Adam Smith a Pechino o Marx a Shanghai?

LUCIA PRADELLA

Premessa L’interesse principale del libro di Giovanni Arrighi, Adam Smith a Pechino, consiste nelle problematiche che pone al centro dell’analisi e nell’affermazione della necessità di adottare una visuale globale per comprendere le trasformazioni sociali in corso e il possibile passaggio di egemonia dagli Stati Uniti alla Cina, di nuovo al centro dell’economia mondiale dopo più di un secolo di declino. La crisi degli Stati Uniti in Iraq, provocata dalla resistenza del popolo iracheno, sarà molto probabilmente, secondo Arrighi, la molla della crisi terminale della loro egemonia e determinerà la fine del primo e unico secolo americano, “il lungo ventesimo secolo”. Tali trasformazioni epocali mettono in crisi l’impostazione euro-centrica delle scienze sociali e pongono questioni fondamentali sul futuro dell’umanità. Quali ne saranno gli esiti? Un’acutizzazione della concorrenza internazionale e della guerra - con la corsa verso il fondo delle condizioni di lavoro e di vita a livello globale e gli scenari di “scontro di civiltà” che si stanno dischiudendo in questi anni - o una crescita pacifica e cooperativa? Arrighi propende per la seconda ipotesi: la tesi di fondo del suo libro è che “l’intuizione di Smith di una società del mercato globale basata su una maggiore equità fra le diverse aree mondiali di civiltà [è] più vicina alla realtà di quanto non lo sia mai stata nei quasi due secoli e mezzo trascorsi dalla pubblicazione della Ricchezza delle nazioni” (Arrighi 2007: 20). Sarebbe quindi necessario un ritorno a Smith, più attuale di Marx per comprendere questa fase storica e i suoi possibili sviluppi. Su questa proposta, non solo teorica, si concentra il presente articolo.

1. La “crescita virtuosa” della Cina In questi anni si sta verificando un ritorno della Cina al centro dell’economia mondiale. Di ritorno tratta perché la Cina è stata una delle principali economie al mondo almeno fino al 1820, quando, a causa della crescente importazione di oppio, la bilancia commerciale si spostò a favore dell’Inghilterra, che sfruttava i suoi possedimenti coloniali in India per produrre ed esportare illegalmente questa droga nel Celeste Impero, dove provocava conseguenze devastanti sulla popolazione e drenava l’argento circolante, causando anche la crisi fiscale dello Stato. Quando le autorità cinesi tentarono di opporsi, l’Inghilterra rispose con le cannonate. Le guerre dell’oppio segnarono un passaggio di qualità della penetrazione occidentale in Cina, che, da allora, venne perseguita anche per mezzo dell’aperta aggressione militare, ad opera prima della sola Inghilterra, con la successiva collaborazione concorrenziale delle potenze europee, degli Stati Uniti e del Giappone1. Queste aggressioni economiche e militari - con l’imposizione dei “trattati ineguali”, delle “concessioni” di territorio e degli enormi indennizzi di guerra pagati per mezzo dell’indebitamento dell’Impero e con la successiva penetrazione del capitale occidentale - portarono ad un progressivo impoverimento della popolazione, dando avvio a quello che viene chiamato dai cinesi “il secolo delle umiliazioni”. Uno dei meriti della ricostruzione di Arrighi è quello di mettere in luce che la crescita attuale della Cina si poggia su delle “basi rivoluzionarie”: egli sostiene, infatti, che è stato lo straordinario risveglio prodotto dalla rivoluzione popolare ed anti-coloniale del 1949 ad aver messo fine al “secolo delle umiliazioni” e ad aver posto le premesse - con la riforma agraria e con lo sviluppo delle infrastrutture, del sistema sanitario e dell’istruzione - al suo sviluppo attuale. Bisogna considerare, oltre ai dati da lui forniti, che, nel primo trentennio della Repubblica popolare, il PIL si è più che triplicato, il prodotto reale pro capite è aumentato di più dell’80% e la produttività del lavoro del 60%. La struttura economica della società cinese ne è uscita profondamente trasformata: nel 1978, l’industria ha superato l’agricoltura nel contributo al PIL (Maddison 1998: 71). Su queste basi si sono poggiate le riforme di Deng e dei suoi successori. Arrighi non approfondisce la questione, che definisce controversa, “se le riforme di Deng abbiano consolidato o deteriorato quelle conquiste” (Arrighi 2007: 409) e sostiene che esse non hanno scatenato le forme di “accumulazione originaria” specifiche dell’Europa occidentale, grazie, in particolar modo, al ruolo svolto dalle imprese e municipalità di villaggio. Nonostante ammetta che le riforme hanno generato delle forme di “accumulazione per spoliazione” e approfondito le disuguaglianze e il malcontento sociale, egli sottolinea che esse hanno prodotto nel contempo un incremento del tasso di alfabetizzazione e del reddito pro capite e che hanno dato impulso ad uno sviluppo economico tale da far diventare la Cina la “locomotiva dell’Asia orientale” e una delle maggiori nazioni commerciali al mondo2. Questo l’ha resa un potenziale centro alternativo dell’economia e della politica mondiale, e le permette di porsi alla guida di una nuova, e ancor più solida, Bandung. La sua influenza è cresciuta infatti nei paesi del Sud del mondo - dall’India all’Iran, dall’Africa al Sud America - dove promuove investimenti senza le condizioni strangolatorie dei prestiti occidentali e offre assistenza allo sviluppo - e anche in Europa. Si starebbe verificando, secondo Arrighi, una vera e propria inversione di rotta nelle relazioni tra gli Stati del Nord e quelli del Sud del mondo: questi ultimi avrebbero cominciato a pagare i propri debiti e i paesi produttori petrolio starebbero re-indirizzando il proprio sovrappiù verso il Sud del mondo. Sfruttando la competitività della propria economia, inoltre, la Cina starebbe cercando di esigere vere misure di liberalizzazione e “globalizzazione” del commercio internazionale. Ma chi l’ha detto che la “globalizzazione” è per forza negativa? La Nuova Bandung di cui la Cina è alla guida potrebbe trasformare il mercato mondiale in uno strumento per riequilibrare i rapporti di forza tra il Nord e il Sud del mondo e potrebbe dar vita a un Commonwealth di civiltà, la cui teorizzazione viene fatta risalire ad Adam Smith.

2. La “differenza” dell’Asia Nonostante, storicamente, la potenza declinante abbia sempre fatto ricorso alla guerra per mantenere la propria egemonia e questo stia accadendo anche oggi, Arrighi sostiene che sarebbe un errore mettere a fuoco opzioni esclusivamente competitive e non cooperative nelle relazioni tra le grandi potenze dominanti e quelle emergenti. L’attuale fase storica avrebbe una particolarità, dovuta alla “differenza dell’Asia” e alla sfida della pacifica ascesa che essa pone. L’esperienza storica del sistema di Stati dell’Asia orientale è, a suo dire, essenzialmente diversa da quella occidentale: lo Stato in oriente nasce prima che in occidente e ha una natura introversa3. L’impero Qing nutriva un’avversione nei confronti dell’arricchimento privato e i capitalisti (commerciali) erano un gruppo sociale subordinato. Per questo la Cina presentava, secondo Arrighi, un’economia di mercato non capitalistica (Arrighi 2007: 395). Sarebbero state proprio le politiche di introversione praticate dai Qing in Cina e dai Tokugawa in Giappone ad aver portato ad una brusca riduzione del commercio tra le nazioni asiatiche a partire dall’inizio del 1700, andando a creare un vuoto in tutta l’Asia marittima in cui si poterono inserire, anche grazie alla loro superiorità militare, gli europei con le loro compagnie commerciali e i loro mercanti. Mentre Arrighi tende a ricondurre l’isolamento della Cina a dei “fattori interni”, alla natura del suo “sistema statale”, e a vedere in esso uno dei fattori che hanno permesso l’espansionismo europeo, altri autori, tra cui lo stesso Marx, non ritengono che esso fosse una caratteristica intrinseca di quella società e lo fanno risalire piuttosto ad una reazione all’aggressività delle compagnie commerciali europee da parte della dinastia Qing (Manciù)4, preoccupata dalla possibilità che gli stranieri fomentassero il malcontento sociale interno, che era all’origine delle croniche rivolte contadine che hanno segnato la storia cinese. “Non v’è dubbio che i tempestosi contrasti fra le nazioni europee gareggianti nel commercio con la Cina verso la fine del secolo XVII diedero energico impulso alla politica isolazionistica dei Manciù; ma non meno vi contribuì il timore della nuova dinastia che gli stranieri fomentassero il malcontento serpeggiante in larghi strati della popolazione durante il primo mezzo secolo o più di soggezione ai tartari” (Marx e Engels 2008: 50). Oltre ad isolare la politica dell’Impero dal contesto internazionale, Arrighi non approfondisce neanche la natura dei rapporti sociali interni, e si richiama all’analisi della Cina contenuta nelle pagine de La Ricchezza delle nazioni. L’opera principale di Smith venne pubblicata nel 1776, all’alba della rivoluzione industriale, in una fase in cui l’economia cinese era ancora prospera, tanto che egli afferma che “la Cina è un paese molto più ricco di qualsiasi parte d’Europa” (Smith 1995: 203). Durante tutto il XVIII secolo il commercio con la Cina dell’Inghilterra (che aveva una fondamentale base di appoggio nello sfruttamento coloniale dell’America) era cresciuto costantemente5. Dalla metà del secolo, inoltre, si era verificato un cambiamento profondo della presenza britannica in Asia: la Compagnia delle Indie Orientali aveva conquistato il Bengala, dando avvio alla progressiva penetrazione territoriale nel subcontinente indiano e da lì a tutta l’Asia, che sarebbe proseguita nel secolo successivo. Smith definisce l’economia cinese come naturale perché fondata sull’agricoltura e sul commercio interno, senza presentare quindi la fondamentale unione tra agricoltura e industria domestica (documentata anche dalle sue fonti, come F. Bernier) che era la sua caratteristica principale, soprattutto rispetto all’Inghilterra, dove queste attività si stavano progressivamente separando e specializzando. La crescita del settore agricolo avrebbe creato, per Smith, le condizioni per lo sviluppo spontaneo ed armonico del commercio estero e della manifattura, qualora le leggi non avessero imposto dei limiti non necessari, come Smith rimprovera alle istituzioni cinesi (innaturali, dunque?). Questa sarebbe stata la via naturale dello sviluppo, tutto l’opposto quindi di quella seguita dall’Europa, innaturale perché centrata sul commercio e le manifatture. Pur distinguendosi per il suo tentativo di analizzare il funzionamento interno dell’economia cinese, Smith non si discosta al fondo dalla tendenza più generale del discorso europeo sull’Asia a lui contemporaneo di descriverla in contrapposizione all’Europa con intenti riformatori, in questo caso a favore dell’instaurazione del libero commercio. Una misura, questa, che, a ben guardare, e per quanto Smith li potesse definire innaturali, rispondeva agli interessi di espansione dei mercati delle manifatture inglesi6. Se andiamo a leggere con attenzione La ricchezza delle Nazioni, ci rendiamo conto inoltre di come Smith non abbia sviluppato un’analisi sistematica dell’economia cinese precapitalistica. E’ certo vero che egli critica e ridicolizza le fonti degli illuministi europei in quanto costituite da “viaggiatori semplici e facili alla meraviglia, spesso da missionari stupidi e bugiardi” (Arrighi 2007: 72), ma, se Arrighi avesse proseguito