Uscendo per un attimo dal cliché redazionale, devo aggiungere che la lettura del libro di Vasapollo “La crisi del capitale. Compendio di Economia Applicata: la mondializzazione capitalista” ha rappresentato per me un momento importante per una riflessione personale che riguarda il settore specifico di ricerca, vale dire l’educazione e la scuola nel mondo contemporaneo, e per l’elaborazione di una prospettiva critica in questo campo; sono personalmente convinto che una valida formazione economica debba essere parte costitutiva del bagaglio culturale di coloro che si occupano della formazione.
I fenomeni di trasformazione in atto nell’economia globale, incluso lo scenario di crisi che da un paio d’anni è al centro dell’attenzione anche nei media e nelle agende dei governi che guidano la politica internazionale, sono stati affrontati attraverso la lettura deformata dell’imperante ideologia neoliberistica che rifugge da una comprensione autentica di quanto è avvenuto e di quanto sta avvenendo, tanto a livello locale (regionale, nazionale) quanto a livello planetario. Se ci si limitasse alle interpretazioni “ufficiali” in circolazione nell’Occidente, si potrebbe dire che manchi ancora, oggi, una spiegazione adeguata e soddisfacente di ciò che stiamo vivendo e del mondo che le future generazioni riceveranno come esito delle scelte che saranno fatte nel nostro tempo. Il recente vertice di Copenhagen sul “clima” è, probabilmente, la migliore espressione del clima di irresolutezza (peraltro solo apparente, perché funzionale ad interessi assolutamente “forti”) che sembra caratterizzare il nostro tempo. Ma considerazioni analoghe si possono fare anche a proposito di qualsiasi “summit” internazionale riguardante i problemi vitali di oggi, dalle questioni economiche a quelle dell’ambiente, della povertà e della fame, dell’istruzione, ecc. In realtà, per comprendere il presente è necessario rivolgersi a quelle idee e prospettive interpretative che non sono “compromesse” con gli equilibri di forze che caratterizzano la vicenda del nostro tempo, tanto al livello delle ”strutture” economiche, quanto al livello politico e culturale. Per questo motivo, sono particolarmente rilevanti nel panorama italiano iniziative ed attività editoriali come la collana di “Saggi sul capitalismo” che le edizioni Jaca Book portano avanti da alcuni anni a questa parte e che sono espressione del lavoro congiunto di una rete di economisti ed intellettuali europei ed americani organicamente legati a quei movimenti popolari e sindacali di base che in tutto il mondo denunciano le deformazioni ideologiche ed i guasti spesso irreparabili provocati sul piano sociale e su quello ambientale dalle politiche dei principali governi dell’odierna “globalizzazione”, avanzando nello stesso tempo, insieme alla critica, un progetto politico ed economico di segno opposto. In questa cornice, il recente “Crisi del capitale. Compendio di Economia Applicata” di Luciano Vasapollo2 costituisce una delle poche espressioni di un giudizio critico adeguato sul mondo contemporaneo, permettendo di superare le superficialità di quegli atteggiamenti che leggono i fatti avvenuti negli ultimi tre anni circa semplicemente come “fastidiosi” inconvenienti di un “sistema” in grado di recuperare comunque il suo equilibrio ottimale. Attraverso lo strumento interpretativo che offre una teoria marxista riletta alla luce dell’evoluzione recente dello stessa sistema capitalistico mondiale e delle esperienze di “resistenza” popolare che specialmente in America Latina hanno raggiunto notevoli traguardi (pur nella precarietà che dimostra, per esempio, la stessa vicenda elettorale del Cile), Vasapollo propone in una veste accessibile anche al lettore “profano”, una visione complessiva della realtà economica (e non soltanto economica) che ha il pregio anzitutto di tenere insieme elementi di giudizio che diversamente si troverebbero frammentati e incoerenti. Uscendo per un attimo dal cliché redazionale, devo aggiungere che la lettura del libro di Vasapollo “La crisi del capitale. Compendio di Economia Applicata: la mondializzazione capitalista” ha rappresentato per me un momento importante per una riflessione personale che riguarda il settore specifico di ricerca, vale dire l’educazione e la scuola nel mondo contemporaneo, e per l’elaborazione di una prospettiva critica in questo campo; sono personalmente convinto che una valida formazione economica debba essere parte costitutiva del bagaglio culturale di coloro che si occupano della formazione, mentre al presente sembra che i governi (aggiungerei: tanto di destra, quanto di sinistra, fatte le pur debite distinzioni) vogliano mantenere, non solo in Italia, insegnanti ed “educatori” nel ruolo che una celebre espressione ha definito “vestali” delle