I sansimoniani della comunicazione

Sergio Cararo

Il modo di produzione capitalistico invade tutte le sfere della vita sociale. In questa invasione la comunicazione assume un ruolo sempre più rilevante ma anche deviante come sostengono Martufi e Vasapollo nel loro più recente lavoro. È un territorio teorico, politico e sociale su cui occorre mettere le mani con rigore ma respingendo la fascinazione del soggettivismo.

“ Saint-Simon e la sua opera sono stati rivendicati dalle più diverse correnti di pensiero. I tecnocrati di ieri e di oggi si richiamano a lui... Ci si è chiesti a ragione se Saint-Simon meritasse di avere il suo ritratto nella galleria degli antenati del socialismo. Le contraddizioni del suo industrialismo ne ipotecano la sua eredità... Per cui è facile capire come, pur non cessando di essere sansimoniani, alcuni dei suoi discepoli si ritrovarono, qualche anno più tardi, alla testa di grandi aziende capitalistiche”. (Francois Bedarida in: “La storia del socialismo”, Editori Riuniti p. 409).

 

Le forze produttive stanno conoscendo nel mercato mondiale uno sviluppo impetuoso. Su questo nessuno sembra nutrire ragionevoli dubbi. Resta aperto il problema non certo irrilevante dei rapporti di produzione che rinviano e rilanciano la contraddizione fondamentale tra Capitale e Lavoro.

Riaffermare questa tesi nell’epoca incerta della “globalizzazione”, della new economy o della clonazione possibile può apparire superfluo, ma il recente libro La Comunicazione deviante Rita Martufi e Luciano Vasapollo ha il pregio di misurarsi su un terreno inesplorato e maturo come quello “dell’impero del capitale sulla comunicazione” senza perdere un paradigma marxista di analisi che oggi resta straordinariamente ricco ed attuale per comprendere i processi in atto.

Tra l’altro, il libro produce una singolare capacità di recupero e documentazione sul dibattito della materia che consente al lettore attento e non superficiale di avere a disposizione punti di vista e analisi non sempre coincidenti con quella degli autori.

La contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione resta alla base di quella che la prefazione di Alessandro Mazzone definisce una “invasione” e che ha lo “scopo sovraordinato e irresistibile” di subordinare al capitale tutte le attività di una comunità umana “agendo non sugli individui ma dentro di essi.

Il punto di osservazione di Martufi e Vasapollo sulla comunicazione deviante è assai efficace.Il libro parte infatti da alcuni lavori di ricerca sulle moderne scienze aziendali ed è dunque dall’interno della logica d’impresa che vengono valutate le opportunità offerte dall’estrema socializzazione della produzione capitalista.

Il capitalismo e il socialismo affidavano le sorti dell’umanità e della reciproca vittoria all’estensione delle ferrovie o della elettrificazione. Nel contesto storico-economico dell’ottocento ciò era fondamentale e lungimirante per la valorizzazione della produzione e della circolazione delle merci.

Oggi che la produttività ha raggiunto livelli elevati, la produzione di merci è ormai abbondatemente diffusa e integrata a livello mondiale e socializzata nei punti forti del capitalismo avanzato, assumono un ruolo rilevante e crescente le risorse immateriali che proprio nella comunicazione trovano il loro punto di massima valorizzazione del capitale. La finanziarizzazione dell’economia è il simbolo più evidente di questa gerarchia dell’accumulazione capitalistica.

In tale contesto, la fabbrica sociale generalizzata - categoria efficace per definire la moderna impresa capitalista- assume in se il massimo di decentramento produttivo e di centralizzazione del comando.

La rete di piccole, medie o anche grandi imprese che distribuiscono nel mondo la produzione di merci, trovano nel cuore della filiera produttiva il massimo di concentrazione di informazioni, ordini, dati, comandi.

In questo senso parlare di postfordismo può rivelarsi imprudente se al quadro internazionale sovrapponiamo tout court solo il ristretto club dei paesi a capitalismo avanzato.

Nella attuale fase di sviluppo capitalistico convivono infatti fattori vecchi e nuovi. L’organizzazione flessibile del lavoro distribuisce nella filiera mondiale del lavoro sia l’organizzazione fordista o addirittura schiavista della produzione sia la sussunzione reale del lavoro al capitale attraverso le nuove tecnologie.

Ma se la categoria di fabbrica sociale generalizzata è corretta, non si può più trascurare il ruolo strategico della comunicazione che ha l’esatta funzione di invadere il territorio umano e sociale con la logica d’impresa, rendendola così dominante - e di conseguenza deviante, rispetto alla ricchezza di relazioni sociali e ambizioni idividuali/collettive proprie di una società non capitalista.

Giustamente Vasapollo e Martufi rompono uno dei miti dell’epoca di Internet, quando sostengono che spesso disponiamo di informazioni ma non di dati. Le prime sono dei dati che qualcuno ha già analizzato, elaborato e ripulito, i secondi richiedono invece una elaborazione propria che può portare a valutazioni e dunque informazioni assai diverse.

Un caso eclatante è quello del “rito” della relazione annuale della Banca d’Italia. Tutti i mezzi di informazione divulgano e commentano le considerazioni del governatore ma pochissimi sanno, maneggiano o si confrontano sui dati contenuti nei due libri azzurri che sono la vera fotografia sulla situazione economica del paese.

Nel caso di Internet la cosa è ancora più clamorosa. Facendo girare i motori di ricerca si viene in possesso di quantità notevoli di informazioni gratuite ma di pochissimi dati (molto spesso questi vanno profumatamente pagati) il che è però sufficiente per assegnare alle reti telematiche un ruolo di anticipatore del “regno della libertà”.