nella citazione, avrebbe riferito anche che Smith riteneva più plausibili le descrizioni contenute nei resoconti di viaggio di Bernier, ossia di colui che coniò la categoria di dispotismo asiatico7. In un altro passaggio, Smith presenta un’immagine della Cina ben diversa da quella rosea precedentemente citata, sostenendo che “la povertà dei ceti inferiori della società cinese va molto al di là di quella delle più miserabili nazioni d’Europa. Si dice che nei sobborghi di Canton molte centinaia e forse migliaia di famiglie non hanno ricovero in terraferma, ma vivono abitualmente su barchette da pesca lungo i fiumi e i canali. Ricavano così poco da vivere che ripescano avidamente i più schifosi rifiuti gettati fuori bordo dalle navi europee. Una carogna, per esempio la carcassa di un cane o di un gatto morto, anche mezza putrida e puzzolente, da loro è bene accetta come dalla gente di altri paesi il cibo più sano. Il matrimonio in Cina è incoraggiato non dalla convenienza ad avere figli ma dal diritto di sopprimerli” (Smith 1995: 113). Arrighi non affronta questi aspetti problematici e sostiene che “le descrizioni che Smith ci dà della Cina sono altrettanto lontane dalle ‘sentenze accusatorie di Montesquieu’, Diderot e Rousseau che dovevano sfociare nell’infamante definizione marxiana di ‘modo di produzione asiatico’, quanto dalle descrizioni grondanti ammirazione dell’ala ‘sinofila’ dell’Illuminismo europeo rappresentata da Leibniz, Voltaire e Quesnay” (Arrighi 2007: 71). Ci potremmo ragionevolmente aspettare, dopo una simile accusa, almeno un commento dei testi di Marx sul modo di produzione asiatico. Niente di tutto ciò: Arrighi si limita a riportare alcuni passaggi del Manifesto (1848). Una lacuna non da poco, dal momento che è proprio a partire dal 1850 che Marx iniziò a scrivere specificamente sulla Cina in articoli infuocati contro le guerre dell’oppio. Per quanto riguarda le fonti, va sottolineato che, se inizialmente Marx considerava valida l’analisi di Bernier del dispotismo asiatico, successivamente, grazie ad uno studio più approfondito del dibattito sulla proprietà del suolo, egli mise in discussione la validità della generalizzazione da lui compiuta delle condizioni presenti nello stato del Gran Mogul a tutta l’Asia8. La categoria di “dispotismo asiatico” venne superata da Marx nelle sue formulazioni sul modo di produzione asiatico, basate sull’analisi delle relazioni produttive proprie di quelle società e sulle loro differenze con il modo di produzione capitalistico. La pubblicazione dei suoi quaderni di estratti9 dimostra inoltre che egli continuò a studiare, fino agli ultimi anni di vita, le società precapitalistiche dall’Asia all’America alla stessa Europa, rivolgendo la propria attenzione alle trasformazioni provocate in esse dall’estensione del commercio e dalle conquiste coloniali. Marx si poneva in modo pressante il problema delle fonti, lamentandosi per la povertà di dati empirici su cui gli scrittori inglesi elaboravano le proprie considerazioni, spesso dettate da interessi colonialistici10. L’accusa di Arrighi non tiene conto né dei testi, né, tanto meno, dell’evoluzione del pensiero di Marx sull’Asia. Un’assenza rumorosa, in un libro dedicato proprio a questo argomento, e che va ricondotta, a mio avviso, alla volontà di liquidare l’impostazione di fondo della sua analisi, centrata sui rapporti di produzione, che per Marx sono la base delle forme specifiche di organizzazione politica delle società. “E’ sempre il rapporto diretto tra i proprietari delle condizioni di produzione e i produttori diretti (...) in cui noi troviamo l’intimo arcano, il fondamento nascosto di tutta la costruzione sociale e quindi anche della forma politica del rapporto di sovranità e dipendenza, in breve della forma specifica dello Stato in quel momento” (Marx 1994, Libro III: 903). Nel capitolo dei Grundrisse sulle “forme precedenti l’economia capitalistica” (Marx 1997 Volume II: 94-148), Marx parla della forma asiatica come di un sistema sociale in cui il lavoratore non è ancora separato dalla terra, non si è spezzata l’unità tra agricoltura e industria domestica, non c’è antagonismo tra città e campagna e l’economia è integrata nella sfera della comunità o dei rapporti famigliari. Il sovrano, in quanto personificazione e presupposto dell’unità complessiva, si appropria del plus-prodotto agricolo delle comunità o delle famiglie per mezzo delle imposte e dispone del loro lavoro collettivo per le opere pubbliche. Essendo la prima forma sociale antagonistica, quella asiatica è la prima a presentare un’organizzazione statuale. Il commercio interno, in questo tipo di società, avviene principalmente tra i contadini e non con le città (Vries 2003: 26), che si formano dove ci sono dei punti favorevoli per il commercio con l’estero e dove risiede il sovrano. L’elevata produttività di questo modo di produzione costituiva una barriera all’estensione del mercato delle industrie europee: le aggressioni coloniali miravano ad appropriarsi della forza dello Stato proprio per distruggerne la fondamentale unione tra agricoltura e industria domestica e per costringere l’attività produttiva a specializzarsi nella sfera primaria, come avvenne in India. Per questo, nei Grundrisse, questo capitolo segue quello sull’“accumulazione originaria” del capitale: come giustamente sottolinea Krader11, esso non presenta delle formazioni sociali considerate isolatamente, ma è parte integrante dell’analisi del processo di accumulazione capitalistico nel suo processo di continua azione e reazione con le forme sociali precedenti, che esso mira a subordinare, distruggendo le basi della “comunità naturale” (Roux 2008).

3. Capitalismo, Stato e mercato Arrighi sostiene che la principale lacuna di Marx consiste nel mancato approfondimento del ruolo dello Stato nell’economia e che a questo proposito andrebbe rivalutato Smith, che, contrariamente alla vulgata neoliberista12, “presuppone l’esistenza di uno Stato forte, capace di creare e riprodurre le condizioni necessarie per l’esistenza del mercato stesso, capace di servirsene come di un efficace strumento di governo e capace di imporgli delle regole intervenendo attivamente per limitarne le conseguenze socialmente o politicamente negative” (Arrighi 2007: 57). Arrighi non svolge però un’analisi approfondita né degli scritti politici né delle pagine de Il capitale in cui viene trattata la funzione dello Stato, arrivando a presentare quasi un “Marx neoliberale” non molto diverso da un giornalista “embedded” come Thomas Friedman. Più che di Marx, quella che appare evidente è dunque la lacuna di Arrighi. E chiare ne appaiono anche le cause: liquidando la sua analisi dei rapporti di produzione, Arrighi non può approfondire neppure quella dello Stato. Per Marx, il capitale è un rapporto sociale caratterizzato dall’antagonismo tra la classe capitalista e quella lavoratrice, sorto storicamente per mezzo di un processo di separazione dei produttori diretti dai mezzi di produzione. Nel capitolo XXIV egli descrive la fondamentale funzione svolta dallo Stato nella genesi di questo rapporto13, sul piano sia nazionale che internazionale, nel processo di espropriazione dalla terra dei contadini, nel disciplinamento del proletariato e nel supporto alle manifatture oltre che nella “accumulazione” degli enormi capitali mercantili e usurai da cui sorse il capitale industriale. Tale esposizione storica è strettamente legata all’individuazione dei mezzi permanenti cui il capitale ricorre per “garantire” la propria riproduzione allargata14, come sembra riconoscere anche Arrighi in alcuni passaggi. Egli si riferisce però solo al debito nazionale e al sistema creditizio, senza affrontare il ruolo dello Stato nel conflitto di classe né la concorrenza interstatale, il sistema coloniale e quello protezionistico, elementi fondamentali per discutere il nodo teorico centrale, ovvero il rapporto tra capitalismo, Stato e mercato mondiale. Adam Smith considera il capitalismo come un modo di produzione armonico, il cui corso auto-regolato porterebbe alla pace e alla crescita generale delle condizioni di vita dell’intera umanità15. Il mercato mondiale sarebbe costituito da una somma di nazioni potenzialmente paritarie ed indipendenti, che potrebbero svilupparsi industrialmente in un sistema di perfetta concorrenza ed equilibrio, passando tutte, grazie ad una crescita cumulativa, dalla produzione agricola a quella manifatturiera ed accrescendo così la propria ricchezza nazionale. Nonostante, in alcune parti della sua opera, Smith affermi che l’aumento della divisione tecnica del lavoro richiede un concomitante ampliamento del mercato estero e presenti i vantaggi apportati storicamente all’Europa, e all’Inghilterra in particolare, dalle conquiste coloniali, egli afferma che questi processi non sono spinti da necessità, nemmeno da un’utilità assoluta. La fondazione delle colonie e il sistema mercantile avrebbero portato anzi ad uno svantaggio generale, tale per cui egli definisce “follia e ingiustizia” i principi che ne stanno alla base. Nel capitolo sulla manifattura, inoltre, è lo stesso Marx a riportare che Smith aveva denunciato, ma solo nell’ultima parte della sua opera, gli effetti deleteri della divisione del lavoro sugli operai, celebrata “ex professo” all’inizio come fonte di benessere generale, e che aveva raccomandato per loro l’istruzione popolare, “seppur a prudenti dosi omeopatiche” (Marx 1994 Libro I: 406). Quello che Smith non chiarisce è l’obiettivo di fondo della divisione del lavoro, la riduzione del valore della forza lavoro, che rende necessaria la sua estensione nella manifattura e nella società. “La divisione manifatturiera del lavoro è soltanto un metodo particolare per generare plusvalore relativo, ossia per aumentare a spese degli operai l’autovalorizzazione del capitale, quel che si suol chiamare ricchezza sociale, «Wealth of Nations»” (Marx 1994 Libro I: 408). Lo sviluppo delle manifatture presuppone, per Marx, un certo grado di divisione sociale del lavoro, in primo luogo tra città e campagna, che esso, a sua volta, approfondisce ed estende. Esso non avverrebbe inoltre spontaneamente né sarebbe possibile in condizioni di “libero mercato”, ma richiederebbe il sostegno dello Stato per mezzo del sistema protezionistico16, la cui efficacia viene potenziata da quello coloniale, che permette di estirpare con forza ogni industria dai paesi dipendenti, costringendoli a specializzarsi nella produzione di materie prime e ad acquistare le merci delle proprie manifatture. “L’ampliamento del mercato mondiale e il sistema coloniale, che fan parte della sfera delle condizioni generali della sua esistenza, forniscono al periodo manifatturiero abbondante materiale per la divisione del lavoro entro la società” (Marx 1994 Libro I: 397). Nel XVIII secolo la politica estera inglese, mirando al virtuale monopolio delle colonie d’oltremare, fu sistematicamente aggressiva. Enorme fu l’espansione del commercio coloniale, che crebbe dal 15% dei traffici nel 1700 al 30% nel 1775 (Hobsbawm 1968: 51) - l’anno precedente alla pubblicazione de La ricchezza delle nazioni. Nonostante l’opera di Smith presenti numerosi riferimenti storici a questi processi, la sua teoria economica non ne tiene conto e si fonda sul presupposto irrealistico ed antistorico che il colonialismo e l’estensione forzata del mercato mondiale siano una fase accidentale del capitalismo, il cui sviluppo sarebbe