classi medie (con l’aggravante che le classi cosiddette “medie” sono sottoposte ad un processo di trasformazione che le rende sempre meno “centrali” nell’era del “postfordismo” e, per ciò stesso, sempre meno in grado di individuare e di esprimere le forme ed i contenuti adeguati della formazione per il nostro tempo). Tornando alla questione principale qui proposta, è opportuno segnalare alcuni tra gli elementi fondamentali dell’analisi condotta da Vasapollo sull’attuale crisi del capitalismo. Anzitutto, occorre recuperare la dimensione “storica” della crisi attuale, che non è cominciata nel 2007-2008 all’improvviso, anche se così è sembrato alla gran parte dell’opinione pubblica mondiale di fronte al collasso di un gigante della finanza mondiale apparentemente “dall’oggi al domani”. In realtà, se andiamo a recuperare quella che è la stessa fonte del testo qui in parola, vale a dire il Trattato di economia applicata che lo stesso autore ha pubblicato con Jaca nel 2007, avvalendosi della collaborazione prestigiosa di colleghi economisti dell’area sopra menzionata, ci si accorge che questo gruppo di studiosi aveva segnalato con anni d’anticipo la probabilità forte di un crollo quale è avvenuto effettivamente un paio d’anni fa, a riprova della validità anche previsionale del suo modello interpretativo. Del resto, tale validità è rafforzata dalla capacità di leggere la stessa storia economica del Novecento secondo un percorso unitario che giunge a leggere l’inizio della crisi presente a partire addirittura dagli anni Settanta. Fu, infatti, in quel periodo che si delineò la crisi del modello “fordista-taylorista”, ponendosi le premesse per la svolta “neoliberistica” che oggi sta cercando di affermarsi in maniera incontrastata a livello planetario. La crisi del petrolio e la destabilizzazione dei mercati monetari furono le manifestazioni più evidenti della crisi del modello di sviluppo che aveva guidato le società avanzate occidentali dalla fine della seconda guerra mondiale fino al termine degli anni Sessanta. In realtà, non si può parlare di quel periodo come di un’epoca di crescita lineare; per restare nell’ambito della vita economica, non si può dimenticare la validità di quelle interpretazioni che hanno mostrato come la stessa guerra mondiale abbia rappresentato l’occasione per il superamento definitivo delle conseguenze della grande crisi del 1929, che nemmeno in New Deal rooseveltiano aveva consentito agli Stati Uniti di lasciarsi dietro le spalle. La grande crescita del ventennio successivo al 1945 poggia sulla distruzione (di capitali e di forze produttive) della stesa guerra mondiale, che può essere vista come il momento decisivo e culminante dello scontro tra i tre colossi economici (Gran Bretagna, Germania, Stati Uniti) e con il prevalere definitivo degli USA sul piano industriale e su quello finanziario. La prosperità del periodo del “fordismo”, con le garanzie sociali (il Welfare State) che porterà in tutto l’Occidente, sarà messa in crisi dalla crisi di crescita che il sistema capitalistico porta con sé e di cui la crisi monetaria degli anni Settanta fu espressione eloquente. La sproporzione del peso dell’economia finanziaria sul complesso dell’economia capitalistica, il suo netto prevalere rispetto al settore indutriale-produttivo è “dietro l’angolo” al culmine di ciascuna fase di crescita. Ciò avvenne anche a metà circa degli anni Settanta e la risposta delle economie occidentali alla crisi incipiente consistette nella “ricetta” neoliberistica della stretta monetaristica e della “deregolamentazione”, dapprima applicata nelle stesse economie inglese e statunitense (e, ovviamente, nelle aree di egemonia diretta) a partire dal governo rispettivamente di Reagan e di Margaret Thatcher, poi estesa, attraverso gli organismi internazionali (il Fondo Monetario, la Banca Mondiale, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, ecc.) a tutto il globo, grazie a fenomeni concomitanti che hanno avuto per conseguenza l’ampliamento del mondo “capitalistico” anche a quelle aree che in precedenza non controllava. Fenomeni di natura disparata, ma concomitanti e convergenti, come le trasformazioni tecnologiche degli anni Ottanta e Novanta, da un lato, e, dall’altro, il collasso del sistema sovietico, hanno consentito l’estendersi del modello neoliberistico ben al di là della sua originaria zona d’influenza, peraltro coincidente con il “cuore” del capitalismo occidentale, aprendo la strada a quella “mondializzazione” del modello capitalistico che oggi passa sotto il nome di “globalizzazione”. Come Vasapollo sottolinea, non si è trattato di semplici cambiamenti di natura produttiva conseguenti alle innovazioni tecnologiche, ma di trasformazioni profonde nel quadro complessivo delle relazioni tra le classi