
I lavoratori interinali (nel 2002 rappresentano circa il 5%
dei lavoratori atipici) sono di solito giovani, in quanto risulta da dati del
Ministero del Lavoro che il 30,7% è al di sotto dei 25 anni e il 30,8% ha un’età
compresa tra i 25 e i 29 anni. (Cfr. Tav. 1) [1]. Sempre fra i lavoratori atipici vanno considerati gli
LSU (al 2002 sono l’1,7% degli atipici), i contratti a tempo determinato (il
18,7% degli atipici) e i PIP (Piani di Inserimento Professionale, che sono circa
lo 0,3% degli atipici).
La presenza di tutte queste nuove forme di lavoro non si è
accompagnata alla determinazione di nuove risorse economiche e nuovi
investimenti produttivi tendenti a diminuire la disoccupazione né tanto meno a
una nuova politica di welfare, in grado di assicurare adeguate coperture a tutti
i lavoratori caratterizzati da lavoro discontinuo, precario e che si trovano
quindi in una situazione di estremo disagio e di incertezza.
L’ISTAT nel rapporto per l’anno 2002 registra una
crescita dell’occupazione (1996-2002 crescita media annua +1,2%) con un
aumento maggiore del lavoro standard (+2,4%, a fronte del 2,1% del quinquennio
precedente) ed una sostanziale stabilità dell’occupazione atipica (+2,1%).
Per quanto riguarda invece la disoccupazione, a fronte di un tasso medio nell’UE
del 7,4%, nel nostro Paese si è registrato un valore pari al 9,6% con valori
molto più alti per le donne (13,1%). Sempre nel rapporto ISTAT si legge che i
lavoratori “atipici”, arrivano a circa 5 milioni.
Sorprendenti i dati sugli interinali: a parte la crescita
esponenziale delle missioni (+230% dal ‘99 al 2001), risulta che il 50% di
loro lavora meno di 26 giorni all’anno, mentre il 7% un solo giorno. È
cresciuto anche il ricorso al lavoro irregolare: dell’8,9% dal 1995 al 2000,
attestandosi a un tasso del 15%. La regione dove il lavoro è più “pulito”
risulta l’Emilia Romagna, quella con la percentuale più alta di irregolari la
Calabria.

L’ultima rilevazione trimestrale Istat, riferita al periodo
gennaio 2003, evidenzia un marcato rallentamento della crescita dell’occupazione
nella seconda parte del 2002, e persino una riduzione per il Mezzogiorno.
Va rilevato, inoltre, che in aggiunta all’aumento del
lavoro atipico si è avuto un mutamento nella combinazione demografica della
disoccupazione in quanto negli anni tra il 1993 ed il 2002 i lavoratori adulti,
ossia quelli con oltre 30 anni, in cerca di occupazione sono aumentati dal 34,7%
al 49, 5%, mentre i lavoratori tra i 30 ed i 39 anni in cerca di occupazione
sono aumentati dal 19,5% al 27,4%. Le maggiori difficoltà sono oggi incontrate
da persone adulte che spesso si trovano in fasi di discontinuità lavorativa.
In sostanza, se si analizza l’evoluzione del lavoro atipico
si può sostenere che dopo l’introduzione del Pacchetto Treu vi sia stato un
periodo di utilizzo “entusiastico” di tali forme di occupazione da parte
delle imprese che però hanno poi restaurato un cosiddetto equilibrio
fisiologico tra forme di lavoro tipiche ed atipiche.
Comunque il nostro Paese si attesta su valori alti rispetto a
quelli degli altri paesi europei per quanto riguarda l’occupazione temporanea
(Italia 10,1%, Danimarca 10,2%, il Regno Unito 6,7%, l’Irlanda 4,7%, l’Austria
7,9% e Belgio 9,0%). Il lavoro part-time risulta invece essere più basso
rispetto alla media europea (Italia 8,8% e 18% media europea) [2]. Va inoltre evidenziato che in Italia ci sono quasi 2
milioni di lavoratori “parasubordinati” e quasi cinque milioni di
irregolari.
Si pensi inoltre che i circa 6 milioni di lavoratori atipici,
che rappresentano al 2002 circa il 27% del totale occupati, sono destinati ad
aumentare; infatti le previsioni parlano per fine 2003 di oltre il 30% degli
occupati (nel 2002 non erano neppure il 20%). Inoltre il lavoro atipico comporta
i più alti rischi di incidenti e di malattie professionali e il tasso di
mortalità e di infortuni sul lavoro dei lavoratori temporanei è almeno tre
volte più alto di quello dei lavoratori stabili e permanenti.