possibile in un sistema nazionale chiuso. Smith, e poi Ricardo e Say in modo ancor più risoluto, affermano inoltre che tutto il capitale di un paese può essere vantaggiosamente impiegato al suo interno e che le crisi non hanno un carattere strutturale perché l’accumulazione produrrebbe occupazione e quindi un corrispettivo aumento della domanda dell’intera società. Marx afferma che, se da un lato aveva sostenuto questa tesi, dall’altro, con il suo abituale intelligente istinto, Smith l’aveva anche negata, descrivendo lo sviluppo semplice dal mercato interno al mercato esterno come dettato da una sovrapproduzione relativa sul mercato interno. La teoria di Smith non può tener però strutturalmente conto di questi elementi ed è in contrasto con la storia reale, fatta di violenza, conquista e soggiogamento, in quanto esprime gli interessi del capitalismo inglese in ascesa, che può descrivere come armonico, pacifico e conforme al diritto solo occultando lo sfruttamento e presentando il ricorso alla violenza diretta come un’eccezione17. Ed è per questo che, proprio mentre sta infuriando il processo di eclusures e l’Inghilterra mira a trasformare il mondo in una riserva di materie prime e di mercati di smercio per le proprie manifatture, Adam Smith presenta come naturale sia la condizione del lavoratore salariato, separato dalla terra, che l’economia cinese. Ciò riposa sulla naturalizzazione del modo di produzione capitalistico in quanto tale, e risponde, in particolare, agli interessi di una determinato sistema, quello inglese. Queste considerazioni vengono confermate anche dalla lettura: la proposta del Commonwealth delle nazioni, descritta alla fine dell’opera come “una nuova utopia” (Smith 1995: 760), non era estesa a tutti gli stati del mondo, ma solo alle colonie inglesi e alla “madrepatria”, ed era volta a trovare una soluzione alternativa all’imminente separazione delle colonie “ribelli” americane oltre che a ridurre il debito nazionale e le spese dell’impero. Adam Smith non era contrario invece al mantenimento dei forti commerciali in Africa e delle crescenti acquisizioni territoriali in Asia, ma auspicava che la loro gestione passasse dalle compagnie commerciali al governo. Riferendosi all’Africa, Smith sostiene che “alcuni particolari rami del commercio, che sono svolti con popoli barbari e incivili, richiedono una protezione straordinaria. [...] Per difendere tali merci dagli indigeni barbari bisogna che il luogo in cui sono depositate sia in qualche misura fortificato” (Smith 1995: 601). “Al diritto di tenere forti e guarnigioni in paesi lontani e barbari è necessariamente collegato il diritto di fare la pace e la guerra in quei paesi”, per questo essi dovrebbero essere affidati al governo, che, a differenza delle compagnie commerciali, è veramente “interessato alla prosperità dell’impero” (Smith 1995: 619 e 618). Fu esattamente questo cio’ che avvenne in seguito della repressione della sollevazione dei Sepoys, in India (1858), con il passaggio di consegne dalla Compagnia delle Indie Orientali alla Corona Britannica. L’unione auspicata da Smith, e che Arrighi ripropone oggi come una prospettiva foriera di pace e prosperità globale, non ha quindi mai messo in discussione i supremi interessi del capitale inglese, la concorrenza internazionale e l’impero. Per gli stessi motivi, Smith non era favorevole alle “tumultuose” coalizioni degli operai, la cui violenza e - a tratti - “follia” avrebbero portato raramente, a suo dire, a dei risultati positivi per i lavoratori, che avrebbero dovuto piuttosto aspettare l’aumento dei salari derivante “naturalmente” dalla crescita della ricchezza nazionale (Smith 1995: 109-113). Questa tesi, riproposta in forme analoghe nel Novecento da economisti come J. M. Keynes, secondo cui il miglioramento delle condizioni di lavoro e l’aumento del tempo libero dipende dalla crescita economica, trova però ampie smentite nella storia. Diversi studi dimostrano come la riduzione dell’orario (reale) di lavoro non è derivata dall’aumento della produttività ma è stata ottenuta dai lavoratori attraverso la lotta organizzata18. Proprio per questo in Inghilterra le coalizioni operaie furono considerate un delitto dal XIV al XIX secolo. Solamente nel 1871 il Parlamento inglese riconobbe i sindacati, ristabilendo però contemporaneamente, con un altro atto, la situazione precedente in una nuova forma. Ne Il capitale, Marx riferisce che “il parlamento inglese ha rinunciato solo di controvoglia e sotto la pressione delle masse [c.m.] alle leggi contro gli scioperi e le Trades’ Unions, dopo aver tenuto esso stesso, per cinque secoli, con egoismo spudorato, la posizione di una Trade Union permanente dei capitalisti contro gli operai” (Marx 1994 Libro I: 804). Questo riferimento testimonia come siano state le lotte dei lavoratori, e non qualche concessione dall’alto, ad aver costretto il parlamento inglese a modificare la legislazione sulle coalizioni operaie. Altrettanto fondamentali sono state le rivendicazioni collettive della classe operaia, nei paesi industrializzati, per le “conquiste” - mai definitive, come dimostrano gli sviluppi attuali - dei diritti politici e sociali nel corso del ‘900, così come il protagonismo di ampi settori delle classi subordinate per la vittoria delle rivoluzioni anticoloniali e per l’imposizione di politiche di redistribuzione dei risultati della crescita nazionale. Arrighi non evidenzia questi elementi, non proprio secondari, a proposito dell’intervento dello Stato nell’economia, arrivando a definire Smith un “partigiano del lavoro” (Arrighi 2007: 62). I riferimenti presenti nel suo libro sull’importanza delle lotte dei lavoratori e delle rivoluzioni anti-coloniali restano in questo modo, a mio avviso, solamente formali ed estrinseci.

4. L’internazionalizzazione del capitale e del lavoro salariato Pur avendo il merito di porre la questione del rapporto tra capitalismo ed espansione territoriale, continuando un dibattito con D. Harvey a proposito19, Arrighi non approfondisce l’elaborazione di Marx e sostiene che esiste una contraddizione tra l’analisi “economica” del Libro I e il capitolo sulla “accumulazione originaria”. Già nei Grundrisse, Marx aveva affermato che la tendenza a formare il mercato mondiale è data immediatamente nel concetto stesso di capitale e che solo nel mercato mondiale i rapporti borghesi si manifestano nella loro forma universale. Il capitale industriale non nasce, per Marx, in modo cumulativo e spontaneo dall’attività di Englishmen prodighi e risparmiatori, ma sorge dal capitale usuraio e da quello commerciale, formato dalle immense ricchezze sottratte attraverso la rapina, il saccheggio e la conquista ai popoli colonizzati. Una volta sviluppatosi, il capitale delle nazioni dominanti tende ad estendere il proprio “campo d’azione” al mondo intero, creando un sistema internazionale di divisione del lavoro ad esso funzionale e facendo permanente ricorso ai metodi descritti nel capitolo sulla cosiddetta “accumulazione originaria”. Il capitale si conclude, non a caso, con un capitolo sulla moderna teoria della colonizzazione del Wakefield, lodato da Marx nella Storia delle teorie economiche per il suo fondamentale apporto alla comprensione della trasformazione del plusvalore in capitale. Wakefield aveva posto in modo esplicito il problema del surplus di capitale e la necessità di trovare nuovi sbocchi per far fronte alla caduta del saggio di profitto, criticando duramente (richiamandosi anche agli aspetti dinamici de La ricchezza delle nazioni) la teoria ricardiana del capitalismo come di un “sistema nazionale chiuso” e sostenendo che l’accumulazione rende necessaria l’espansione del “field of action” del capitale per mezzo sia della liberalizzazione del commercio (a partire dall’abolizione delle Corn Law) che del rafforzamento dell’impero (Winch 1965: 73-89; Sullivan 1983: 609). “La scoperta delle terre aurifere ed argentifere in America, lo sterminio e la riduzione in schiavitù della popolazione aborigena, seppellita nelle miniere, l’incipiente conquista e il saccheggio delle Indie orientali, la trasformazione dell’Africa in una riserva di caccia commerciale delle pelli nere, sono i segni che contraddistinguono l’aurora della accumulazione originaria. Questi procedimenti idillici sono momenti fondamentali dell’accumulazione originaria. Alle loro calcagna viene la guerra commerciale delle nazioni europee, con l’orbe terracqueo come teatro. La guerra commerciale si apre con la secessione dei Paesi Bassi dalla Spagna, assume proporzioni gigantesche nella guerra antigiacobina dell’Inghilterra e continua ancora nelle guerre dell’oppio contro la Cina, ecc.” (Marx 1994 Libro I: 810) In questo passaggio del capitolo XXIV l’espansione coloniale dell’Europa viene descritta come un processo unitario e permanente: nella fase industriale, l’espansione del campo di azione del capitale viene realizzata primariamente attraverso la concorrenza e, quando necessario20, facendo ricorso all’intervento dello Stato e alle aggressioni coloniali. La discontinuità rispetto al periodo manifatturiero consiste nel fatto che la forza del capitale non dipende più primariamente da quella dello Stato, ma, viceversa, è la forza dello Stato a dipendere da quella del capitale, che raggiunge un’esistenza adeguata al proprio concetto e inizia “a muoversi da solo”, potenziando la portata distruttiva, sui paesi subordinati, dei processi di “accumulazione originaria”. Ed è per questo che, mentre, sino alla fine del XVII secolo, lo scarto nel livello di sviluppo economico tra le varie aree del mondo era poco rilevante (Bairoch 1976: 3), l’estensione del mercato mondiale, più che generare la crescita universale sostenuta da Adam Smith, ne fece aumentare il divario. La posizione di monopolio industriale di fatto dell’Inghilterra a livello mondiale portò, nei primi decenni dell’Ottocento, ad una progressiva messa in discussione del sistema mercantile quale era stato alla base del suo sviluppo (Winch 1965: 48), e al rafforzamento del tentativo di imporre a livello internazionale misure di liberalizzazione dei commerci che favorissero l’esportazione delle merci industriali. L’espansione del commercio era strettamente legata a quella del campo di investimento: dalla fine delle Guerre Napoleoniche iniziò a crescere l’importanza degli investimenti esteri di capitale, che andarono a formare un “impero invisibile” esteso in tutto il pianeta (Jenks 1963: 1), creando, con lo sviluppo dei mezzi di trasporto, le condizioni adeguate al carattere internazionale del modo di produzione capitalistico (Marx 1994 Libro I: 427). Le merci industriali inglesi altamente competitive soppiantavano i prodotti dei paesi non industrializzati, che venivano costretti a specializzarsi nella produzione primaria, portando ad una concentrazione dell’attività industriale in Inghilterra, che puntava a diventare l’unico “centro industriale” di un mondo agricolo. Se i metodi dell’accumulazione originaria, per quanto distruttivi, “non scavarono al di là della superficie” della società indiana (Marx e Engels 2008: 69), il processo di concentrazione dell’attività industriale in Inghilterra e di distruzione della manifattura locale ebbe delle conseguenze tali da far affermare a Marx che “dal 1833 l’espansione dei mercati asiatici viene imposta mediante la distruzione della stirpe umana” (Marx 1994 Libro I: 504). L’apertura del mercato cinese, raggiunta per mezzo delle guerre