La crisi in prospettiva

JOAQUIN ARRIOLA

1. Il fallimento del Keynesismo di sinistra

La crisi economica nei paesi capitalisti avanzati è senza dubbio una delle più profonde nella storia del Capitalismo. Anche se ha avuto origine a Wall Street e nelle pratiche speculative delle grandi banche, bisogna accertare se è una crisi finanziaria “normale” perché, come si può vedere nel grafico di accompagnamento, durante le crisi finanziarie, di solito, non si interrompe l’accumulazione del capitale globale. Solo durante la crisi strutturale degli anni Trenta e durante le Guerre Mondiali, il capitale è diminuito sensibilmente.

Crisi finanziarie e crescita dell’economia mondiale 1870-2008

FMI: World Economic Outloook, octubre 2009

Al momento c’è una tendenza di lungo periodo di stagnazione delle economie più sviluppate, con un trasferimento della posizione delle zone di concentrazione di ricchezza. La globalizzazione è un processo di spostamento territoriale delle aree con capitali maggiori, e l’attuale crisi finanziaria è quindi il tentativo di mantenere, lungo il percorso dell’indebitamento crescente, i livelli di accumulo di capitale nelle zone tradizionali dell’Europa occidentale e del Nord America.

Tassi di crescita economica Periodo Centro Periferia 1969-1975 5,0 7,5 1976-1982 3,7 6,0 1983-1989 3,8 5,3 1990-1996 3,4 4,7 1997-2003 2,6 5,6 2004-2010 2,4 7,3 FMI: World Economic Outloook, abril 2010 y elab. propia

Ma, poichè le interrelazioni tra centro e periferia sono cambiate drasticamente, e la crescita della periferia, soprattutto in Asia orientale, si basa in larga misura sulla produzione di valore nei paesi del centro, è possibile che, con la riduzione del consumo in Europa e Nord America, la crisi porterà ad una recessione strutturale del capitalismo mondiale. Questa possibilità, che alcuni frettolosi vogliono già rilevare nei segni della bolla immobiliare cinese o nella diminuzione del valore della produzione in Russia (7% nel 2009), è la chiave di lettura della crisi. I dati economici disponibili non permettono di interpretare la crisi attuale come uno stallo globale dell’accumulazione di capitale, perché la crescita è ancora (tuttavia?) importante in gran parte della periferia, ma i segnali più recenti puntano in questa direzione: la crescita globale è stata negativa nel 2009 e anche se, tranne l’America Latina e i paesi marginali europei, il resto della periferia mondiale continua ad accumulare ricchezza, il ritmo si è notevolmente ridotto rispetto agli anni precedenti.

Tasso di crescita del valore prodotto (PIB) per regioni 2007 2008 2009 Mondo 5,2 3,0 -0,6 Mondo (tipi di cambio del mercato) 3,9 1,8 -2,0 Paesi centrali 2,8 0,5 -3,2 Unione Europea 3,1 0,9 -4,1 Euro area 2,8 0,6 -4,1 G7 2,2 0,2 -3,4 Paesi centrali meno l’Euro area e G7 4,9 1,7 -1,1 Periferia 8,3 6,1 2,4 America Latina e Caraibi 5,8 4,3 -1,8 Magreb e Makrech 5,6 5,1 2,4 Africa subsahariana 6,9 5,5 2,1 Europa centrale e orientale 5,5 3,0 -3,7 Comunità di Stati Indipendenti 8,6 5,5 -6,6 Periferia dell’Asia 10,6 7,9 6,6 Nuovi paesi industrializzati dell’Asia 5,8 1,8 -0,9 ASEAN-5 6,3 4,7 1,7 FMI: World Economic Outloook Database