sociali. L’introduzione delle tecnologie informatiche nei processi produttivi ha, infatti, rivoluzionato il sistema della produzione e del commercio, dapprima aumentando la produttività degli impianti e consentendo, nel medio periodo, una nuova organizzazione del lavoro che ha avuto per effetto la rapida sostituzione del paradigma fordista, basato sul radicamento locale delle lavorazioni e sulla contrattazione sociale, con il sistema “reticolare” e “flessibile” attuale, con l’inesorabile indebolimento della forza contrattuale dei lavoratori, la scelta della “delocalizzazione” delle attività e, infine, la ristrutturazione degli stessi assetti societari delle imprese giganti, multinazionali, tra holding centrali e filiali periferiche, tra “distretti” produttivi e “filiere”. Un correlato fondamentale di questa evoluzione sta nella centralità strategica della “comunicazione deviante”: nella società tecnologica attuale diviene essenziale la comunicazione, a tutti i livelli e in particolare con i nuovi potentissimi media a disposizione, ma la finalità della comunicazione è intrinsecamente distorta dalle finalità di profitto immediato sostenute dall’ideologia neoliberistica e tecnocratica. Nello stesso tempo, il sistema finanziario ha rafforzato il suo ruolo primario a partire dalla liberalizzazione dei mercati promossa da Clinton e Thatcher, con il risultato che oggi è possibile spostare in brevissimo tempo ingenti masse di capitali e di investimenti da un’area all’altra del mondo, determinando con ciò stesso il destino politico ed economico di intere società. In effetti, il mercato dei capitali è l’unico compiutamente “globalizzato” ed è proprio questa sua caratteristica a renderlo così “pericoloso” per gli equilibri dello stesso sistema capitalistico che, al di là della sua stessa autorappresentazione ideologica, è caratterizzato da profondi e intrinseci squilibri. Un’occhiata anche superficiale ai problemi del mondo contemporaneo consente di apprezzare in tutta la loro gravità questi squilibri: il mercato dei capitali costituisce una reale minaccia alla stessa vita democratica anche nei Paesi più forti e fagocita la stessa pur relativa dotazione di risorse delle classi lavoratrici (si pensi al meccanismo perverso dei fondi-pensione); d’altro canto, la “crescita”, misurata nei termini del PIL, non favorisce alcun riscontro sul piano occupazionale o di benessere diffuso. È piuttosto vero il contrario, con l’aggravante che la finanziarizzazione dell’economia conduce i Paesi più deboli ad un crescente asservimento ai propri debitori in una spirale perversa che non avrà mai fine e che genera l’impossibilità per i debitori di risollevarsi dalla propria posizione di debolezza, costringendoli, anzi, a “bruciare” risorse per pagare gli interessi sui debiti accumulati. Lo sfacelo planetario così prodotto non è lontano dalla consapevolezza dell’opinione pubblica, la quale se lo rappresenta in primo luogo sotto la fattispecie del “disastro ecologico”, nell’inconsapevolezza delle radici strutturali (che si trovano nel sistema del capitalismo contemporaneo, nelle forme di produzione e nei rapporti sociali) della stessa crisi ambientale. Si chiede giustamente Vasapollo: “Ma da dove si è partiti per arrivare ad oggi? Sicuramente dalle effettive manifestazioni della crisi d’accumulazione strutturale dei primi anni ‘70 (primo shock petrolifero) che evidenziava l’incapacità sistemica di mantenere i livelli “adeguati” di saggio del plusvalore, obbligando i diversi capitalismi a tentare la via della globalizzazione neoliberista, poi caratterizzatasi come competizione globale, incentrata [...] sulla predominanza della finanza, quindi del capitale fittizio su quello produttivo, sulle privatizzazioni e sull’abbattimento dello Stato sociale, con il connesso attacco al salario diretto, indiretto e differito. Tutto ciò si è concretizzato in esternalizzazioni, delocalizzazioni produttive, uso massiccio degli investimenti diretti esteri, scomposizione del mondo del lavoro e attacco ai diritti, sviluppo della precarietà che accompagna la disoccupazione strutturale, con la cosiddetta flessibilità del lavoro tutta interna ai nuovi modelli di accumulazione flessibile, fino alle guerre di espansione e di controllo per il petrolio e le materie prime e dei flussi e della composizione del “capitale umano” per la società dell’economia postfordista a forte contenuto di risorse immateriali e per dare linfa vitale alle aree del fordismo sostenute dalle nuove forme di schiavitù del lavoro. Ecco il neoliberismo che, nel tentativo di uscire dalla crisi sistemica, usa la globalizzazione che ha portato l’economia mondiale ad assumere una forma di economia virtuale, immateriale, di carta, in una competizione globale che usa il sistema delle rendite