dell’oppio, aveva fatto sperare ai capitalisti inglesi, e ai loro alleati, di poter ripetere quanto realizzato in India, ampliando il proprio mercato estero e scongiurando le crisi di sovrapproduzione e sovra-speculazione, tanto che essi costruirono appositamente numerose fabbriche. Nei suoi articoli, Marx denuncia la rapina e il dominio esercitati dall’Inghilterra con il supporto parlamentare come i metodi liberali da essa usati per sostenere gli interessi dei liberoscambisti di Manchester. Ma gli inglesi non riuscirono a conquistare il paese e a prendere in mano il potere dello Stato, e non furono in grado quindi di sconvolgere le basi della sua economia. La resistenza della Cina fece sì che le loro speranze fossero deluse21. Il “monopolio del capitale concentrato inglese e il suo effetto distruttivo sui piccoli capitali nazionali di altri popoli”, le disarmonie che provoca a livello mondiale, sono, per Marx, “le ultime espressioni adeguate delle disarmonie che nelle categorie economiche si sono fissate come rapporti astratti, o che hanno un’esistenza locale in ambito ristrettissimo” (Marx 1997 Volume II: 652). Ne Il capitale, Marx non analizza un “sistema nazionale chiuso”, ma pone il campo di accumulazione del capitale inglese, e quindi il campo di cooperazione e sfruttamento del lavoro, come completamente mondializzato e presuppone che il modo di produzione capitalistico si sia imposto ovunque (Marx 1994 Libro I: 637). Questa astrazione non è una forma di “idealtipo” alla Weber o un’espressione del capitalismo puro (e pacifico) alla Schumpeter - come sembra intendere Arrighi - né va ricondotta ad una presunta convinzione di Marx che l’universalizzazione del sistema capitalistico fosse inevitabile e avrebbe portato ad un “appiattimento del mondo”. I passaggi appena citati sono una chiara prova del contrario. Marx era ben consapevole che, all’epoca, l’enorme maggioranza della popolazione mondiale non viveva nell’orbita del modo di produzione capitalistico e che, se la separazione dei contadini dalla terra era quasi completa in Inghilterra, questo non era il caso del resto dell’Europa, e tanto meno del resto del mondo. Ne La guerra civile in Francia, egli sostiene che lo sfruttamento dei contadini da parte del capitale e dello Stato differisce da quello capitalistico solo nella forma; e i suoi studi sulla condizione di estremo impoverimento dei contadini nei paesi colonizzati e sul loro protagonismo nelle sollevazioni anti-coloniali sono innumerevoli. Questo prova che Marx non sottovalutava affatto l’importanza del lavoro svolto dai contadini ne’ il loro possibile ruolo rivoluzionario. Nel Libro primo de Il capitale, tuttavia, egli non prende in considerazione queste condizioni, presupponendo la completa estensione del lavoro salariato su scala mondiale (nel secolo XVIII i Fisiocratici avevano fatto lo stesso per una singola nazione, la Francia), riflettendo cosi’ il limit dello sviluppo capitalistico, che comporta un processo di continua espropriazione e proletarizzazione della popolazione rurale alla scala mondiale. Per analizzare la riproduzione del capitale, Marx fa astrazione dalle stratificazioni della forza lavoro e dalle persistenti differenze nelle forme giuridiche del loro sfruttamento (schiavitù, servitù della gleba, lavoro coatto, artigiano e contadino), dalla presenza di più stati, dalla struttura coloniale e polarizzante del mercato mondiale, dalle differenze nazionali dei salari, dalle resistenze all’espansione del capitale e dalle lotte operaie, per individuare le leggi dell’antagonismo tra capitale e lavoro nel suo pieno dispiegamento mondiale22. La tendenza generale, che surdetermina tutte le differenziazioni, è, per Marx, quella all’impoverimento progressivo della classe operaia, che viene considerata come una classe mondiale, riflettendo così la progressiva interdipendenza delle sue condizioni di vita e universalizzazione della cooperazione del lavoro. Per questo egli può invitare a studiare con attenzione i rapporti sul trattamento degli schiavi nelle colonie per “vedere a che cosa il borghese riduce se stesso e l’operaio, quando senza nessun impaccio può modellare il mondo a sua immagine e somiglianza” (Marx 1994 Libro I: 814). L’accumulazione si sviluppa in un circolo vizioso per cui il lavoratore rende se stesso relativamente eccedente in quanto membro della propria classe: l’effetto congiunto della concentrazione e della centralizzazione del capitale - ossia del lavoro morto, oggettivato - è l’incremento della composizione organica del capitale e la diminuzione relativa della domanda di lavoro. L’esercito industriale di riserva viene usato come un’arma di pressione sulla popolazione occupata per spingere al ribasso i salari e allungare la giornata lavorativa, ingrossandone così ulteriormente le fila. Con l’accumulazione cresce quindi la concorrenza che l’operaio, facendo agli altri, fa a se stesso in quanto membro della classe operaia, sia a livello nazionale che internazionale. Il processo di concentrazione e di centralizzazione (rafforzato dal sistema del credito) tende verso il punto limite in cui il capitale sociale totale raggiunge un’esistenza concreta, pervenendo alla ricchezza assoluta a cui esso intrinsecamente aspira (Marx 1994 Libro I: 185). Questo limite non è però mai raggiungibile, perché la concorrenza è intrinseca all’essenza stessa del capitale, che si presenta sempre come molti capitali: l’accumulazione la ripropone quindi in forma più acuta, incrementando gli antagonismi intercapitalistici e interstatali23. Lo sviluppo capitalistico e’, per Marx, un processo di riproduzione crescente dei suoi antagonismi. Mentre Arrighi concentra la propria analisi solo sulla potenza egemonica principale (gli Stati Uniti), senza esplicitare la “collaborazione competitiva” con le altre potenze e la dimensione internazionale del loro intervento, un punto messo in luce dal sopraccitato passaggio de Il capitale è che la concorrenza tra le nazioni europee avviene “con l’orbe terracqueo come teatro” e continua anche quando esse sono momentaneamente coalizzate per l’estensione delle proprie “sfere di influenza”, come nel caso dell’Inghilterra, della Francia e degli Stati Uniti nella conquista dei mercati cinesi. La presenza di una potenza egemonica non elimina dunque, secondo Marx, la concorrenza con le altre potenze nel mercato mondiale; il loro sviluppo industriale ne determina anzi un incremento. Il Capitale si conclude significativamente proprio con un riferimento all’enorme crescita economica degli Stati Uniti, presentati come la potenza destinata a sostituire l’Inghilterra nell’egemonia mondiale in un acuirsi della guerra di concorrenza internazionale (Marx 1994 Libro I: 836)24.

5. Destino e/o rivoluzione? Il presupposto della completa universalizzazione del modo di produzione capitalistico non significa che essa fosse ritenuta inevitabile. Arrighi solleva invece proprio questa critica, dicendo che Marx avrebbe sostenuto continuativamente, da Il Manifesto a Il capitale, tale “fatalità” e l’impossibilità della sopravvivenza delle società asiatiche al violento attacco della borghesia. In questo modo però egli fraintende, innanzi tutto, la caratteristica di fondo dell’analisi critica di Marx, secondo cui il capitalismo è un modo di produzione storicamente determinato e oltrepassabile e proprio per questo può essere concepito in quanto totalità, superando la dicotomia tra storia e teoria propria dell’economia politica classica. Lo sviluppo del capitalismo è, per Marx, lo sviluppo dei suoi antagonismi e pone le basi per la realizzazione, alla scala mondiale, della sua alternativa storica: il socialismo. Il capitale è, al fondo, l’analisi dell’antagonismo tra due diversi sistemi sociali, che Marx vede all’opera nella realtà e in cui interviene attivamente, anche sul piano teorico, elaborando gli “strumenti” necessari al movimento rivoluzionario. Numerose prese di posizione e il vivo interesse di Marx, negli ultimi anni della sua vita25, per le forme comunitarie di proprietà della terra in Asia e in Russia sembrano smentire ulteriormente questa critica. Essa non è inoltre affatto nuova: lo stesso Marx, nelle sue lettere alla redazione dell’“Otetschestwennyje Sapiski”, contesta quelli che cercano di trasformare “lo schizzo della genesi del capitalismo nell’Europa occidentale in una teoria storico-filosofica della marcia generale fatalmente imposta a tutti i popoli, in qualunque situazione storica essi si trovino”. Marx si pone certamente la questione se “l’umanità può compiere il suo destino senza una profonda rivoluzione dei rapporti sociali in Asia”, ma questo interrogativo ha un senso radicalmente diverso da quanto sostiene Arrighi, che avrebbe dovuto rivolgere la sua critica, più che a Marx, alla teoria staliniana delle tappe di sviluppo che tutti i popoli, isolatamente presi, avrebbero dovuto percorrere per giungere al “socialismo”. Nel corso degli anni ’50, anche grazie alla spinta che veniva dalle sollevazioni in Asia contro l’aggressione coloniale, Marx supera la convinzione, espressa ne Il manifesto, che la liberazione dei popoli asiatici dipendesse dalla rivoluzione in Europa, cogliendo un rapporto di azione e reazione reciproca tra queste due rivoluzioni. Nei suoi articoli, egli saluta con favore la sollevazione contadina dei Taiping - la cui causa principale, egli sostiene, erano state le guerre di aggressione dell’Inghilterra, che avevano fatto esplodere il malcontento sociale già serpeggiante in Cina26 - e la interpreta come parte di una più generale sollevazione della “grande nazione asiatica” contro il dominio coloniale inglese, che dalla Cina si estendeva fino all’India e alla Persia27. Se l’Inghilterra aveva scatenato la rivoluzione cinese ed asiatica questa rivoluzione avrebbe reagito col tempo sulla stessa Inghilterra, e, attraverso questa, sul continente europeo, accelerando i fattori di crisi economica e quindi le possibilità di un esito rivoluzionario. Ampliando continuamente i mercati per fuggire alle crisi, il capitale aumenta contemporaneamente i fattori di crisi e le possibilità di un rovesciamento del sistema. L’interconnessione globale del mercato mondiale pone le basi, secondo Marx, per l’unificazione e il rafforzamento reciproco delle lotte su scala internazionale, rendendo i fenomeni rivoluzionari strettamente interconnessi (Marx 1994 Libro I: 826). La vittoria della rivoluzione in Europa avrebbe potuto evitare che il capitalismo si espandesse anche negli altri continenti, permettendo di socializzare con gli altri popoli le sue conquiste ma non i suoi effetti distruttivi. Grazie al suo impegno nella Prima Internazionale e a studi successivi sulla questione coloniale, alla fine degli anni ’60 Marx sviluppa ulteriormente questa concezione dialettica, arrivando a porre le basi - con le sue prese di posizione sull’Irlanda - per concepire la rivoluzione internazionale come un unitario processo di “rivoluzione in permanenza”, in cui l’indipendenza delle colonie e dei paesi dominati è una forza agente che concorre alla stessa emancipazione del proletariato metropolitano28. Nel caso in cui, però, tale connessione, questa sì “virtuosa” secondo Marx, non si fosse verificata, e la Cina si fosse incamminata nella via dello sviluppo capitalistico, essa non poteva che seguirne le leggi inesorabili delineate ne Il capitale. Marx sostiene, proseguendo la sua lettera sulla Russia, che se essa “aspira a diventare una