Alcune considerazioni: lavoro atipico, vita precaria!
Oggi la disoccupazione è accompagnata da una precarizzazione
con sfruttamento crescente dei salariati che restano in attività. Il padronato
fa del tempo di lavoro un elemento essenziale del supersfruttamento dei salari e
della ridefinizione della società a partire dall’impresa, con la sua
centralità anche nel vivere sociale.
I giovani, le donne, i dipendenti con mansioni meno
specialistiche sono i più duramente colpiti. La riduzione dei posti di lavoro
comincia a pari passo con lo sviluppo tecnologico il quale apporta plusvalore,
sempre maggiore, che viene accaparrato dalle rendite finanziarie e comunque con
incrementi di produttività che vanno solo a profitto e che non vengono
redistribuiti in alcun modo al fattore lavoro.
Anche se si analizza il settore del lavoro regolamentato
(quindi con una significativa presenza sindacale) ci si accorge che poi in
realtà la differenza tra orario contrattuale e orario di fatto è molto
aumentata, grande è la differenza fra diritti disciplinati per legge e diritti
applicati realmente . La precarietà del diritto è una norma, così come la
precarietà del salario e delle condizioni di lavoro.
Molti studi attuati sia in Europa sia negli Stati Uniti hanno
evidenziato come negli ultimi decenni il problema delle “Nuove povertà” sia
da imputarsi non tanto e non solo a coloro che non dispongono di un reddito o di
un lavoro regolare e regolamentato ma anche e soprattutto a coloro che pur
lavorando non riescono ad avere certezze dei diritti e a raggiungere una soglia
minima di reddito in grado di garantire loro un adeguato livello di vita.
Anche per quanto riguarda la disoccupazione giovanile sono
molti i “Rapporti di studio” che evidenziano la grave carenza di lavoro per
i giovani e cosa ancora peggiore il prolungamento del periodo di precarietà
fino ad oltre i 30 anni.
Da queste analisi emerge che ci troviamo in una fase di
transizione ancora in via di definizione ma che presenta comunque dei connotati
ben chiari all’interno della competizione globale. Si ha un aumento della produzione
dei servizi su quella dei beni materiali, ma ciò avviene soprattutto con
processi di esternalizzazione dei servizi e di fasi del processo produttivo a
basso valore aggiunto basati su un supersfruttamento del lavoro. Un lavoro
spesso attinto attraverso processi di delocalizzazione internazionali alla
ricerca di forme di lavoro a scarso contenuto di diritti e a bassissimo salario;
a ciò si accompagnata una forte presenza di lavori intellettuali e tecnico
professionali spesso precarizzati come quelli manuali e ripetitivi.
Le trasformazioni strutturali che stanno caratterizzando il
sistema socio-economico sono anche, e forse soprattutto, trasformazioni nell’essere
e nell’interagire dei nuovi soggetti produttivi e sociali in genere, e ciò non
è possibile leggerlo e interpretarlo solo attraverso analisi ancora basate
sulla centralità operaia e di fabbrica e su un ruolo dello Stato ormai superato.
Tali processi di trasformazione sono molto spesso ignorati, i nuovi soggetti
economici non sono protetti, molto frequentemente neppure considerati, perché
è predominante la cultura delle compatibilità industriale.
Un nuovo ciclo del capitalismo, un nuovo modello che a fianco
all’espulsione di manodopera, alla disoccupazione che si fa strutturale, alla
disoccupazione invisibile, al lavoro sommerso, nero e sottopagato, alla
precarizzazione e flessibilità, crea nel contempo gli ammortizzatori del
conflitto sociale attraverso le alte retribuzioni agli operai specializzati,
sviluppa una aristocrazia salariata che si fa compartecipe e soggetto
cogestionale. Si vengono così a realizzare false forme di democrazia economica
e industriale attraverso meccanismi controllati e funzionali di cogestione,
creando in modo funzionale al nuovo assetto produttivo il mito del “fai da te”,
dell’autoimprenditorialità che altro non è che nuova forma del lavoro
salariato.
Si giunge così a meglio comprendere perché gli assetti
attuali dell’economia capitalista determinano il riposizionamento sociale di
impresa in una fase di profonda ristrutturazione per effetto del quale si riduce
e non aumenta, come da una lettura superficiale potrebbe sembrare, la misura del
tessuto reale imprenditoriale, anzi aumentano le diverse forme del lavoro
salariato, palesi o occulte, si selezionano i soggetti più deboli, meno
funzionali e compatibili, e meno consolidati, si ridisegnano i modelli
relazionali sociali tra le aziende e il territorio con un tendenziale rafforzamento
delle logiche di darwinismo sociale. In tale contesto si osserva una
prevalenza delle scelte tipiche del capitalismo selvaggio dove chi non si
integra è espulso, è schiacciato dalle leggi ferree di un mercato sempre più
selettivo.