In questo senso gli autori fanno bene a entrare in conflitto con l’ultra-soggettivismo di cui mostrano di essere rimasti prigionieri molti intellettuali ex-operaisti (da Bifo alla redazione della rivista Derive e Approdi per intenderci).

È capitato che quest’area, talvolta ricca di suggestioni anche interessanti e non banali, abbia rinnovato il vizio di assolutizzare una tendenza cercando di trasformarla in un nuovo paradigma della trasformazione sociale. Ma la suggestione di una ipotesi di ricerca e analisi - per quanto appassionante - non può non misurarsi con le controtendenze, le variabili e la costante di un potere che si regge ancora sui rapporti di produzione.

“Vi è stata una tendenza, rafforzata dalla crescita del settore dei servizi e dall’allargamento della “massa culturale”, ad accrescere le disuguaglianze del reddito, forse presagio della nascita di una nuova aristrocrazia del lavoro e di una sottoclasse mal remunerata ed impotente” sostiene David Harvey in un suo interessatissimo lavoro troppo poco noto nel nostro paese (“La crisi della modernità”, 1990).

Non c’è alcunchè di nuovo nel fatto che in questa fase dello sviluppo capitalistico, nei paesi più avanzati crescano i lavoratori addetti alla circolazione del capitale piuttosto che quelli addetti alla produzione.

Da anni infatti i lavoratori occupati e il valore aggiunto prodotto dai servizi sono quasi il doppio di quelli dell’industria.Il boom più significativo è stato proprio nel settore dei trasporti e comunicazione.

Questo dato però, non coincide affatto con le tesi sulla scomparsa della classe operaia, semmai appare più logico parlare di redistribuzione della classe operaia a livello internazionale come conseguenza della mondializzazione produttiva delle filiere.

Nella divisione del lavoro,al decentramento delle produzioni a basso e bassissimo valore aggiunto nelle periferie industriali (Europa dell’Est, Asia, Maghreb, America latina) corrisponde la concentrazioni nei poli sviluppati delle fasi che creano maggior valore.

Ma questa “concentrazione” per valorizzarsi ha un bisogno estremo di socializzarsi, di invadere la società e di trasformarsi appunto in fabbrica sociale generalizzata.

In questo senso Martufi e Vasapollo ricorrono correttamente alla categoria di accumulazione flessibile per descrivere il processo dialettica tra concentrazione e socializzazione.

Una accumulazione flessibile che - come sostiene David Harvey
 deve essere considerata come “una combinazione particolare e forse nuova di elementi prevalentemente vecchi all’interno della logica complessiva dell’accumulazione di capitale”.

In questa combinazione nuova di elementi “vecchi” il fattore fondamentale della nuova composizione organica del capitale è diventato il “capitale umano”.Le nuove tecnologie e la socializzazione della produzione hanno l’esplicito compito di sussumere al capitale stesso il fattore umano durante una giornata lavorativa sociale che è ormai difficile separare in tempo di lavoro e tempo dedicato alle relazioni sociali e alla riproduzione.

Possiamo sperimentare direttamente sulla nostra pelle come anche una attività ricreativa come il guardare un film o una partita contribuisca alla valorizzazione del capitale. Che si vada al cinema o allo stadio pagando il biglietto, che si noleggi una cassetta o che li si guardi in televisione pagando il dazio delle interruzioni pubblicitarie, sembra non esserci scampo.

Il feticismo del mezzo (la televisione comunque accesa come presunzione di libertà e svago) ha liquidato abbonantemente la qualità o l’importanza del contenuto (il film, la partita etc.).

Ma la comunicazione deviante colpisce ancora più in profondità del ticket impostoci dalla commercializzazione delle attività ricreative.

Per il capitale è fondamentale che la logica d’impresa pervada ogni momento della vita sociale fino a renderla l’unico orizzonte sociale ed etico possibile. In questo la funzione degli “agenti istituzionali” si rivela decisiva per quello che Martufi e Vasapollo definiscono il “totalitarismo comunicazionale”.

In questo senso appare fuorviante la tesi di autori come Berardi secondo cui le reti informatiche consentendo il massimo delle potenzialità mentali siano il nuovo orizzonte della autonomia della classe dal capitale.

C’è un qualcosa di “sansimoniano” in questa tesi.C’è la fascinazione di un processo e dei suoi strumenti (per i seguaci di Saint Simon furono l’industria e i suoi primi macchinari) che rischia di diventare un fattore assoluto capace di cooptare gli “antagonisti” perchè in fondo il capitale sa utilizzare la comunicazione molto meglio dei suoi oppositori. Come è noto infatti, i sansimoniani dopo essere stati “rivoluzionari” diventarono spregiudicati dirigenti industriali.

Il lavoro mentale può diventare libertà solo sganciato dalla schiavitù del bisogno e del lavoro subordinato cioè liberato dai rapporti di produzione di tipo capitalistico.

Il popolo delle nuove partite IVA infatti,più che godere della libertà del possesso dei propri strumenti di produzione mentali o materiali, sembra essersi piegato alla realtà del cottimismo moderno che ha esteso enormemente la giornata lavorativa e il tasso di autosfruttamento. La comunicazione deviante proprio in questo caso rivela la sua capacità di estensione e controllo.

Nell’impero del capitale sulla comunicazione non si è mai liberi se non quando si lotta apertamente contro di esso negandogli, almeno, “la nostra anima”.

A questa resistenza politica, sociale, etica ed umana invitano gli autori nelle conclusioni di un libro affatto semplice perchè ci porta su un territorio politico inesplorato ed in cui la bussola fornita dal “vecchio Marx” si rivela ancora efficace.