nazione capitalistica alla stessa stregua delle nazioni dell’Europa occidentale, e negli ultimi anni si è data un gran da fare in tal senso, essa non lo potrà senza prima aver trasformato buona parte dei suoi contadini in proletari: dopo di che, presa nel turbine del sistema capitalistico, ne subirà, come le altre nazioni profane, le leggi inesorabili” (Marx e Engels 2008: 245). A questo proposito, è di estremo interesse questo passaggio sulla concorrenza internazionale e sulla Cina aggiunto da Marx nell’edizione francese del Primo Libro, l’ultima da lui curata “personalmente” (tra il 1872 e il 1875), che non è stato poi integrato nel testo della terza e quarta edizione tedesca (e quindi nelle principali edizioni dell’opera circolate nel ‘900), ma riportato, parzialmente, in una nota. Marx sostiene che la “concorrenza cosmopolita” in cui il capitale ha gettato i lavoratori del mondo farebbe sì che, qualora in Cina si sviluppasse il modo di produzione capitalistico, la tendenza non sarebbe più solo quella di far scendere il salario inglese al livello di quello dell’Europa continentale, ma di far scendere il livello europeo a quello cinese. “De nos jours ces aspirations ont été de beaucoup dépassé, grâce à la concurrence cosmopolite dans laquelle le développement de la production capitaliste a jeté tous le travailleurs du globe. Il ne s’agit plus seulement de réduire les salaires anglais au niveau de ceux de l’Europe continentale, mais de faire descendre, dans un avenir plus ou moins prochain, le niveau européen au niveau chinois. Voilà la perspective que M. Stapleton, membre du parlement anglais, est venu dévoiler à ses électeurs dans une adresse sur le prix du travail dans l’avenir. “Si la Chine, dit-il, devient un grand pays manufacturier, je ne vois pas comment la population industrielle de l’Europe saurait soutenir la lutte sans descendre au niveau de ses concurrents - (Note 8, S. 523. 25: «Times, 9 Sept. 1873»).” (Marx 1989: 522) Nonostante le specificità storiche ed istituzionali di ogni paese (cui Marx ha sempre posto la massima attenzione), e quindi anche della Cina, che ha ancor oggi “una popolazione rurale maggiore dell’intera popolazione dell’Africa o dell’America Latina o dell’Europa” (Arrighi 2007: 412), la sua storia recente non fa che dimostrare questa previsione. L’estensione del modo di produzione capitalistico comporta l’estensione della concorrenza e della spinta ad abbassare il valore della forza lavoro. Questa tendenza non va letta in modo semplicistico, ma richiede una serie di mediazioni da cui l’analisi de Il capitale fa astrazione. Nei suoi articoli sull’India, ad esempio, Marx individua, oltre che gli effetti distruttivi della conquista, anche le condizioni che l’Inghilterra ha posto, suo malgrado, per la sollevazione unitaria del popolo indiano e per uno sviluppo nazionale indipendente, ed afferma che le condizioni materiali della massa della popolazione dipenderanno dalla sua appropriazione dei frutti di quello sviluppo. Le lotte dei lavoratori possono contrastare e limitare il grado di peggioramento relativo della loro condizione sociale, ma non possono arrestarlo a meno di non far cadere il sistema stesso29. Nell’esposizione di queste leggi consiste il carattere universale dell’opera di Marx, la sua capacità di afferrare la società capitalistica come totalità, e quindi il suo potere esplicativo per l’oggi; nonché il fondamento del “suo”, quanto mai attuale, programma di unificazione dei lavoratori alla scala mondiale. 6. Il circolo vizioso di Arrighi

Il fatto che, in Adam Smith a Pechino, tutte queste analisi e prese di posizione di Marx non trovino spazio e non vengano neppure menzionate è da ricondurre, a mio avviso, alla divergenza di fondo della posizione di Arrighi rispetto a quella di Marx. Per il primo, non tutti i processi di mercato (commercio, emigrazione della forza lavoro, scambi tecnologici e di informazione...) sono mossi da una logica capitalistica e le, diverse, logiche di potere, quella capitalistica e quella territoriale, operano essenzialmente nell’ambito delle politiche statali. Sono gli Stati i protagonisti principali dell’accumulazione “per spoliazione” e sono gli Stati a far fronte alla sovra-accumulazione creando in continuazione nuovi spazi, servendosi del capitale finanziario e del sistema del credito. Arrighi rovescia dunque la posizione di Marx, secondo cui lo Stato opera secondo la “logica” del capitale, e pone come soggetto lo Stato, senza esplicitare però quale ne sia la ”logica”. Non analizzando i rapporti di produzione e la “logica capitalistica” cui pure si riferisce, Arrighi non può approfondire infatti neppure la natura e la funzione dello Stato. In questo modo, però, si allontana anche da Smith, il quale non ha mai messo in discussione che le politiche statali dovessero essere finalizzate al perseguimento della ricchezza della nazione, ovvero all’accumulazione del capitale. Questo dimostra che, cercando di andare oltre Marx, tornando indietro, a prima di Marx, l’analisi di Arrighi non può che sfociare nell’indeterminatezza. Ed è per questo che la sua, più che una critica reale, è molto spesso solo una ripetizione di luoghi comuni triti e ritriti su Marx che cadono come foglie secche di fronte all’evidenza testuale. La stessa indeterminatezza si riscontra nei capitoli del libro sulla società cinese contemporanea. E’ possibile, a distanza di due secoli e mezzo, continuare a definire l’economia cinese come un’economia di mercato non capitalistica? Per quanto possa sembrare paradossale, Arrighi non prende esplicitamente posizione sulla natura della società e del modo di produzione cinese, e sostiene che non è chiaro se le riforme di Deng abbiano portato alla formazione di una classe capitalistica e se questa classe abbia potuto prendere il controllo sulle leve di comando dell’economia. “Tutto quello che si può dire è che, anche se in Cina il socialismo ha perso, il capitalismo, secondo questo schema, non ha ancora vinto. Le conseguenze sul piano sociale del titanico sforzo di modernizzazione oggi in atto in Cina restano ancora indeterminate [c.m.] e, per quanto ne sappiamo, non è detto che le tradizionali nozioni di capitalismo e socialismo siano gli strumenti più adatti per interpretare e comprendere questa realtà in continua evoluzione” (Arrighi 2007: 37). Ci si potrebbe aspettare - socraticamente - che Arrighi presenti, almeno per liquidarle, le “tradizionali” definizioni di capitalismo e di socialismo, ma questo punto centrale non trova né formulazione né risposta nel suo corposo volume. Egli sostiene che il carattere capitalistico di uno sviluppo su basi di mercato non è determinato dalla presenza di istituzioni e disposizioni capitalistiche, ma dalla relazione tra potere dello Stato e del capitale, e tutta la sua trattazione si fonda sul presupposto di fatto che la definizione della Cina come di un’economia di mercato non capitalistica sia valida ancor oggi. L’esposizione si muove quindi in un vero e proprio circolo vizioso: Arrighi non definisce il modo di produzione capitalistico e non approfondisce la natura del modo di produzione cinese, ma poi sostiene di fatto che esso è un’economia di mercato non capitalistica e afferma che questo mette in crisi le “tradizionali” nozioni di capitalismo e socialismo30. Per uscire da questo circolo vizioso dobbiamo porci invece proprio queste domande di fondo. Il modo di produzione capitalistico si definisce in base ai rapporti di produzione, alla separazione tra il lavoro e i mezzi di produzione, che si personificano di contro al lavoro in quanto capitale, e non in base a chi detiene il capitale, che può essere anche lo Stato. Se proviamo a guardare quali sono i rapporti di produzione nella Repubblica Popolare Cinese, prima e dopo Deng, ci accorgiamo che vi è sempre stata produzione di merci, con lavoro salariato (in una proporzione crescente in rapporto a quello contadino) da una parte e capitalisti dall’altra. E’ vero: il livello di autonomia decisionale dei singoli capitalisti era ed è limitato dal fatto che il potere politico è nelle mani del partito “comunista”, ma questo lo esercita in nome degli interessi della borghesia cinese quale classe nazionale complessiva. La vittoria della rivoluzione popolare e anticoloniale del 1949 diede finalmente inizio a quel risveglio della “grande nazione asiatica” le cui potenzialità Marx aveva già individuato il secolo precedente nella sollevazioni in Cina, in India e in Persia. Essa però, rimanendo confinata alla Cina, non ha portato al socialismo, ma ad una gigantesca mobilitazione di forze per l’accumulazione originaria di capitale con la collaborazione delle masse popolari, protagoniste della rivoluzione. La crescita economica è stata trainata dall’industria, che è arrivata, nel 1978, a superare l’agricoltura nel contributo al PIL, nonostante quest’ultima continuasse ad occupare l’80% della popolazione attiva. Il ruolo centrale delle masse popolari nella rivoluzione si è tradotto in un loro grande peso sociale (soprattutto operaio) nei primi decenni della Repubblica Popolare, che ha portato all’assicurazione di un minimo di “welfare state” per le più vaste masse della popolazione, a tangibili riscontri salariali e sociali, al contenimento delle disuguaglianze materiali tra la classe operaia e gli altri strati sociali non operai urbani e a relativi “privilegi” materiali, in qualche caso, dei lavoratori dell’industria. Questo è stato sicuramente un elemento specifico dello sviluppo cinese. Ciò non significa tuttavia che la Repubblica Popolare degli inizi potesse dirsi socialista, come conferma anche questa relazione di Edoarda Masi31, secondo cui la “democrazia popolare” si muoveva in “una sfera dai limiti precisi, che non oltrepassavano il livello delle comunità di base” mentre “al di sopra c’era la politica nazionale, alla quale il popolo era estraneo e indifferente, nonostante l’indottrinamento continuo. Non solo, ma il sistema burocratico - gerarchico gravava anche sulle comunità di base e ne condizionava l’autonomia”. “I lavoratori non detenevano potere politico né economico, e la loro condizione di merce non era sostanzialmente diversa da quella descritta dal marxismo per il sistema capitalistico”. Il varo delle riforme denghiste alla fine degli anni ’70 ha dato più libero corso alle leggi di mercato, smantellando le comuni nelle campagne, aumentando il potere dei manager e dei tecnici dentro le imprese e creando un numero crescente di zone speciali per i capitali stranieri, dove venivano assicurate le condizioni più favorevoli per lo sfruttamento dei lavoratori, privati anche formalmente, dalla Costituzione del 1982, del diritto di sciopero. Aprendosi maggiormente al commercio e alla concorrenza internazionale, l’economia cinese si è piegata ancor di più ai suoi imperativi, in anni in cui vedevano la propria affermazione le “politiche neoliberiste” e si determinava, a livello internazionale, una possente ridefinizione del rapporto tra lavoro e capitale a netto vantaggio del secondo (Harvey 2005: 36-37). Le riforme di Deng hanno dato il via ad un enorme processo di proletarizzazione, di crescita delle disuguaglianze - tra le classi, tra città e campagna, tra le province e all’interno dei settori rurali e urbani - e di degradazione ambientale, ed hanno determinato la perdita dei diritti sociali dei lavoratori. La riorganizzazione mercantile dei rapporti nel settore rurale e’ la causa dell’enorme processo