Gli ultimi saranno gli ultimi

Paolo Graziano

Nuove (e vecchie) logiche securitarie. A partire dall’inchiesta sul sistema degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari di Dario Stefano Dell’Aquila

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare. B. Brecht

1. Erosione del diritto nel nuovo corso democratico

Una tendenza visibile in tutte le democrazie occidentali, che potremmo definire del nuovo corso democratico (ma non pochi v’intravedono la sinistra ispirazione del Piano di Rinascita di Licio Gelli), è quella del progressivo consolidamento del potere esecutivo, a discapito di quelli destinati alla discussione, alla deliberazione legislativa, al controllo degli atti. Magistrati trascinati quotidianamente da media e politici sul banco degli imputati, organi di controllo ignorati o aggirati, il Parlamento trattato come un inutile orpello che disturba il manovratore di turno: sono queste le strategie dominanti in Italia (e non solo) per ridurre il tradizionale spazio del diritto nella democrazia rappresentativa. La tendenza, naturalmente, non investe solo lo spazio politico: il diritto è un sistema di vasi comunicanti, per cui il fluido della libertà o della censura si diffonde rapidamente da un organismo all’altro, infettando eventualmente della sua assenza l’intero corpo sociale. Le recenti normative emesse con il famigerato Pacchetto Sicurezza, in buona misura, fanno circolare e alimentano questo virus, travalicando in maniera perlomeno discutibile i paletti tradizionali del diritto personale. Esemplare, a questo proposito, è la recente riduzione dello stato di clandestinità a un reato: un provvedimento condannato da associazioni di settore, sindacati, parti politiche e comuni cittadini che cominciano a sentire sulla pelle la contraddizione di una situazione in cui badanti, colf e lavoratori ormai divenuti indispensabili alle nostre comunità si trasformano improvvisamente in fuorilegge. Ma davvero è il caso di stupirsi? Francamente non sembra: la normativa che espelle gli immigrati clandestini dalla sfera stessa del diritto è in linea con una tendenza generale alla riduzione delle garanzie dello ius occidentale, ed anche con una tendenza di medio corso a trattare la questione dell’immigrazione sempre più come un problema di ordine pubblico piuttosto che come una faccenda di natura sociale, economica e umana. Un segno dei tempi, si direbbe. In periodi di difficoltà economiche globali e di latenti conflitti sociali che la struttura del welfare non riesce più a sedare, il peso delle contraddizioni si scarica sul più debole e meno tutelato. Riducendone il diritto naturale, quello che l’elaborazione giuridica illuminista aveva garantito, con la carta dei Diritti universali, ad ogni persona umana, indipendentemente dalle stesse condizioni di cittadinanza e di appartenenza territoriale.

2. Il diritto e l’eccezione Volendo analizzare la storia recente di questa deriva, tuttavia, bisogna riconoscere che essa non reca particolari etichette partitiche. La stessa normativa del Pacchetto Sicurezza cui si faceva cenno, è soltanto la più recente incarnazione di un processo di lungo corso, cominciato - guarda caso - alla metà degli anni Novanta, grazie all’iniziativa del governo tecnico presieduto da Lamberto Dini, successivamente membro autorevole dell’Unione prodiana e suo principale demolitore, insieme all’ex ministro Mastella, con il passaggio nelle file del Centrodestra risalente ai primi mesi del 20081. Il famigerato Decreto Dini, risalente al novembre 1995 e più volte reiterato, consentiva infatti di allontanare dal suolo italiano un immigrato sospettato di turbamento dell’ordine pubblico o condannato per reati minori, senza possibilità effettive di ricorso. «Il decreto ha rappresentato - afferma Alessandro Dal Lago - una svolta nella cultura politica e giuridica italiana, in quanto trasferiva alla polizia la soluzione dei microconflitti, reali e immaginari, posti dall’immigrazione»2. Comparando il provvedimento con altri analoghi deliberati nei diversi paesi dell’Unione Europea, Dal Lago individua una tendenza comune a stabilire i confini dell’inclusione e le modalità dell’esclusione, innescata da due grandi processi succedanei: la fine del mondo socialista, con lo sgretolamento del mondo bipolare; la concorrenza tra aree geopolitiche nel capitalismo globale planetario. Ciò che qui c’interessa maggiormente, comunque, è il principio che s’instaura nelle società occidentali, a seguito delle prove generali effettuate con gli immigrati. È quello che il sociologo definisce come principio della “sparizione” dalla sfera del diritto, con cui si piazza una robusta pietra tombale su quel lungo processo di espansione delle garanzie che ha conosciuto un percorso pressoché ininterrotto dal 1700 alla fine del secolo scorso. Seguiamo il suo ragionamento: Uno straniero “illegittimo” o “illegale” non esiste socialmente, oppure esiste, tollerato o non visto, in un limbo da cui può essere in ogni momento allontanato o fatto sparire. In base alla legislazione vigente in Italia e in altri paesi, un immigrato clandestino o irregolare può essere letteralmente catturato in qualsiasi momento dall’autorità di polizia, detenuto per qualche tempo ed espulso dal paese, dalla società in cui viveva. Uno zingaro (che sia o no dotato di nazionalità) non ha diritto a vivere dove e come vuole e diverse autorità, locali o nazionali, amministrative o politiche, hanno il potere di rimuoverlo e di confinarlo (cioè di farlo sparire e riapparire dove conviene loro). Uno straniero riconosciuto socialmente pericoloso o colpevole di un reato minore può essere allontanato definitivamente dal paese (e quindi dalla possibilità di essere giudicato o far ricorso in appello, ciò che la Costituzione chiama il “giudice naturale”), e quindi fatto allontanare dal sistema giuridico con cui era entrato in contatto.3 Questo allontanamento non è solo e sempre fisico; certe volte può essere più pernicioso quello metaforico, che separa il soggetto dai presupposti “naturali” della sua personalità giuridica con artifici, deroghe, eccezioni che ne impediscono l’esercizio. Sono questi casi le cartine tornasole che misurano lo stato d’avanzamento del processo di cui parlavamo all’inizio: una meditata erosione dello spazio del diritto politico, sociale, individuale che pare caratterizzare sempre più marcatamente il nuovo corso delle democrazie occidentali.

