Ripresa dell’analisi di classe in Italia per la costruzione del sindacato metropolitano

Luciano Vasapollo

Rita Martufi

1.Già verso la fine degli anni ’80, il dibattito specialistico individua segnali di crisi in un modello di sviluppo concentrato sull’unità produttiva dei distretti, che si sostanzia in fenomeni di «profondo riaggiustamento che alcuni importanti distretti attraversano nella seconda metà del decennio»2. Nella parziale crisi di questo modello di sviluppo territoriale, emerso con evidenza agli albori degli anni ’70, si possono rilevare diversi fattori di natura economica e sociale, tra cui l’impossibilità per le imprese distrettuali di piccole e medie dimensioni di accedere a costosi programmi di ricerca e sviluppo, che soli sono in grado di generare innovazione e competizione con i concorrenti internazionali, e il cambiamento demografico della popolazione attiva in tempi relativamente brevi, grazie agli intensi flussi migratori d’inizio secolo. Per questi motivi, le grandi aree metropolitane, definite da un punto di vista legislativo già all’inizio degli anni ’90 e poi riviste con un disegno di legge delega del gennaio 2007, hanno riconquistato peso nel panorama economico nazionale e hanno ritrovato il loro appeal, attirando i nuovi soggetti sociali del lavoro (primi tra tutti gli immigrati) che trovano occasioni, servizi, prospettive ignote ai contesti più piccoli, tra l’altro molto meno permeabili dal punto di vista sociale e occupazionale per chi proviene da contesti geografici e culturali lontani (si ricordino le osservazioni di Becattini a proposito della compattezza sociale e della dimensione comunitaria dei distretti). In questo processo di riconquista della centralità, assumono particolare importanza le cosiddette le grandi aree metropolitane (gam), gruppo in cui si trovano Roma, Milano, Napoli e Torino; ma è evidente anche la nuova crescita di molte aree metropolitane standard (sam), di dimensioni più piccole, tra cui Bologna, Genova, Venezia, Firenze, Bari, Palermo e Catania. Emblematico è il caso di Roma che si caratterizza per la sua economia in crescita soprattutto nelle aree delle tecnologie, della comunicazione, del turismo e dei servizi privati. Legato al dinamismo economico - e almeno in parte sua causa - è il contributo demografico fornito alle metropoli italiane dai flussi migratori che dall’Africa, dall’estremo oriente, dall’est europeo sono confluiti nel nostro Paese. Per quanto portatore di numerose contraddizioni e squilibri, si tratta di un valore aggiunto non solo in termini socio-culturali, ma soprattutto in termini occupazionali, dato che la manodopera extracomunitaria ha consentito a molte attività produttive un costo del lavoro competitivo. Va sottolineato, però, che il nuovo protagonismo delle metropoli ha richiesto anche un loro adeguamento strutturale al modello di produzione post-fordista, i cui principi di fondo, come la disgregazione della grande unità produttiva, la diffusione della produzione sul territorio, l’introduzione nel ciclo di nuove figure di lavoratori, sono stati assunti ed elaborati dal sistema metropolitano. Per questo s’è assistito, negli ultimi anni, all’accentuarsi di una tendenza già da tempo in atto: l’allargamento del territorio che fa sistema con lo spazio metropolitano e la diffusione delle attività produttive, delle unità abitative, delle relazioni socio-economiche nelle aree limitrofe, sussunte sotto il controllo dei poteri metropolitani. Non solo: nella moderna metropoli lo sfaldamento della fabbrica fordista, simboleggiato dalla contrazione o dalla chiusura dei grandi stabilimenti della Milano e della Torino operaie, o dalle ristrutturazioni che hanno investito il porto di Genova, ha segnato il passaggio ad un nuovo e più flessibile sistema di accumulazione, in cui tutto è messo a produzione: il tempo libero, le relazioni sociali, i servizi essenziali (dall’acqua all’energia, fino alla sanità e alla pulizia dell’ambiente). Si tratta della fabbrica sociale metropolitana, un modello in cui l’evoluzione del sistema urbano prende una direzione economicista e produttivista. È evidente, in questo senso, la trasformazione rispetto al passato: prima, infatti l’immagine della città era ben definita e precisa; si trattava di un agglomerato urbano cui si rifacevano livelli istituzionali ben chiari e sistemi produttivi compatti, come la grande fabbrica tipica delle vecchie città industriali. In questi ultimi decenni i vari processi di industrializzazione e terziarizzazione post-fordista sono stati tutt’uno con il crescente sviluppo dei centri metropolitani che, tra l’altro, hanno portato ad una diminuzione della convergenza tra estensione del territorio e potere istituzionale e amministrativo. La crescita delle metropoli è andata oltre il confine amministrativo, interessando e sviluppando territori intorno al nucleo centrale urbano. Ecco il ruolo prioritario delle aree sociali metropolitane, che se rimangono strategicamente funzionali ai processi di accumulazione del capitale, in una dimensione di produzione sociale, allo stesso tempo evidenziano in maniera più diretta e con più scarse possibilità di mediazione le caratteristiche e le condizioni in cui si esplicita attualmente il conflitto capitale-lavoro e le contraddizioni capitale-ambiente e capitale-diritti in una conflittualità sociale complessiva. Un aspetto, se si vuole, della moderna questione delle “periferie”. Nelle metropoli meridionali, si aggiunge a queste contraddizioni quella - evidentissima - tra capitale e criminalità, che nei casi concreti di molte economie meridionali sono in lotta soltanto apparente: anzi, spesso risultano complementari nelle modalità e concordi negli obiettivi perseguiti. Se, dunque, il sistema dei distretti sembra aver perso negli ultimi anni una parte della propria capacità propulsiva a vantaggio delle metropoli, le aree metropolitane si sono in un certo senso “distrettualizzate”, creando sistemi e sotto-sistemi economici integrati con il territorio circostante, divorando la provincia e sottomettendola alle regole ambientali, economiche e sociali del centro, che spesso non può reggere3.

