei lavoratori in outsourcing e l’8,5% dei dipendenti delle società) mentre il 41% ha in busta paga tra uno e 1,5 milioni. Il 42,8% ha uno stipendio che varia tra 1,5 e due milioni. Solo il 2,9% guadagna da due a tre milioni. Appena lo 0,6% oltre quattro milioni. A fronte di livelli bassi di reddito comunque ci sono anche orari di lavoro più corti. Gli addetti in outsorcing lavorano nel 51% dei casi con orari tra le 20 e le 29 ore alla settimana mentre il 39% dedica al lavoro tra le 30 e le 39 ore alla settimana. Le donne in media lavorano più degli uomini: il 41,1% occupa più di 40 ore contro il 30,6% degli uomini. Ma il regime degli orari non è certo una “virtù” del sistema, bensì risponde a precise regole di flessibilità. Una, per esempio, consente, utilizzando orari più corti, di non essere obbligati alla pausa per il lavoro al viedeoterminale. La maggior parte degli addetti non è sposata e vive con la famiglia di origine. I bassi livelli di reddito non permettono una vita indipendente. Il 64,5% vive a casa con mamma mente appena l’11,2% ha figli. Il settore, come dicevamo, non è certo immune dal processo di sindacalizzazione. Si tratta di un processo spontaneo, anche in considerazione del fatto che l’impostazione data dalle centrali sindacali confederali risponde non ad una logica di categoria ma al principio della tipologia contrattuale. È una logica che non ha senso nella storia sindacale italiana. È come se i lavoratori attualmente dipendenti venissero distribuiti in base al livello di appartenenza. Prima o poi questa “impostazione” si renderà completamente obsoleta. All’estero la situazione è più o meno la stessa. Ma in quel caso la spinta delle lotte sta producendo alcuni esperienze interessanti. Tra le tante grane del gigante mondiale Microsoft, nel dicembre scorso la società di Bill Gates è stata condannata al pagamento di 97 milioni di dollari ad un insieme di collaboratori che avevano chiesto l’integrazione dei benefici di cui godono gli impiegati. Microsoft da anni, come qualsiasi altra azienda informatica, organizza buona parte della propria forza lavoro attraverso contratti a tempo determinato, società interinali, contratti di collaborazione. Nel 2000 circa un terzo dei lavoratori della sede centrale di Redmond (Washington), erano *permatemps*, cioè lavoratori “permanenti temporanei”, gente che da anni lavora quotidianamente all’interno degli uffici e delle gerarchie aziendali (con sistemi di riconoscimento e accesso in base a cartellini e pass elettronici di colori diversi da quelli degli impiegati “regolari”, in una sorta di apartheid aziendale). I permatemps hanno chiesto otto anni fa l’equiparazione alla copertura previdenziale, assicurativa e ai premi di produttività dei dipendenti e alla fine Microsoft oltre a pagare, è stata costretta a regolarizzare 3mila lavoratori temporanei (irrigidendo le procedure per gli altri 8mila coinvolti). In Francia il sindacato Sud (un sindacato di base indipendente dalle centrali)si è presentato alla sede di Orleans per chiedere la solidarietà dei lavoratori francesi con i loro omologhi Usa. Incassa poche adesioni e la risposta del responsabile della società nel paese che si dichiara “aperto” alla presenza del sindacato. In Germania i risultati sono decisamente migliori, i lavoratori interpellati dalla Ig Medien decidono di indire elezioni per la nomina di un proprio rappresentante sindacale in Amazon per chiedere il recupero degli straordinari e un contratto salariale su base nazionale. È la prima volta nel settore tecnologico che i lavoratori di diversi paesi coordinano le proprie lotte all’interno di una multinazionale, riponendo al centro del dibattito la questione del lavoro, del tempo e del rispetto transnazionaledei diritti dei lavoratori. Se negli Usa l’organizzazione fa i conti con un’assenza di diritti di base dei lavoratori, in Germania la presenza di rappresentanti sindacali nelle società Internet comincia a diffondersi. Sono otto su cinquanta le società quotate al mercato tecnologico che hanno un sindacato all’interno, e tra queste tutte le grandi internazionali ad esclusione di Yahoo. Le adesioni dei lavoratori sono modeste rispetto all’industria, in media il 4%, ma siamo solo all’inizio. In Germania, di fronte alla “novità” del settore, cinque sindacati nazionali hanno unito i loro sforzi in una coalizione unica diretta ai settori delle telecomunicazioni, dell’informatica e nuove tecnologie e dell’industria dei media, dando vita al sindacato Ver. di.

In Italia la situazione è ancora molto complessa. Da una parte il processo di sindacalizzazione è partito dai Call center ma, dall’altra, la difficoltà a reperire manodopera specializzata consente a tanti ragazzi di guadagnare cifre interessanti. Ma durerà poco, è ovvio. Il sindacato, ,intanto, viene bandito dalle web agency e l’alta gerarchia dei ruoli porta il rapporto di lavoro sul modello di quello individuale.