Non si tratta quindi di un semplice processo di
deindustrializzazione ma di una trasformazione della società che crea nuovi
bisogni, di una diversa concezione della qualità dello sviluppo, della nascita
di nuove attività, la maggior parte delle quali a carattere terziario e
precario. Nuove attività produttive che generano, e forzano nello stesso
tempo, nuovi meccanismi di crescita, di organizzazione della società e di
accumulazione del capitale.
L’attuale questione economico-sociale del lavoro non è
solamente connessa alla disoccupazione sempre più a carattere strutturale,
bensì riguarda una serie di problemi di carattere quanti/qualitativo e quindi
delle nuove figure del lavoro, del lavoro negato e del non lavoro, figure
comunque tutte interne a sempre lo stesso modo di produzione capitalistico. Il
problema lavoro esiste ormai anche per coloro che ne possiedono uno, dato che si
lavora sempre di più ed in condizioni sempre più precarie, non tutelate, con
salario sociale assoluto, e anche relativo al singolo lavoratore, sempre minore
e con alti livelli di mobilità e intermittenza.
Siamo oggi davanti a una molteplicità di prestazioni
lavorative tra loro diverse che però si caratterizzano per un comune livello di
sfruttamento molto più penetrante di quello di venti o trenta anni fa; la nuova
divisione del lavoro fa sì che vi sia una nuova composizione dei lavoratori
stessi distinti tra specializzati e con maggiore conoscenza (che occupano lavori
con elevata attività cognitiva), lavoratori specializzati in attività tecniche
(che occupano posti flessibili di tipo esecutivo) e infine lavoratori con poche
specializzazioni che occupano i posti più degradanti e servili.
Tuttavia, le tendenze attuali, con l’aumento del numero dei
lavoratori salariati impegnati al di fuori della produzione materiale
propriamente detta, l’aumento del numero degli impiegati, dei flessibili, dei
precari, dei temporanei, degli atipici in genere, l’incremento del tasso del
lavoro intellettuale, o del finto lavoratore autonomo, nella composizione dell’
“operaio collettivo”, sono ben lungi da testimoniare la “deproletarizzazione”
della classe operaia, o della classe lavoratrice in genere.
L’analisi va, quindi, riportata sul piano delle nuove
relazioni industriali. Si individuano così i caratteri strutturali dei sistemi
produttivi locali basati sul lavoro specializzato; sull’intensificazione dei
ritmi, sull’elevata divisione del lavoro, sulla spinta alla specializzazione
produttiva; sulla molteplicità dei soggetti economici, di nuovi soggetti del
mondo del lavoro; sulla diffusa professionalità dei lavoratori accompagnata,
per i lavori più miseri, da commesse esterne con forte componente di
lavoro nero e sottopagato; sulla diffusione dei rapporti faccia a faccia
senza intermediazioni sindacali.
Le trasformazioni strutturali che stanno caratterizzando il
sistema socio-economico sono soprattutto trasformazioni che nascono dalla
continua interazione del nuovo terziario postfordista con il resto del sistema
produttivo, con tutto il territorio proprio perché si tratta di trasformazioni
nate dall’esigenza di ridefinizione produttiva e sociale del capitale. Per
poter essere lette sono pertanto necessarie analisi fortemente disaggregate
della distribuzione localizzativa delle attività da confrontare con una lettura
territoriale, più squisitamente sociale e politico-economica. Le nuove figure
del mercato del lavoro, i nuovi fenomeni imprenditoriali sempre più spesso si
configurano in forme occulte comunque di lavoro salariato, lavoro
subordinato, precarizzato, non garantito, di lavoro autonomo di ultima
generazione che maschera la cruda realtà dell’espulsione dal ciclo
produttivo; si tratta di nuova emarginazione sociale altro che
autoimprenditorialità!
Nonostante vi siano state trasformazioni nei metodi di
produzione, la crescita del lavoro autonomo, precario, sottopagato, e una sempre
più vasta diffusione della fabbrica nel territorio, il lavoro continua ad
essere al centro del sistema produttivo ed è quindi ancora e sempre alla classe
lavoratrice che bisogna rivolgere l’attenzione per poter cercare di attuare
“un altro mondo possibile!”.
[1] Cfr. Ministero del Lavoro e delle
Politiche... op. cit.
[2] Eurostat, Labour
Force Survey, 2000