Se si tratta di una crisi finanziaria, la sua gestione impostata dai governi centrali, basata su nuove regole finanziarie e un maggiore controllo da parte delle autorità monetarie, può essere una via d’uscita. In questo contesto, l’alternativa socialista deve mettere l’accento su una drastica riduzione della dimensione della finanza globale (perchè avete bisogno di un mercato dei prodotti derivati di 600 miliardi di dollari, mentre la produzione mondiale è di 60 miliardi? È semplicemente un meccanismo finanziario per il trasferimento di valore tra gli agenti speculativi che dovranno far scomparire), con un incremento del settore pubblico nella produzione e nelle attività finanziarie (creazione di banche statali di sviluppo, imprese sociali e pubblico impiego per lo sviluppo dei servizi sociali, ecc...) o con il controllo politico delle banche centrali, affinchè abbiano come priorità delle loro politiche la crescita, e non solo la stabilità dei prezzi. Al contrario, se la crisi porta ad uno stallo del capitalismo, l’alternativa socialista non può limitarsi a proposte di “keynesismo di sinistra”. La crisi del Capitalismo significa che le regole del processo di accumulazione - cioè, il modo di lavorare, le norme sulla ripartizione del valore tra capitale e lavoro e tra capitale produttivo, finanziario e redditizio, l’area di intervento dello Stato, le forme di applicazione delle modifiche tecniche, la divisione internazionale del lavoro... - hanno smesso di funzionare, e devono essere sostituite. È qui che le contraddizioni sociali si acutizzano e le norme di controllo sociale possono saltare in aria. A questo punto, l’evoluzione della lotta politica è il fattore critico. Non è escluso che l’evoluzione della lotta di classe nelle periferie (in Cina, ma anche in America Latina, India o Russia) possa aggravare gli squilibri economici globali e trasformare la situazione di crisi nel peggioramento della produzione. Se siamo di fronte a una crisi strutturale, senza un programma di socializzazione di massa dell’attività produttiva, l’unica alternativa è un adeguamento al ribasso della partecipazione dei lavoratori in termini del valore aggiunto, e la privatizzazione di nuovi settori di intervento dello Stato, nella speranza che la produttività possa crescere e riprendere un percorso di sviluppo (dunque che aumenti l’intensità dello sfruttamento del lavoro e si rilanci l’accumulazione di capitale). Il programma proposto dalla UE si fonda chiaramente su questa prospettiva. La recente comunicazione della Commissione europea (Reinforcing economic policy coordination COM (2010) 250 final Bruselas 12 maggio 2010) punta a un numero di variabili da monitorare sistematicamente per garantire un maggiore controllo della Commissione sull’evoluzione della distribuzione del valore tra i paesi membri e l’esterno (conto corrente, posizione netta dei crediti esteri, tasso di cambio reale effettivo), tra capitale e lavoro (produttività, costi unitari del lavoro, occupazione), tra capitale produttivo, Stato e capitale finanziario (debito pubblico, credito al settore privato, prezzi delle attività), per progettare un percorso favorevole all’accumulazione di capitale: «Il Consiglio... da una proposta della Commissione... formulerà raccomandazioni specifiche della politica economica... che possono essere rivolte sia al versante delle entrate che alle spese della politica di bilancio... per frenare una crescita eccessiva del credito e gli sviluppi smisurati dei prezzi delle attività... » (op cit, pag. 7). L’Unione Europea è in procinto di tornare indietro di ottanta anni in materia di politica economica, nel tentativo di istituire una politica pre-fordista degli equilibri contabili, che, come insegna l’esperienza storica del XIX secolo, o dell’America Latina negli anni Ottanta, sposta il peso della manovra e lo squilibrio sui lavoratori e sui loro stipendi. Dalla capacità di risposta a questo dipenderà la trasformazione neoliberista dell’Europa (chi ha detto che era morta?).