Joram Marino è un giovane di 21 anni. Lavora, contemporaneamente, per una società leader nel settore tlc, per un’agenzia pubblicitaria e per una web tv. Nella sua stanzetta, in una casa di Roma, passa non meno di quindici ore al giorno. Il suo mestiere è web manager. È un po’ come dire il direttore di un giornale. Progetta, allestisce e consegna siti web “chiavi in mano”. Quando riceve l’incarico dall’editore-cliente cerca di mettere insieme una squadra di quindici persone che nel giro di un mese, due al massimo, devono essere in grado di portare a termine il compito. Finito il lavoro, finito l’impiego. Tutti a caccia di un altro cliente. Per “gestire” il sito occorreranno al massimo, e mai continuativamente, un paio di persone. Di ragazzi come Joram è pieno il mondo, ma in Italia ancora scarseggiano. È per questo che l’enfant prodige, a differenza dei suoi “collaboratori”, riesce a guadagnare la favolosa cifra di 200mila lire l’ora. È un caso limite, certo. Tuttavia, per figure così specializzate il momento è ancora molto buono. Fanno una vita d’inferno, però. Se non vogliono perdere il cliente devono rendersi reperibili 24 ore su 24 e quando c’è bisogno arrivano a lavorare anche 36 ore di fila, come i loro collaboratori. Questi ultimi non guadagnano mai più di un paio di milioni al mese e non hanno un orario di lavoro ben definito. Lavorano in team, e ciò significa che fino a quando c’è uno della “squadra” che resiste gli altri non sono autorizzati a mollare. Lavorano insieme, quindi. E vivono anche insieme. Come accade alla E. tree di Treviso, una azienda informatica che cura i portali di imprese come Benetton, Bnl e Sole 24 ore. In pratica non hanno una vita sociale perché tutto si svolge in azienda: dal tempo libero al riposo. Il motto della E-tree è “the not sleeping company”. È talmente “not sleeping” che i letti, rigorosamente a castello, come nelle caserme, sono installati direttamente sul posto di lavoro. “Anche per pranzo e cena si utilizza la cucina interna, ma molto spesso si usa solo il forno a microonde. In ogni caso il tavolo da pranzo è la scrivania”. Carlo (il nome è fittizio) è uno dei tanti ventiquattrenni attratti dal mito del “problem solving”, del risolvere i problemi “degli altri”. Il team non conosce riposi e il concetto di orario straordinario è del tutto sconosciuto. “Ma c’è una specie di scambio di straordinari - racconta Carlo
 contro un premio di produzione di sei mensilità al raggiungimento del budget annuale prefissato. Chiaramente il premio di produzione lo ricevi solo se fai straordinari a manetta”. Anche alla Tiscali di Renato Soru si lavora in team. Alla Tiscali, come alla E-tree, del resto, buona parte dello “stipendio” arriva attraverso le stock option. Vengono pagati con questa formula addirittura quelli del gradino più basso, gli addetti al Call center. Una vera e propria rapina, insomma. Lo stock option è un certificato, rilasciato dall’azienda, che ti consente di acquistare le azioni della propria azienda ad un prezzo bloccato. Ti può dire male o ti può dire bene. Ignazio Dessì, responsabile delle risorse umane di Tiscali, vanta questa lotteria come il tratto più innovativo nella politica retributiva dell’azienda. Un vero genio. “Riteniamo questo aspetto centrale - dice - perché fa partecipare il dipendente all’azienda e crea una reciprocità di giudizi”. Un’altra genialata è stata l’abolizione del sindacato. Su questo punto, però, Dessì è molto diplomatico. “I lavoratori non ne hanno sentito l’esigenza. Contrariamente a quello che accade nella stragrande maggioranza delle altre aziende informatiche alla Tiscali il personale, esclusi i “dannati” dei Call center, è tutto assunto a tempo indeterminato. Ma non manca certo l’appalto esterno di intere fasi di lavorazione. La retribuzione dei dipendenti non viene stabilita dal contratto nazionale di categoria o dall’integrativo che, infatti, nelle aziende più recenti non esiste, ma dal mercato e dalla trattativa individuale con il datore di lavoro. Tanto è vero che una delle domande su cui c’è più reticenza da parte delle aziende è quella che riguarda le politiche salariali. Si sa soltanto che la parte variabile della retribuzione può oscillare tra il 25 e il 50%. La congiuntura, per il momento, gioca a favore dei professionals, ma il futuro è pieno di incertezze. Cosa accadrà quando il loro numero aumenterà. Cosa accadrà quando anche da noi comincerà a farsi sentire l’onda lunga della crisi americana della Net-Economy?