3. Il caso degli Opg: un segno dei tempi fuori dal tempo In questo contesto è importante e benvenuta la chiamata d’attenzione di Dario Stefano Dell’Aquila sul caso degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, istituzioni in apparenza residuali (sono solo cinque in Italia), rimosse dall’immaginario della pubblica opinione e dall’agenda della politica, eppure straordinariamente indicative delle procedure di inibizione del diritto individuale, sperimentate oggi - di fatto o in via di principio - su categorie sempre più numerose di persone (stranieri, homeless, uomini che si sono macchiati di reati “speciali”, etc.). Il reportage di Dell’Aquila, pubblicato presso Filema con il titolo Se non t’importa il colore degli occhi. Inchiesta sui manicomi giudiziari, è un viaggio crudo e intenso nell’universo concentrazionario degli ospedali psichiatrici, una denominazione ingannevole perché contiene in sé già tutte le contraddizioni di un’istituzione che, da qualche secolo, stabilisce lo spazio e le coordinate d’applicazione di un diritto speciale: È nel nome stesso, ospedale psichiatrico giudiziario (Opg), che si nasconde l’inganno. Ed è da qui che dobbiamo partire. L’idea di ospedale dovrebbe rimandare ad un luogo di cura. In realtà, in questo contesto, la parola rimanda all’uso classico che del termine si fa alla nascita del potere manicomiale. L’ospedale guarisce in quanto panottico, in quanto nulla sfugge allo sguardo di chi, disciplinando, con la sola stessa regolamentazione delle vite guarisce imponendo al folle un principio di realtà. Si definisce psichiatrico perché è una perizia psichiatrica a sottrarre il reo dalle maglie del diritto, ma, paradossalmente, non da quelle della punizione. È infatti la perizia psichiatrica che sancisce il non essere penalmente responsabile. Giudiziario perché l’ultima parola spetta ad un giudice, quella che condanna e quella che forse un giorno libera.4 Ancora una volta una sottrazione del diritto. Anzi, probabilmente, una sottrazione applicata al prototipo del soggetto diverso su cui sono state modellate altre più recenti riduzioni o esclusioni dalla sfera giuridica naturale. Come spiega efficacemente Dell’Aquila, l’eccezionalità della condizione di un internato in Opg sta nel fatto che la sua pena non è il risultato di un processo, che garantisce la proporzionalità tra delitto e sanzione, preservando all’imputato la proprietà del diritto. Chi finisce nel circuito dei manicomi criminali, invece, è già uscito dal processo in quanto dichiarato incapace di intendere e di volere: ciò non significa, tuttavia, che sia esente da una pena spesso ancor più terribile di quella ordinaria, mascherata com’è da cura medica. Ma neppure più di tanto: all’esigenza riconosciuta della cura, infatti, si accompagna una “misura di sicurezza” tutt’altro che curativa, che viene comminata dal giudice senza alcun vincolo rispetto alla valutazione psichiatrica del soggetto: «Dalle pene le misure di sicurezza si distinguono per il loro diverso presupposto: che non è tanto, o non solo e comunque non sempre, la commissione di un reato, bensì la qualificazione della persona come “pericolosa socialmente” per la probabilità che commetta qualche reato futuro»5. Ma la punizione per un reato futuro è una bestemmia nello Stato di diritto. Così come la sproporzione tra reato e sanzione, che di fatto nell’Opg diviene frequente, anche in assenza esplicita del termine “pena”. Le cosiddette misure di sicurezza, infatti, possono essere prorogate in maniera indefinita dal giudice di sorveglianza, qualora egli ritenga che la pericolosità sociale del soggetto non sia venuta meno, oppure - cosa ben più spaventosa - qualora non si trovino strutture sanitarie d’accoglienza alternative al manicomio. Questo sistema della proroga della misura di sicurezza si può ripetere sino ad assicurare ad un internato una permanenza a vita in manicomio. Anche perché più il tempo trascorre più è difficile garantire un inserimento in comunità. Sono centinaia i casi di persone che si trovano in manicomio giudiziario da anni a fronte di reati minori. È il caso, ad esempio,di Rosario L., ligure; internato per oltre sette anni per un tentato furto, stava forzando un distributore automatico di sigarette. Il suo caso è significativo. Ha fatto il suo ingresso in un manicomio giudiziario di Barcellona di Pozzo di Gotto, nel 1995. Dopo due anni, nel 1997, viene trasferito in quello di Castiglione, e poi, nel 1999, a Montelupo Fiorentino, dove rimane sino al 2003. Nel febbraio 2003 giunge in quello di Napoli e il suo caso emerge durante una visita parlamentare. La disponibilità di una comunità di accoglienza ci sarebbe da almeno il dicembre 2001, ma la sua Asl di appartenenza ha una convenzione per soli tre posti letto. Si rendono necessari una campagna stampa e alcune interrogazioni per consentire a Rosario di uscire dal circuito dei manicomi giudiziari.6 La pratica può condurre a delle aberrazioni assolute, come quella che ha riguardato Vito De Rosa, un uomo internato per oltre cinquant’anni in manicomio giudiziario, senza aver usufruito mai di misure alternative e nemmeno di un permesso premio7. Se si considera che il massimo della pena, nel sistema penale ordinario, corrisponde a trent’anni di reclusione, si ha subito la misura delle conseguenze incontrollabili della soppressione del diritto. Per questo i manicomi giudiziari, ancora lontani dal trovare una collocazione normale nel sistema sanitario nazionale, costituiscono un caso su cui è opportuno mantenere viva l’attenzione. Forse per prevenire ciò che paventava Hannah Arendt, individuandovi il segno del totalitarismo culturale e politico: «Per stabilire se qualcuno è stato messo ai margini dell’ordinamento giuridico basta chiedersi se giuridicamente sarebbe avvantaggiato dall’aver commesso un reato comune»8. Tutti i reclusi in Opg, effettivamente, sarebbero avvantaggiati dall’essere processati e puniti secondo il codice ordinario; così come lo sarebbero i clandestini, sottratti all’arbitrio poliziesco della reclusione coatta e del rimpatrio. Per evitare che nella lista rientrino, progressivamente, altre categorie di soggetti svantaggiati, è indispensabile recuperare alla pienezza del diritto anche le poche eccezioni che finora vi abbiamo dovuto rubricare.