finanziarie immobiliari e di posizione per l’arricchimento di pochi, per strozzare il mondo del lavoro, senza prospettive reali di risoluzione della crisi come dimostrano gli ultimi sussulti della finanza ‘allegra e creativa’ “ (L. Vasapollo, op. cit., p. 372). La via d’uscita a questa situazione, per superare la morsa del “pensiero unico” di marca neoliberistica, è individuata dagli autori a cui qui si fa riferimento nell’elaborazione tanto teorica quanto pratica dei movimenti dei lavoratori che si rifanno alle esperienze di lotta e di governo “dal basso” avviate nella seconda metà del Novecento e vincenti soprattutto in America Latina, dalla Repubblica Cubana di Fidel Castro alle più recenti democrazie di Chavez e Morales (per fare i nomi più noti). La stessa rete di studiosi a cui si è accennato sopra si rifà per la stessa impostazione del lavoro teorico tanto ai lavori “classici” di autori come Sweezy, Mandel, Jaffe quanto al legame organico con i movimenti sindacali e politici dei lavoratori che si ispirano a quelle esperienze di democrazia e di economia partecipata. Si potrebbe concludere questo panorama avanzando due considerazioni di carattere “politico”, per un verso, e “pedagogico”, per un altro. La prima considerazione è che occorrerebbe ampliare la diffusione di queste idee anche al di là della cultura marxista entro la quale si sono sviluppate. Sono ancora poco conosciute al di fuori della cerchia degli esperti e dei movimenti che si rifanno allo stesso orizzonte ideale, mentre la discussione di queste idee meriterebbe di essere posta al centro del dibattito culturale intorno alla globalizzazione stessa; chi scrive è convinto che la validità delle analisi avanzate sarebbe riconosciuta anche da coloro che, pur non condividendo l’impostazione marxista, leggono la realtà senza pregiudizi. Queste parole suonano ingenue, ma il problema della tenuta della democrazia consiste oggi, probabilmente, nel riconoscimento che le categorie sopra descritte della rappresentazione del mondo contemporaneo valgono al di là delle appartenenze culturali o politiche. Il clima del confronto politico va certamente in altre direzioni che non favoriscono questo confronto, e la vicenda delle “primarie” del PD in alcune regioni lo dimostra, ma è necessario che questa analisi proceda e si diffonda. Ciò potrebbe accadere anche al di là degli stessi confini della “sinistra”, date le ambiguità che porta con sé l’attuale schieramento delle forze politiche ed il fatto che tra coloro che si sottraggono ad un’omologazione falsa ed arbitraria in uno o nell’altro dei due “poli” si possono trovare persone che, almeno individualmente, rappresenterebbero la reale possibilità di un dialogo non soltanto “accademico”. Per non parlare del fatto, altrettanto evidente, della saldatura almeno parziale degli interessi di tutti coloro che in questi ultimi anni si sono visti privare del lavoro e della stessa “proprietà” (della casa, dei risparmi; ma ha ragione Z. Bauman ad affermare che oggi “ricchezza” e “proprietà” sono concetti non più del tutto coincidenti e che si può essere ricchi ma non “possedere” nulla (come i pensionati che detengono quote di fondi d’investimento). Da qui deriva una necessità “pedagogica”; i giovani oggi sono profondamente disorientati e privi di quella “coscienza” che permetterebbe loro di comprendere quegli stessi meccanismi economici che rendono la loro esistenza così precaria ed il loro futuro così “vago”. Una cultura della “coscientizzazione” appare oggi necessaria come contraltare di quella velleitaria offensiva delle “3 I” sbandierata dai governi neoliberisti nostrani con tanti cedimenti anche a “sinistra” (se una parte della sinistra mostra la sua mancanza di idee e di contenuti proprio quando concentra tutte le energie sulle questioni pur essenziali dei “conflitti d’interesse”, ma senza denunciare il dissesto della politica neoliberistica nostrana, né proporre autenticamente l’alternativa possibile). La nuova generazione, quella che oggi si trova nel periodo della formazione scolastica ed universitaria, deve prendere coscienza di sé e si deve rafforzare la lotta per un sistema formativo che non sia orientato (peraltro, malamente) all’acquisizione di “competenze” (il che significa, realmente, solo una “forma mentis” disposta ad accettare la “flessibilità” nei suoi aspetti più deteriori), ma ad una consapevolezza autentica delle storture del sistema presente per una cittadinanza concretamente attiva e in grado di esprimere la critica dell’esistente in vista di un cambiamento del sistema che è urgente e possibile.
1 Professore alla Facoltà di Filosofia, Università “Sapienza”, Roma
2 L. Vasapollo, La crisi del capitale. Compendio di economia applicata: la mondializzazione capitalistica, Milano, Jaca Book, 2009.