migratorio verso le città, dove si fa pressante oggi il problema della disoccupazione di massa32. E’ difficile negare che questo enorme processo di “enclosures” - di proporzioni senza precedenti e che ha portato all’espropriazione e in molti casi all’impoverimento di decine di milioni di famiglie contadine (Lemons Walker 2008), costrette a migrare verso le città - abbia riproposto, in una forma storica specifica e in misura colossale, il processo di separazione dei contadini dalla terra descritto da Marx ne Il capitale. Senza considerare la reale portata sociale di questi processi è impossibile comprendere le ragioni della crescente conflittualità in Cina, della lotta di classe di cui pure Arrighi riferisce nel suo libro33, e si rischia di ripetere, in un’altra veste, la retorica della “società armonica” volta al “bene dell’umanità” profusa dalla leadership cinese. Nonostante la profondità di queste trasformazioni, tuttavia, non c’è stata alcuna rottura di fondo tra l’epoca di Mao e quella di Deng. Le riforme non hanno costituito infatti alcun “passaggio dal socialismo al capitalismo” né alcuna affermazione del “liberismo sfrenato”. Il regime di Deng ha proseguito nella strada della crescita nazionale capitalistica della Cina sforzandosi di controllare dall’alto lo sviluppo economico per mantenere una certa indipendenza nei confronti dell’occidente e contenere l’acuirsi degli antagonismi sociali, tramite alcune forme di tutela dei lavoratori, seppur estremamente depotenziate rispetto all’epoca precedente e accompagnate da crescenti misure repressive. I risultati conseguiti dalle riforme in termini di crescita economica hanno permesso degli incrementi dei salari reali della popolazione occupata (che coesistono con la diminuzione di quelli relativi) e la riduzione del tasso di povertà estrema (Lemoine 2003)34. Essi consentono inoltre la realizzazione di alcune misure di “stile keynesiano”, come il varo di progetti infrastrutturali finanziati dal deficit, in grado di assorbire l’eccedenza di manodopera e di capitale (Harvey 2007: 152)35. L’ultimo piano quinquennale ha stabilito, ad esempio, di investire nelle campagne una quota crescente di capitali per la costruzione delle infrastrutture e il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione rurale. A tal fine, sono state abolite anche le tasse sulla terra. Nel 2008 è stata varata inoltre una nuova legge sui contratti volta ad aumentare le tutele dei lavoratori, accolta con allarme dagli imprenditori cinesi e occidentali, che hanno condotto una vera e propria battaglia per limitare la crescita dei diritti dei lavoratori e del ruolo del sindacato36 ed hanno già iniziato a delocalizzare in paesi dove il costo della manodopera è inferiore37. Sul piano internazionale, è sicuramente vero che il potere del blocco tri-continentale che si sta intrecciando oggi tra la Cina e alcuni paesi del Sud America e dell’Africa è potenzialmente maggiore di quello del Movimento storico dei non allineati, per la forza dell’economia cinese da un lato e per la profonda crisi che stanno attraversando gli Stati Uniti dall’altro, e che esso sta portando dei benefici in termini di crescita in questi paesi38, ma questo non può nascondere, ancora una volta, né gli antagonismi sociali crescenti all’interno né il permanere di conflittualità tra questi paesi, inseriti competitivamente nel mercato mondiale. Sono stati proprio questi antagonismi, su cui hanno fatto leva le potenze occidentali, ad aver determinato il fallimento della Bandung storica, come lo stesso Arrighi sembra ammettere quando afferma che “il Partito comunista cinese non poteva far altro che giocare il gioco della politica mondiale con le regole che c’erano, ossia con quelle capitalistiche, come d’altra parte sapeva benissimo lo stesso Mao” (Arrighi 2007: 409). Fu proprio per perseguire i propri interessi capitalistici che il governo cinese - che negli anni ’50 e ’60 era stato uno dei maggiori promotori, sulla possente spinta delle rivoluzioni anti-coloniali dei popoli del Sud del mondo, del “Movimento dei non allineati” - nel 1967 getto’ acqua sul fuoco, con Mao, sulla sollevazione operaia della Comune di Shanghai39 e si mise sulla strada della distensione con gli Stati Uniti, proprio quando la resistenza vietnamita si stava rafforzando e in Occidente si stavano moltiplicando le lotte sociali, arrivando poi ad appoggiare gli USA nel golpe cileno contro Allende e nell’instaurazione della dittatura militare in Pakistan. Ma la rappresentazione, al fondo, sostanzialmente armonica dei rapporti sociali interni e internazionali dei paesi del “nuovo blocco tricontinentale”, in cui sembra - seppur in sordina - che potrebbe inserirsi anche l’Europa, fa sì che Arrighi possa riproporre questa prospettiva, dimostratasi già storicamente fallimentare, come foriera di pace e crescita globali.

7. Capitalismo, globalizzazione e guerra Due sono i motivi principali per cui Arrighi sostiene che la crisi degli ultimi trent’anni potrebbe aprire delle possibilità di crescita “smithiana”: oltre che la “differenza dell’Asia”, la fase completamente nuova della storia mondiale che staremmo vivendo. La crisi capitalistica avviene oggi, a suo avviso, al termine di una possente ondata di decolonizzazione che ha dato vita a un “mondo post-coloniale”. I paesi occidentali starebbero cercando di fronteggiare la crisi in un modo sostanzialmente diverso rispetto a quello in cui il capitalismo, con la guida dell’Inghilterra, ha risposto alla crisi della fine del XIX secolo. Gli Stati Uniti non disporrebbero di un impero da cui attingere le risorse, come la Gran Bretagna dall’India, e non sarebbero più i massimi finanziatori del pianeta, ricevendo anzi ingenti finanziamenti proprio dalla Cina e dal Sud globale. Le liberalizzazioni del commercio e degli investimenti (culminate nella formazione del WTO), portando ad un rafforzamento del mercato mondiale, agirebbero nel senso opposto a quello delle misure protezionistiche di fine Ottocento, e non sarebbe oggi riscontrabile una tendenza verso una generale corsa agli armamenti (presente, a suo avviso, solo negli Stati Uniti). Nonostante Arrighi sembri riconoscere, in alcuni passaggi del suo libro, che lo sviluppo capitalistico porta ad un’acutizzazione della concorrenza internazionale e degli antagonismi interstatali, come si è verificato ad esempio con lo sviluppo industriale degli Stati Uniti e della Germania, egli non riconduce l’aumento della concorrenza, sfociata in due guerra mondiali, al fatto che il capitale tedesco e quello statunitense hanno cercato di sostituire quello inglese nel mercato mondiale anche attraverso il dominio - sostanziale e/o formale - delle risorse e della forza lavoro del Sud del mondo. Qui la sua analisi si fa oscura: egli sostiene che inizialmente i rapporti tra Stati Uniti e il resto del mondo erano di “protezione legittima” e che solamente nel secondo dopoguerra c’è stato il passaggio all’“estorsione”. Tutto bene, quindi, fino alla conquista del Texas e del Messico e fino alla prima guerra mondiale? E che dire dei privilegi commerciali che gli USA acquisirono sfruttando la vittoria dell’aggressione inglese contro la Cina e delle ditte statunitensi che vi si stabilirono alla fine dell’800, sfruttando brutalmente i lavoratori cinesi? E della partecipazione di truppe statunitensi alla spedizione che marciò su Pechino per reprimere la sollevazione dei Boxers? Tutto da rubricare sotto la voce “protezione legittima”? La “svolta protezionista” di fine ‘800, inoltre, è stata attuata solamente dalle potenze industriali ascendenti dell’Europa continentale, non dall’Impero britannico liberista né dagli Stati Uniti protezionisti, in un periodo in cui si è verificata una più rapida espansione del commercio e degli investimenti internazionali, rafforzata anche dalle conquiste coloniali (Bairoch 1996). Ma, anche senza considerare questa “piccole” sviste storiche, ci potremmo chiedere se le liberalizzazioni forzate imposte per mezzo del FMI, della Banca Mondiale e del WTO ai paesi del Sud del mondo da parte degli Stati occidentali, che non hanno mai rinunciato a sovvenzionare nel contempo i rami produttivi “nazionali” più esposti alla concorrenza (come quello agricolo), hanno una davvero natura diversa da quelle misure protezionistiche. La ricostruzione di Arrighi ripresenta l’astratta contrapposizione tra protezionismo e libero commercio propria dell’economia politica classica, senza considerare che lo Stato interviene costantemente, per sostenere la crescita, con politiche economiche determinate dalla posizione di forza del capitale indigeno nel mercato mondiale. Le potenze occidentali si sono impegnate in modo costante per unificare ed estendere il commercio internazionale sotto il proprio stretto controllo, opponendosi alle barriere al commercio e agli investimenti poste dagli altri Stati, e adoperandosi attivamente a minarne l’“indipendenza economica”, anche se e quando non imponevano ad essi il proprio dominio politico diretto. La ”libera concorrenza” imposta dall’Inghilterra era uno strumento per concentrare la produzione industriale mondiale e per piegare le economie dei paesi subordinati, ricorrendo anche alle “guerre di civiltà”, il cui vero obiettivo, come dimostra Marx nei suoi articoli sulla Cina, era l’affermazione del monopolio del libero commercio. E ciò non è analogo a quanto sta accadendo negli ultimi decenni, in cui, per far fronte alla crisi di accumulazione, gli Stati occidentali hanno cercato di imporre proprio una relazione di tipo neocoloniale ai popoli del Sud e dell’Est del mondo, contrastandone ogni conato di sviluppo nazionale autonomo e cercando di piegarne la resistenza40? Non è questo l’obiettivo della “guerra infinita”? Le politiche neoliberali e la “guerra permanente”, ad esse strettamente connessa, costituiscono i mezzi con cui il capitale più concentrato, in mani occidentali, sta cercando di subordinare i risultati dello sviluppo nazionale indipendente dei paesi del Sud e dell’Est del mondo, spingendo verso il fondo le condizioni dei lavoratori e delle masse contadine, non solo nelle “periferie”. Una dimostrazione perfino troppo lampante dello stretto rapporto tra la guerra e le politiche commerciali e finanziarie è dato dall’Iraq: il dominio neocoloniale su questo paese ha facilitato l’introduzione delle misure di ristrutturazione economica del FMI, della Banca Mondiale e del WTO. La nuova legge “made in USA” (per ora bloccata in parlamento), secondo cui la maggior parte dei proventi del petrolio dovrebbero finire nelle mani delle grandi multinazionali statunitensi, gli attacchi ai diritti dei lavoratori e ai sindacati, l’immiserimento e il terrore in cui è costretta la maggior parte della popolazione sono la confutazione tangibile di tutti i discorsi possibili sui “mondi post-coloniali”. E il quadro non cambierebbe sostanzialmente se spostassimo il nostro sguardo verso la ex Jugoslavia o il Sud America. Il permanente processo di espropriazione della popolazione rurale, che sta dando vita a quello che Mike Davis definisce il “pianeta degli slums”, va a costituire un enorme bacino di manodopera eccedente, il più grande “esercito industriale di riserva” della storia, sfruttabile sia in loco che attraverso le migrazioni internazionali. L’integrazione del mercato mondiale, favorita anche dalla riduzione dei costi di trasporto, ha portato infatti ad un aumento della mobilità sia del capitale che del