1. Il 24 gennaio 2008, in un voto di fiducia per il Governo Prodi, il senatore Dini, eletto nelle file del centrosinistra, insieme all’Udeur di Clemente Mastella, annuncia un voto contrario, contribuendo alla crisi dell’esecutivo. L’8 febbraio 2008 annuncia l’adesione della pattuglia dei Liberal Democratici al costituendo Popolo delle Libertà. Il 10 marzo è già ufficializzata la sua candidatura al Senato nelle fila del Centrodestra. 2. A. Dal Lago, Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli, Milano 2004, p. 8. 3. Ivi, p. 221. 4. D. S. Dell’Aquila, Se non t’importa il colore degli occhi. Inchiesta sui manicomi giudiziari, Filema, Napoli 2009, p. 13. 5. L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, Roma-Bari 1989, p. 811. Dell’Aquila dedica un capitolo del libro all’uso della coercizione fisica negli Opg, un altro segno della prevalenza della punizione sulla cura: gli otre cinquecento casi di pazienti isolati, legati ai letti di contenzione o in altro modo repressi rivelano spesso intenti sanzionatori piuttosto che preventivi o precauzionali (cfr. D. S. Dell’Aquila, op. cit., pp. 53-84). 6. Ivi, p. 33. 7. Cfr. F. Maranta (a cura di), Vito il recluso, Sensibili alle foglie, Roma 2005. 8. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2004, p. 397.