2. Chi paga il conto? Il gettito fiscale è sceso nel territorio fiscale dello Stato spagnolo del 19% nel primo semestre del 2009, rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Per avere un’idea di cosa questo significhi basta ricordare che, nella grave recessione del 1993, le entrate dello Stato sono diminuite del 2,8%. Senza dubbio è la peggiore notizia che il rosario di disgrazie associate alla crisi ci abbia procurato. Se questa tendenza continuerà nel secondo semestre, significherà che l’obiettivo di aumentare il prestito per compensare gli effetti della crisi sulle attività e sull’occupazione sarà una missione impossibile, perché tutto l’indebitamento servirà al massimo per mantenere il bilancio 2010 agli stessi livelli attuali. La politica di risparmio e di contenimento dei costi attuata dal Governo per compensare la diminuzione degli introiti, date le sue scarse dimensioni, è inefficace. Non si potranno ridurre i costi solamente togliendo il cioccolato al pappagallo; con un crollo tale degli introiti fiscali, saremo costretti a decidere se permettere il deterioramento della sanità, se ridurre i costi nel sistema di istruzione, o accettare le buche che cominciano ad apparire in tutte le strade del paese. Inoltre c’è una grave irresponsabilità all’interno della grande crisi delle finanze, della domanda e dell’occupazione degli ultimi cinquant’anni. L’aumento della spesa pubblica è lo strumento principale per intervenire immediatamente in risposta al calo dell’occupazione e dell’attività economica, e l’efficacia della spesa dipenderà dalla misura in cui sarà utilizzata per creare occupazione e promuovere il cambiamento strutturale verso un’economia più sostenibile e produttiva. Di conseguenza, se non si vuole che scompaia la possibilità di utilizzare la spesa pubblica come ultima risorsa per la crisi, è indispensabile che si intervenga sui redditi. È vero che questo è più facile a dirsi che a farsi. Da un lato, la politica fiscale, in particolare per quanto riguarda le entrate, è un problema di cultura sociale su cui il nostro paese sembra essere ignorante. Si tratta di una grave carenza del nostro sistema politico, dove ogni volta che discutiamo di una nuova politica o di aumenti della spesa in uno o nell’altro servizio pubblico, non deliberiamo al tempo stesso sul modo di generare le risorse per pagare il conto. Ma lo stato della riscossione richiede decisioni importanti in questo campo. A partire da una diagnosi rapida, ma approfondita, di ciò che sta accadendo. Perché il gettito fiscale è stato ridotto di quasi tre volte rispetto all’attività economica? È vero che l’economia è in crisi, nel 2008 sono scomparsi 620.000 posti di lavoro, e nella prima metà del 2009, altri 912.000. Ciò significa che l’attività economica nel 2008 è diminuita di circa il 3%, e nella prima metà del 2009 del 4,5%, dunque, rispetto al 2007, l’attività manifatturiera è diminuita del 7,5% fino all’inizio dell’estate 2009. (Vedi tabella)

Come potete vedere, è nel calo delle tasse versate dalle imprese (aziende) o che si incaricano di risquotere le imprese (IVA), che si concentra il crollo del reddito. Una riduzione che va ben oltre l’effettiva evoluzione dell’economia. Eppure non vi è alcun segno che il disastro della riscossione delle imposte abbia fatto interrogare i suoi responsabili sui punti di forza e di debolezza del modello fiscale spagnolo. Senza dubbio i problemi strutturali del nostro sistema fiscale sono molti e profondi, e si aggiungono a questa fase di contrazione delle entrate: un sistema fiscale che ricade sulle spalle della produzione e del lavoro, mentre ha smantellato i già scarsi controlli della provenienza della ricchezza e del reddito immobiliare. Alcuni organi di controllo sono sottofinanziati nelle risorse umane e hanno sistemi per la stima del reddito e delle entrate inefficienti, sia legalmente, che tecnicamente. E un livello di riscossione adeguato per una società di un livello di medio benessere deve aumentare di almeno dieci punti in più rispetto ai redditi generati ogni anno, per dare il salto effettivo verso una società del benessere. Tutto questo nel contesto di una cultura fiscale che incoraggia la frode e l’evasione che, in questa congiuntura della crisi, sono in rialzo a livelli mai visti negli ultimi decenni. Agire rapidamente in tutti questi settori è fondamentale per affrontare la crisi e avanzare nel cambiamento strutturale, e agire il più possibile sul lato delle spese. Forse la crisi è un’opportunità per cambiare e migliorare, o per l’opposto; tutto dipende dalla volontà collettiva. Il programma deve passare attraverso la socializzazione totale delle risorse finanziarie, senza dubbio, ma soprattutto attraverso la statalizzazione delle risorse produttive. Deve eliminare dal mercato tutta la produzione dei beni essenziali e di consumo universale. La salute e l’istruzione, naturalmente, ma anche gli alloggi, l’energia, i generi alimentari, i tessili, le telecomunicazioni... TRADUZIONE DI VIOLETTA NOBILI