2.La nuova tendenza dell’espansione urbana e - soprattutto - delle modalità di produzione, lavoro e consumo che essa impone ha acuito, in questi anni, una contraddizione ambientale già rilevante in molte aree del Paese e annunciata, da parte di intellettuali e ambientalisti, sin dagli anni ’60: si leggano, al proposito, alcune illuminanti novelline di Marcovaldo, composto da Italo Calvino nel 1963, come Dov’è più azzurro il fiume, in cui il protagonista pesca dei pesci contaminati da una vicina fabbrica di vernici, oppure Il coniglio velenoso, in cui rischia di mangiare un coniglio in cui è stato iniettato un virus letale4. Ciò che caratterizza gli anni più prossimi a noi è, però, una minaccia ambientale più aggressiva e invasiva, drammaticamente connessa agli effetti della produzione e del consumo. È emblematica, a tal proposito, la vicenda dell’interminabile emergenza rifiuti in Campania, cominciata dieci anni fa ed aggravatasi alla fine gennaio del 2004, quando gli ambientalisti, gli agricoltori e un nutrito gruppo di sindaci del casertano hanno deciso di presidiare, con oltre settanta trattrici, la discarica di Parco Saurino di Santa Maria La Fossa. I cittadini protestavano contro la destinazione di trenta ettari di terreno a sito di stoccaggio delle ecoballe di rifiuti, opponendosi all’allargamento dell’area utilizzata come deposito dei rifiuti, precedentemente sequestrata. Nel tempo, si sarebbero succedute anche manifestazioni di protesta sempre più esasperate, con risvolti talvolta drammatici. La contraddizione più grave, in effetti, riguarda proprio l’impatto sul territorio agricolo, sulle campagne, sulle regioni incontaminate - insomma, sulle “periferie” della produzione e del consumo - degli effetti collaterali del modello di sviluppo vigente, che tende così ad imporre costi e modalità propri. Ma non è tra Sud e Nord la vera differenza, bensì tra aree sviluppate e aree depresse, tra economie industriali aggressive ed economie rurali a misura d’uomo, tra “centri” e “periferie”: circa due anni dopo, infatti, scoppia una analoga protesta - per contenuti e modalità - nella settentrionale Val di Susa, interessata dal progetto di costruzione di un tratto della linea ferroviaria ad alta velocità (tav) che dovrebbe collegare Italia e Francia, nel quadro di una più ampia rete europea. Anche qui, i cittadini esasperati dalle prospettive apocalittiche dell’impatto ambientale dell’opera scendono in strada, fermano le ruspe, presidiano il territorio. Protagonisti della contesa sono il neo-governo di centrosinistra, impegnato nella costruzione del tratto italiano del cosiddetto corridoio 5 dell’alta velocità, e i valligiani del nord-ovest, che peraltro non contestano la direttrice del trasporto ma la soluzione della tav. Anche in questo caso, la campagna mediatica contro le rivendicazioni dei valsusini è ben calibrata: come era accaduto per gli abitanti di Scanzano, li si accusa di egosismo, di frenare lo sviluppo per tutelare piccoli privilegi. Ma i comitati di resistenza, i sindacati di base, sono attrezzati a rispondere, portando argomentazioni profonde sul significato del termine “sviluppo” e su quello che significa in un mondo sempre più globalizzato ed eterodiretto, in cui spesso le grandi opere sono la scusa per allegri trasferimenti di denaro pubblico a potenti gruppi d’interesse privati. Le ragioni dei valligiani, invece, sono quelle della sopravvivenza, una sopravvivenza non opulenta, fondata sul turismo, le tipicità, la salubrità dell’aria5. Valori alternativi a quelli propugnati dal modello di produzione attuale, la cui affermazione è affidata all’esito delle lotte,tuttora in corso, di tutti i cittadini che abitano le mille periferie aggredite dall’espansione industrial-capitalista.