lavoro. L’enorme processo di dislocazione della produzione industriale avvenuto negli ultimi trent’anni - che rappresenta una trasformazione epocale, di cui però Arrighi quasi non parla - e le migrazioni internazionali permettono al capitale occidentale di sfruttare in modo differenziale i lavoratori del Sud e dell’Est del mondo, aumentando la concorrenza tra tutti i lavoratori alla scala mondiale e dando così un’ulteriore spinta alla spirale discendente delle condizioni della classe lavoratrice descritta da Marx. Il capitale finanziario è oggi, come alla fine dell’‘800, una leva fondamentale di questi processi e sta dando vita ad una centralizzazione della produzione mondiale senza precedenti. E così, mentre Arrighi sostiene la possibilità di un aumento generale del benessere, si sta registrando da decenni, anche negli Stati Uniti e in Europa, la tendenza inversa con crescita della precarietà e dell’insicurezza sul lavoro, alla diminuzione, oltre che di quelli relativi, anche dei salari reali e all’allungamento della giornata lavorativa, che può durare legalmente, secondo la nuova direttiva europea, fino a 65 ore settimanali41. Sicuramente la crescita della Cina e del nuovo “blocco tricontinentale” sta riuscendo a ridurre gli squilibri tra il Sud e il Nord del mondo, e la resistenza, dall’Afghanistan all’Iraq, sta ponendo una barriera al pieno dispiegamento di questi processi, acuendo i fattori di crisi negli Stati Uniti e in Europa. Ma questo, lungi dall’attutire gli antagonismi, non fa che spostarli su un gradino superiore. Il libro di Giulio Tremonti, Rischi fatali, descrive per certi versi più concretamente di quello di Arrighi alcuni processi in corso ed è interessante per il programma di azione proposto, che rispecchia, a mio avviso, le linee guida secondo cui molti governi in Europa e negli Stati Uniti intendono fronteggiare la crisi. Tremonti riconosce la crescente concorrenza tra l’“operaio occidentale” (la declinante “aristocrazia operaia”) e l’“operaio orientale” e la tendenza dei salari a livellarsi verso il basso (Tremonti 2005: 14), e denuncia i rischi, potenzialmente fatali, della crescita cinese per l’Europa, che sta perdendo in continuazione quote di mercato a causa della competitività delle merci cinesi42. Ma, per Tremonti, “il tempo dell’Europa non è ancora scaduto”: il suo declino può essere arrestato ritrovando il nomos della terra (Tremonti 2005: 105) e ricorrendo alle ricette, mai sorpassate, inaugurate proprio dagli Stati del “vecchio continente”, ovvero al protezionismo e - si fa capire tra le righe - alla guerra. Questa soluzione viene proposta come vantaggiosa non solo alle imprese, ma anche ai lavoratori “europei”, chiamati a far fronte comune con i “propri” governi in una “nuova” crociata anti-cinese, rivolta non solo all’esterno, ma anche contro l’insieme dei lavoratori immigrati. Aumentando la divisione e la concorrenza tra i lavoratori, diventa così possibile imporre l’altro lato della ricetta, quello interno, che prevede, tra l’altro, “l’abbattimento del costo del lavoro” (Tremonti 2005: 88). La concorrenza al ribasso tra i lavoratori viene riconosciuta, quindi, proprio per essere ulteriormente potenziata. In questa spirale discendente la guerra ha una funzione fondamentale, dettata da precisi imperativi di ordine economico, ed è per questo che essa non sembra effettivamente destinata a finire. Il rafforzamento della missione in Afghanistan, l’ininterrotta opera di manomissione e attizzamento delle spinte secessionistiche in Africa, le minacce di guerra contro l’Iran e il supporto e l’organizzazione ormai decennale del secessionismo tibetano indicano che gli Stati occidentali non sono intenzionati a rinunciare alla loro “egemonia” in modo pacifico e che puntano, almeno per il momento, a colpire “ai lati” e mettersi di traverso all’iniziale convergenza del “nuovo blocco emergente”, fomentandone contemporaneamente le divisioni interne43. D’altra parte è estremamente improbabile che una, inconsistente, “differenza dell’Asia” possa fare la differenza. E’ indubbio, infatti, che questa strisciante aggressione non puo’ che ingenerare un processo di autodifesa della Cina, che si traduce gia’ oggi nella necessita’ d aumentare la spesa militare. E se veramente la tradizione asiatica è essenzialmente diversa da quella occidentale e quasi immodificabile, com’è che il Giappone è stato uno dei principali artefici della colonizzazione della Cina? Forse perché, sviluppandosi industrialmente, ha assunto la logica estroversa propria del capitalismo e non tanto del sistema di Stati europeo. 8. Conclusioni

Arrighi tenta di rovesciare l’impostazione critica verso la “globalizzazione” e di dimostrare che essa potrebbe portare al benessere e ad un nuovo equilibrio tra, non meglio precisate, “sfere di civiltà”, sulla base di ricostruzioni storiche e teoriche parziali, lacunose e a tratti completamente errate, e tralasciando di analizzare le leve economiche di fondo delle trasformazioni sociali in atto. Il percorso di questo, corposo, volume è piuttosto disorganico e disarticolato: un vizio, questo, non solamente formale. Di fronte alla situazione presente, che sembra andare esattamente nella direzione opposta a quella da lui delineata, il discorso non può che declinarsi all’ottativo: egli biasima il fatto che la potenza egemonica declinante, al posto di cercare accordi e compromessi, tenti di bloccare il proprio tramonto trasformando l’“egemonia” in un “dominio” basato esclusivamente sullo sfruttamento e auspica il mantenimento di strumenti di redistribuzione della ricchezza e di aggiustamento delle storture del capitalismo tali da renderlo un sistema un po’ più “umano”. Da sempre però al cielo delle utopie fa da contro-altare questa vita terrena e il suo prosaico presente di sfruttamento e guerra. E’ nella critica immanente di tale presente che l’opera di Marx rivela ancor oggi la propria attualità. Non solo per l’analisi, ma anche per l’individuazione dell’unica forza sociale che può, veramente, “fare la differenza”.

1. Tra il 1850 e il 1859, Marx scrisse numerosi articoli sulla Cina per la “New York Daily Tribune”, raccolti in un’antologia da Bruno Maffi, ripubblicata di recente (Marx e Engels 2008). La prima guerra scoppiò nel 1839, quando il commissario imperiale cinese fece sequestrare 20.000 casse di oppio della Compagnia Inglese delle Indie Orientali. L’Inghilterra attaccò diverse località cinesi ed occupò Canton e Shanghai. La guerra si concluse con il trattato di Nanchino, il primo “trattato ineguale” imposto alla Cina, con cui l’Inghilterra riuscì ad ottenere l’apertura di cinque porti, la riduzione delle tariffe doganali e poteri extra-territoriali. La Francia e gli Stati uniti si affrettarono per ottenere le medesime condizioni. Nel 1856 la Gran Bretagna e la Francia mossero nuovamente guerra contro la Cina, che si concluse con la stipulazione del trattato di Tientsin, volto a limitare la sovranità dell’Impero e ad aprirlo al commercio. Marx aveva previsto che questo trattato avrebbe reso inevitabile la ripresa delle ostilità, cosa che avvenne nel 1859. Questa volta, però, la reazione cinese fu durissima: la forza di resistenza dell’esercito e dell’economia dimostrarono che essa non era facilmente conquistabile. 2. Nonostante Arrighi stesso sostenga che l’aumento del reddito pro capite non è accompagnato da un proporzionale aumento nel benessere di base, e che quindi non fa trasparire le disuguaglianze esistenti tra la popolazione, egli afferma che esso è un buon indicatore della forza di un’economia da un punto di vista capitalistico. “In un mondo capitalistico, come abbiamo più volte sottolineato, la ricchezza nazionale, misurata dal reddito pro capite, è la prima sorgente della potenza di una nazione”. (Arrighi 2007: 409) 3. Arrighi sostiene che, mentre il sistema di Stati europeo è caratterizzato da una continua competizione militare ed espansione geografica, il sistema di Stati dell’Oriente asiatico si distingue per l’assenza sia di scontri militari interni che di espansione geografica esterna. La lunga serie di guerre di frontiera della Cina, che completò la propria espansione territoriale intorno al 1760, non era finalizzata allo sfruttamento delle risorse come quella europea. 4. Una tesi simile viene sostenuta da P. Bairoch (1996). 5. L’Inghilterra sostituì definitivamente l’Olanda nel commercio con la Cina nel 1766 (Hobsbawm 1968: 51). 6. “Secondo questo sistema liberale e generoso, perciò, il modo più vantaggioso in cui una nazione terriera può far nascere presso di sé degli artigiani, dei manifatturieri e dei mercanti è quello di concedere la più perfetta libertà di commercio agli artigiani, ai manifatturieri e ai commercianti di tutte le altre nazioni. In tal modo essa eleva il valore del prodotto in sovrappiù della sua terra, il cui continuo aumento costituisce a poco a poco un fondo che, a tempo debito, fa nascere tutti gli artigiani, i manifatturieri e i mercanti di cui la nazione ha bisogno” (Smith 1995: 558-9). 7. Leggiamo: “Tuttavia i ragguagli su queste opere trasmessi in Europa sono forse dovuti a viaggiatori semplici e facili alla meraviglia, spesso a missionari stupidi e bugiardi. Se queste opere fossero state esaminate da occhi più intelligenti e se i ragguagli su di esse fossero stati riferiti da testimoni più fedeli, forse non risulterebbero tanto meravigliose. Il resoconto che il Bernier fa di alcune opere di questo genere nell’Indostan risulta assai inferiore a quanto è stato di esse raccontato da altri viaggiatori, più disposti a meravigliarsi. [...] Inoltre in Cina, nell’Indostan e in parecchie altre regioni asiatiche, il reddito del sovrano deriva quasi interamente da imposte o rendite fondiarie, che aumentano e diminuiscono con l’aumento e la diminuzione del prodotto annuo della terra. Perciò il grande interesse del sovrano, cioè il suo reddito, in questi paesi è necessariamente e direttamente connesso con la coltivazione della terra, con la grandezza e il valore del suo prodotto” (Smith 1995: 600). 8. Come si può leggere nella lettera ad Engels del 2 giugno1853. Dopo questa data, Marx iniziò a studiare in modo più approfondito il dibattito inglese sulla proprietà della terra in Asia, come si evince dalla lettura del quaderno XXII dei Londoner Hefte [di prossima pubblicazione in MEGA IV/11], arrivando a mettere in dubbio le posizioni del Bernier, il quale generalizzava la condizione sociale delle terre del Gran Mogul, dove non esistevano le comunità di villaggio, a tutta l’Asia. Nella lettera ad Engels del 14 giugno (dello stesso anno), Marx riferisce all’amico dei suoi studi sull’argomento. Una parte di questa lettera è stata pubblicata in India Cina Russia, p. 303-04. A proposito del rapporto tra Marx e Bernier, si veda anche Krader, The Asiatic Mode of Production (1975), pp. 88-92. 9. Già pubblicati, seppur parzialmente, da Krader (1972); da Harstick (1977) e nel volume Notes on Indian History (664-1858). L’edizione completa e storico - critica di tali quaderni avverrà nei prossimi anni nel volume MEGA? IV/27. 