Roma, 25 gennaio 2001 - Convegno Ambiente e Lavoro
E’ stato giustamente sottolineato come sotto diversi profili sia oggi importante favorire l’incontro o, meglio, il reincontro tra forze di provenienza culturale diversa quali quelle che ispirano la loro critica al capitalismo al tipo di rapporto che esso ha con la natura e l’ambiente (si è parlato di contraddizione ambientale) e quelle che ispirano la loro critica alla subordinazione del lavoro vivo al lavoro morto accumulato e cioè al capitale.
Ho parlato di reincontro - la mia premessa teorica sarà brevissima - perché storicamente all’origine della critica socialista all’attuale modello di produzione in realtà le due contraddizioni che sono alla base delle battaglie dei due movimenti, quello operaio e quello ambientalista, erano unite o meglio venivano fatte derivare dallo stesso processo di separazione: la separazione tra valore d’uso e valore di scambio. Questo è il punto di partenza di tutta la critica marxiana, punto troppo spesso dimenticato non solo da coloro che aderiscono al pensiero unico del liberismo privo di regole, ma anche, purtroppo, da coloro che continuano a ritenere che Marx faccia parte come Smith, Ricardo o Sen della cultura economica mondiale. Ricorderò solo che Marx prima di parlare di lavoratore ha parlato di persona umana e del rapporto della persona umana con la natura. Recuperare queste verità elementari può aiutare a rafforzare convergenze che sono tornate a manifestarsi nel 1968 per andare al di là di incontri puramente elettorali e recuperare, con le revisioni e gli aggiornamenti necessari, quel discorso strategico la cui assenza pesa gravemente sull’impegno politico e sullo stesso interesse per le elezioni.
Dicevo che la separazione tra valore d’uso delle merci e valore di scambio è all’origine di entrambe le nostre posizioni critiche all’attuale modello di produzione.
È intuitivo infatti che se separiamo il valore d’uso dal valore di scambio e adottiamo il valore di scambio come unica misura di tutte le cose e unico nostro obiettivo diventa quello di accaparrarcene il più possibile, diventa da una parte ovvio mettere in atto in fabbrica e nelle sue dipendenze sempre più articolate tutte le misure possibili per sfruttare il lavoro di altri uomini al più basso costo - ora utilizzando il lavoro infantile ora, con più eleganza, elevando la flessibilità del lavoro a misura di progresso - e diventa altrettanto naturale costringere animali erbivori a mangiare polveri di animali morti o utilizzare lo stesso sylos - si spende di meno - per conservare foraggio naturale e miscele di ossa o di soia transgenica. Una cosa è scegliere in base al valore d’uso: in questo caso farò tutto il possibile per nutrire le persone con carne non infetta o il neonato con i cibi che la scienza dimostra più adatti. Altra cosa è scegliere solo in base al valore di scambio: a questo punto la salute del neonato scompare - almeno nella misura necessaria per evitare l’accusa penale di infanticidio - e fabbricherò omogeneizzati con tutti gli scarti della carne o del pesce investendo nella loro produzione meno di quello che spenderò nella pubblicità televisiva volta ad imporre al mercato i miei prodotti.
La prova più clamorosa dell’incapacità della stessa sinistra a propagandare queste semplici verità e ad incontrarsi sulla base di essi con il robusto ceppo dei Verdi è che non solo la destra e gli apologeti dichiarati del sistema chiamano costi quelli che dovrebbero essere invece considerati gli investimenti più importanti per lo sviluppo, ma che un tale capovolgimento di termini - operato quotidianamente da tutti gli organismi internazionali sia quelli dominati dagli Stati Uniti, come il FMI e la Banca Mondiale, sia quelli della costruenda Europa - è di fatto accettato e sottoscritto da quasi tutta la sinistra. Certo quando ci vengono suggeriti e imposti tagli troppo grossi di quei cosiddetti “costi” allora i cattolici chiedono eccezioni per i bisognosi e i labursocialisti si ricordano a volte di aver lottato per il Welfare State . Ma l’idea che la prevenzione sanitaria, in tutti i suoi aspetti, fino all’efficienza del lavoro dei veterinari, sia un costo; che la istituzione di parchi verdi sia un costo; che la forestazione sia un costo; che la permanenza della famiglia contadina sulle colline e sulle montagne sia un costo invece che un investimento per impedire il dissesto idrogeologico, condiziona il nostro linguaggio, negli stessi giorni in cui immani disastri creati dalla desertificazione o dall’uso di navi cisterna che andrebbero smantellate perché non più corrispondenti ad un loro corretto uso distruggono, insieme alla natura, fondi di bilancio che potrebbero avere ben più normale ed utile destinazione.