3.Negli originali spazi socio-economici, prodotti dalla trasformazione e dall’integrazione dei sistemi territoriali metropolitani e periferici, si fa evidente la linea di demarcazione che separa la proprietà-capitale e una classe dei lavoratori che sente sempre più vasto il divario tra le scelte di programmazione economica e le condizioni reali della crescita, del benessere sociale e delle prospettive. Alle figure tradizionali del lavoro, specie nelle aree metropolitane, si sono sovrapposte quelle diseredate e senza diritti rappresentate dai migranti, che un opportuno sistema legislativo consente di utilizzare indiscriminatamente nei processi produttivi, per poi liquidarli quando le esigenze del capitalismo lo richiedono: i Decreti Flussi che annualmente programmano le quote d’ingresso di lavoratori stagionali sono concepiti proprio per questo scopo. L’ingresso di tali figure ha reso più attaccabili i tradizionali soggetti del lavoro, vittime anch’essi di un attacco senza precedenti ai diritti. Il percorso di adeguamento del lavoro alle esigenze variabili della produzione, cioè il processo di reificazione del lavoratore, dopo il pacchetto Treu è proseguito con la promulgazione della famigerata Legge 30, che ha introdotto nel diritto del lavoro una miriade di forme contrattuali precarie e temporanee, che non garantiscono alcuna continuità di rapporto al “prestatore d’opera”, minando in questo modo le sue possibilità di programmazione esistenziale. Sul piano del diritto, è una controriforma che riporta il lavoro all’epoca del liberismo selvaggio ottocentesco, in cui il lavoratore era considerato un semplice strumento al servizio della produzione. Anche le nuove figure dell’imprenditore individuale - il popolo delle partite iva - raffigurato come detentore del capitale ma anche di spirito di iniziativa, creatività, innovazione, abilità, assunzione del rischio, spregiudicatezza, rimane confinata ad una forma atipica di impresa, che al pari di molte forme della cosiddetta economia sociale e della partecipazione, altro non sono che accettazione voluta o incosciente a quelle compatibilità funzionali alla crisi quantitativa di accumulazione che il capitale sta attraversando, o di funzioni imposte con la sfrenata precarizzazione del mercato del lavoro. Ma, anche in questo caso, si tratta di riforme che davvero portano sviluppo? La risposta è negativa, basti pensare a paesi ed economie ben più avanzate della nostra che conservano senza problemi regole più rigide e garantiste nel mercato del lavoro. Se si guardasse agli indici di rigidità della forza lavoro, ci si accorgerebbe che l’Italia già da alcuni anni è a metà della classifica. Il mercato francese tedesco o austriaco sono molto più rigidi di quanto non fosse e non sia quello italiano, con una produttività e un costo del lavoro molto più elevati. Si preferisce rincorrere la Spagna o la Grecia o magari l’Irlanda e naturalmente la Gran Bretagna piuttosto che i paesi che hanno una struttura economico-produttiva ben più robusta della nostra.6 Nei fatti, la vera trasformazione che i lavoratori hanno registrato è stata quella - ben concreta - dell’assottigliamento di salari, sicurezze sociali, prospettive. Con un’analisi impietosa, il Rapporto Italia pubblicato dall’eurispes nel 2005 individuava la forte espansione dell’area della povertà nella società italiana, un fenomeno riguardante non più soltanto i ceti proletari ma, almeno tendenzialmente, una buona fetta del ceto medio. Nasce così quella che, con un’efficace espressione, è stata definita “povertà in giacca e cravatta”7. A fronte di queste drammatiche e rapidissime trasformazioni, davanti alla complicità del sindacato confederale, si rafforza la proposta del sindacalismo di base di una nuova stagione di conflittualità, che opponga alle logiche concertative la difesa degli interessi della classe lavoratrice, sulla base di una diversa interpretazione delle cause del cambiamento. “Uno degli elementi caratterizzanti il nostro progetto sindacale è stato quello di misurarci con la nuova composizione di classe del mondo del lavoro, ovvero con le trasformazioni che hanno generato un nuovo sistema produttivo e con le sue ricadute sulla condizione dei lavoratori dipendenti o comunque subordinati nel nostro Paese. [...] La scelta perciò di lanciare una battaglia generale nasce da un percorso concreto di lotta e di organizzazione che si pone il chiaro obiettivo di come adeguare il sindacato alle trasformazioni in atto che rischiano di vanificare la stessa funzione sindacale e dunque la necessità della sua stessa esistenza”.8 Tale interpretazione muove dalla convinzione che il capitalismo mondiale attraversa una fase di crisi sistemica, nel corso della quale sta riconfigurando i tradizionali rapporti con il lavoro. La divisione internazionale del lavoro, l’organizzazione delle filiere produttive, l’interdipendenza tra paesi e aree diverse che nasconde colonialismi vecchi e nuovi sono altrettante manifestazioni del cambiamento, che ha imposto - nel quadro della competizione globale - privatizzazioni selvagge, ristrutturazione dei modi di produzione, tagli radicali sui costi sociali e del lavoro. Su questo terreno si possono misurare le prove generali per un nuovo e aggiornato modello di sindacato, dinamico almeno quanto l’attuale assetto del nuovo blocco sociale dei soggetti del lavoro e del lavoro negato: un sindacato metropolitano che abbia come riferimento il mondo del lavoro nelle sue molteplici e diversificate forme di precarietà e di esclusione, atomizzate dalla ristrutturazione e dalla crisi capitalista che ha puntato, negli ultimi anni, a esasperare le differenze giuridiche ed economiche tra i lavoratori, scomponendo l’unità della classe.

1 Per maggiori dettagli e approfondimenti sui temi in questo articolo si veda L. Vasapollo, Storia di un capitalismo piccolo piccolo. Lo Stato italiano e i capitani d’impresa dal ’45 ad oggi, Jaca Book, Milano 2007.

2 M. Bellandi, «Terza Italia» e «distretti industriali», in Storia d’Italia. Annali 15. L’industria, a cura di F. Amatori - D. Bigazzi - R. Giannetti - L. Segreto, Einaudi, Torino 1999, p. 880.

3 Per un’analisi dei processi in atto, cfr. R. Martufi e L. Vasapollo, Le aree metropolitane nel contraddittorio sviluppo economico italiano, inchiesta in quattro parti, in “Proteo”, nn. 3/2005, 1, 2/2006, 3/2006-1/2007. Sul metodo d’indagine della realtà metropolitana si veda anche Aa. Vv., L’inchiesta metropolitana. Mappe, metodi, fonti, riferimenti, quaderno n. 2 dell’Osservatorio Meridionale di Cestes-Proteo, febbraio 2007.

4 Cfr. I. Calvino, Marcovaldo ovvero le stagioni in città, Mondadori, Milano 2005.

5 Per maggiori approfondimenti, cfr. N. Casale, La Val di Susa e la Valle Mondo. Resistenza e conflitti nella contraddizione capitale-ambiente, in “Proteo”, n. 2, 2006, pp. 25-30.

6 Si veda tra gli altri l’intervista a L. Gallino, a cura di O. Pivetta, pubblicata su “l’Unità”, 1 agosto 2003.

7 Cfr. EURISPES, Rapporto Italia 2005.

8 Sogni bisogni conflitto, 4° Congresso Nazionale della Federazione RdB/cub, Fiuggi 17-19 giugno 2005, documento congressuale, pp. 45-46.