Dobbiamo tutti insieme tornare a lottare - partiti dei lavoratori, sindacati, movimenti ambientalisti, Verdi, - per capovolgere questo modo di affrontare i problemi e opporci al tentativo, per ora vittorioso, di far apparire naturale, fin dai vocaboli che adopriamo, quella che è una degenerazione dell’economia e della lingua.
Il momento è favorevole. Non ostante la vittoria di Bush la gente sta duramente pagando dagli Stati Uniti al Giappone la menzogna liberista che i fondi di investimento sono più redditizi della previdenza pubblica e dobbiamo sapere aiutare gli elettori a leggere i rendiconti di banca del 2000. Così come dobbiamo aiutarla a capire che il bombardamento con l’uranio depleto sull’Iraq e sulla Jugoslavia non sono il frutto di un errore. O aiutarla a individuare i grossi interessi che hanno portato in Italia a privilegiare il trasporto su strada anziché quello ferroviario e quello sulle rotte marine. Per evitare di parlare solo in termini generici la mia Associazione ha in questi giorni rilanciato un progetto di porta container via mare partendo dall’Asse Gioia Tauro - Milazzo verso il Nord che inutilmente avevamo donato nel 1999 alle regioni Calabria e Sicilia.
Per finire mi sia concessa una citazione dell’economista Anatole Kaletsky (da non confondere con Michal Kalecki) consulente della Banca mondiale i cui consigli fanno intendere più chiaramente di quanto possa dire io quale futuro ci attenda in Europa se tutti insieme, uniti, non riusciamo a sterzare.
Dopo aver rilevato che con l’allargamento ai paesi dell’Est l’Unione Europea aumenterà il suo mercato di 105 milioni di potenziali consumatori e di vari milioni di lavoratori a basso costo che avranno - cito testualmente - “un effetto dirompente sul modello di solidarietà sociale dominante nell’Unione Europea“ e dopo aver di passaggio ricordato che l’agricoltura a basso costo dell’Est spazzerà via l’agricoltura occidentale, Kaletsky ammonisce: nel rapporto redatto per la Banca mondiale nel 1996 (cap. 4). “Forse il pericolo più serio del processo di allargamento potrebbe derivare da un desiderio dell’UE di imporre ai paesi candidati un insieme di vincoli sociali e monetari prematuri per il loro stadio di sviluppo economico e che quindi lo rallenterebbero. Tali vincoli - per esempio sulla flessibilità del mercato del lavoro, sulle norme sanitarie e sull’impatto ambientale - sarebbero presentati come simboli della maturità dei PECO (questa sigla indica i dieci paesi dell’Europa centrale e orientale che hanno già chiesto formalmente l’adesione all’UE). In realtà, invece avrebbero l’effetto di minare la competitività dell’Europa orientale, di diminuire il flusso di capitali nella regione e di prolungare la vita delle strutture ad alto costo dell’Occidente”.
Come vedete gli economisti della Banca mondiale, questi cardinali del capitalismo selvaggio, hanno idee strategiche molto chiare e non fanno distinzioni tra i “costi” (ecco l’orribile termine che torna!) della difesa sanitaria e ambientale e quelli di un mercato del lavoro socialmente regolato. Cerchiamo anche noi di non fare distinzioni nella nostra battaglia.