10. Nei suoi quaderni di studio di The Aryan Village in India and Ceylon, Marx si lamenta del fatto che Phear non offre abbastanza descrizioni empiriche della condizione sociale in India e a Ceylon, dicendo che avrebbe fatto meglio a dare delle descrizioni empiriche degli esempi che riporta piuttosto delle sue chiacchere ipotetiche. Negli estratti dal libro di Henry Summer Maine, Lectures on the Early History of Institutions, Marx denuncia la tendenza degli scrittori inglesi a ravvisare nelle istituzioni primitive forme di dispotismo, per giustificare quello dell’imperialismo inglese. (Krader 1972) 11. “If that discussion is conducted no further, is not related to the proceeding passage on accumulation of capital in the Grundrisse, it would be undialectical and false. Yet this is what the discussion on the epochs has accomplished until this time” (Krader 1975: 95). 12. Se è certo vero che non può venire attribuita ad Adam Smith la paternità diretta della retorica neoliberista sulla dicotomia tra mercato e Stato, il cui intervento creerebbe solamente problemi sistematici deviandone il corso spontaneo, è altrettanto innegabile che Smith ha sviluppato una teoria dello sviluppo economico auto-regolato che lo Stato ha la principale funzione di favorire ed assecondare, nonostante possa auspicare delle misure politiche volte a limitarne le conseguenze sociali negative. Il vero obiettivo polemico della dottrina neoliberista è l’intervento in campo sociale dello Stato, mai la sua funzione di garante della proprietà privata e di detentore del monopolio della forza, sia all’interno che all’esterno dei confini nazionali. Si veda, a questo proposito, B. Fine e A. Saad-Filho, Marx’s Capital, pp. 171-174; A. Bihr, La novlangue néolibérale, pp. 53-60. 13. I metodi dell’“accumulazione originaria” si appoggiano per Marx sul “potere dello Stato, violenza concentrata ed organizzata della società, per fomentare artificialmente il processo di trasformazione del modo di produzione feudale in modo di produzione capitalistico e per accorciare i passaggi. La violenza è la levatrice di ogni vecchia società, gravida di una società nuova. E’ essa stessa una potenza economica”. (Marx 1994 Libro I: 814). 14. Mi collego qui alle considerazioni di Althusser, il quale sostiene “il ruolo speciale” dello Stato per la riproduzione del capitale: “Lo Stato è sì un guardiano, ma permanente, sia di giorno sia di notte, e veglia (...) sul fatto che la lotta di classe, cioè lo sfruttamento, non sia abolito, ma conservato, mantenuto e rinforzato a vantaggio, ben inteso, della classe dominante” (Althusser 2004: 136). Tuttavia, mentre Althusser afferma che “né in Marx né in Lenin si trova menzione, a mia conoscenza e, in ogni caso, quando parlano apertamente dello Stato, della funzione dello Stato nella riproduzione” (Althusser 2004: 113), nel capitolo XXIV e XXV, oltre che nelle pagine sulla riduzione della giornata lavorativa, si trovano fondamentali riferimenti a tale funzione dello Stato. 15. “Questa bilancia della produzione e del consumo è interamente diversa dalla cosiddetta bilancia commerciale. Essa si potrebbe verificare in una nazione che non conducesse alcun commercio estero, ma che fosse interamente separata dal resto del mondo. Essa può verificarsi per l’intero globo terrestre, la cui ricchezza, la cui popolazione e il cui progresso possono andare gradualmente aumentando o diminuendo” (Smith 1995: 424). 16. Le prime misure protezionistiche inglesi, ad esempio, erano volte ad impedire alla manifattura laniera irlandese di esportare le proprie merci in Gran Bretagna e nelle altre sue colonie e costrinsero l’Irlanda a concentrarsi sulla produzione di lana. La dominazione coloniale ebbe un impatto ancora più distruttivo: con il trattato di Limerick (1691), la manifattura laniera venne completamente distrutta e l’Irlanda fu costretta a specializzarsi nella produzione di lana per l’esportazione. 17. “Ma appena entra in ballo la questione della proprietà, diventa sacro dovere tener fermo al punto di vista dell’abbiccì infantile come unico valido per tutte la classi di età e tutti i gradi di sviluppo. Nella storia reale la parte importante è rappresentata, come è noto, dalla conquista, dal soggiogamento, dall’assassinio e dalla rapina, in breve dalla violenza. Nella mite economia politica ha regnato da sempre l’idillio. Diritto e “lavoro” sono stati da sempre gli unici mezzi di arricchimento, facendosi eccezione, come è ovvio, volta per volta, per ‘questo anno’.” (Marx 1994 Libro I: 778) Sono di estremo interesse e meriterebbero, a mio avviso, maggior approfondimento, i riferimenti di Marx al tema della norma e dell’eccezione. La rappresentazione mistificante dell’economia borghese, l’occultamento dei processi reali che sono alla base della “libera relazione mercantile” tra capitale e lavoro, rende necessario il ricorso all’eccezione per spiegare quegli aspetti della realtà sociale che deviano rispetto al modello teorico astratto, presentato come la norma. Per Marx, lo Stato moderno produce “in permanenza, su tempi differenziati - non solo quelli immediati della reazione d’emergenza, ma sul periodo lungo dell’esercizio quotidiano del governo - politiche straordinarie, quali la produzione di un vasto apparato burocratico, l’utilizzo discrezionale della macchina statale, con la esplicita finalità di realizzare insieme consenso e controllo su di una vasta parte della società.” G. Borrelli, “Oltre lo stato di eccezione e i poteri di emergenza: conservazione ed innovazione nelle trasformazioni delle post-democrazie” in: V. Dini (2006), Eccezione, Dante & Descartes, Napoli, p. 21. 18. Per una documentata esamina si legga P. Basso (1998), pp. 131-138. 19. Si vedano ad esempio le posizioni critiche - ma, al fondo, analoghe - di D. Harvey, con cui Arrighi si confronta costantemente, in La guerra perpetua. Analisi del nuovo imperialismo. 20. Il motto della politica dell’impero inglese alla metà dell’Ottocento era appunto “trade with informal control if possibile; trade with rule when necessary” (Gallagher e Robinson 1953). 21. Le guerre con cui si volevano aprire i mercati provocavano degli “effetti collaterali”, tra cui la rivolta dei Taiping (1850-64), che frenavano la loro effettiva estensione, a cui si sommavano le conseguenze del commercio dell’oppio, che si sviluppava in misura inversa a quello dei manufatti occidentali. Marx afferma che, indipendentemente da questi fattori, le cause della resistenza della produzione cinese erano di carattere strutturale e risiedevano nell’elevata produttività dell’industria domestica, che, nella sua combinazione con l’attività agricola, riusciva a mantenere i prezzi bassi e a garantire condizioni di vita agiate alla popolazione rurale. Per questo era a suo avviso estremamente improbabile, anche dopo le guerre dell’oppio, che gli inglesi potessero soppiantare la produzione manifatturiera cinese come avevano fatto in India, perché, non essendo riusciti a conquistarla e non disponendo del potere dello stato, non potevano riuscire a sconvolgere le basi della sua economia, come avevano fatto in India. E’ davvero incredibile quindi che Arrighi possa sostenere contro Marx che le merci manufatte inglesi incontrarono difficoltà a soppiantare quelle cinesi anche dopo le guerre dell’oppio (Arrighi 2007: 376). Si leggano a questo proposito i passaggi espliciti e inconfutabili nel capitolo XX del Terzo Libro, sul capitale commerciale, (Marx 1994 Libro III: 398-99) e gli articoli per la “New York Daily Tribune”. 22. Già nelle note sul sistema nazionale dell’economia politica di F. List, Marx sostiene la necessità di considerare il rapporto capitalistico al di là dei rapporti politici delle nazioni, per andare ad individuare le leve profonde della concorrenza internazionale. “La nazionalità del lavoratore non è francese, non inglese, non tedesca, ma è il lavoro, la libera schiavitù, la vendita di se stessi. Il suo governo non è francese, non inglese, non tedesco, ma è il capitale. La sua aria natia non è quella francese, quella tedesca, non l’aria inglese, ma l’aria della fabbrica”. (Marx e Engels 1972: 27 traduzione mia) 23. Nel caso quindi in cui la Cina riuscisse effettivamente a raggiungere l’obiettivo cui aspira di internazionalizzare la propria economia, questo non porterebbe ad una “win win situation” (Wu 2005: 20) ma rafforzerebbe ulteriormente questa tendenza. 24. Oltre al capitolo XXV, anche il XXIII su “la legge fondamentale dell’accumulazione capitalistica” si conclude con un riferimento agli Stati Uniti, che si prevede sostituiranno la Gran Bretagna nella posizione di egemonia nel mercato mondiale: “E di fronte alla vecchia regina dei mari si erge sempre più minacciosa la giovane repubblica gigantesca. Acerba fata Romanos agunt/Scelusque fraternae necis [Aspro destino incalza i romani/ E il delitto del fratricidio]”. (K. Marx 1994 Libro I: 776). Gli articoli di Marx ed Engels sulla guerra civile americana smentiscono la tesi di Arrighi, secondo cui a Marx mancherebbe la consapevolezza del ruolo del militarismo nello sviluppo capitalistico. Marx, ma soprattutto Engels, hanno studiato attentamente gli aspetti militari ed organizzativi della guerra civile americana, che determinò una svolta epocale nella storia. “Da qualunque punto di vista la si consideri, la guerra civile americana offre uno spettacolo senza precedenti negli annali della storia militare. L’immensa estensione del territorio disputato, l’ampiezza delle linee di operazione e del fronte, la potenza numerica degli eserciti nemici, la formazione dei quali non ha potuto basarsi praticamente su nessuna struttura organizzativa preesistente, il costo elevatissimo di questi eserciti, il modo in cui sono stati diretti i principi generali di tattica e strategia che regolano questa guerra, tutto questo è nuovo nell’osservatore europeo”. (Marx e Engels 2004: 83) 25. Si vedano, a proposito di questa problematica, oltre che i sopraccitati testi sulle società precapitalistiche, le lettere di Marx a Vera Zasulic (1881) sulla comune russa e l’introduzione alla seconda edizione del Manifesto del partito comunista del 1882 (Marx e Engels 2008: 243-256). Sulle variazioni che Marx apporta alla edizione francese de Il capitale (1872-75) a questo proposito, si vedano gli articoli di K. B. Anderson (1997 e 2000). 26. “Quali che siano le cause sociali che hanno provocato lo stato endemico di ribellione esistente in Cina da almeno una decina d’anni ed ora sommatesi tutte in una formidabile rivoluzione e quale che sia la forma religiosa, dinastica o nazionale da essa assunta, l’occasione di questa esplosione è stata indubbiamente offerta dai cannoni inglesi che hanno imposto alla Cina lo stupefacente chiamato oppio”. K. Marx, Cina, op. cit., p. 8 27. “The revolt in the Anglo-Indian army has coincided with a general disaffection exhibited against English supremacy on the part of the great Asiatic nations, the revolt of the Bengal army being beyond doubt, intimately connected with the Persian and Chinese wars.” (Marx and Engels 1986: 298) 28. Si vedano a questo proposito gli scritti sull’Irlanda, in particolare la lettera a Engels del 10 dicembre 1969, in cui Marx sostiene che “E’ interesse assoluto e diretto della classe operaia inglese di disfarsi degli attuali rapporti con l’Irlanda. E’ questa la mia convinzione più profonda per motivi che in parte non posso comunicare agli stessi operai inglesi. Per lungo tempo ho creduto che fosse possibile rovesciare il regime irlandese mediante l’ascendenza della classe operaia inglese. (...) Uno studio più approfondito mi ha convinto ora del contrario. La classe operaia non farà mai nulla, prima che sia riuscita a disfarsi del problema irlandese. La leva si deve applicare in Irlanda” (Marx e Engels 1973: 350). 29. Ne Il Capitale, Marx sostiene che la lotta dei lavoratori, tendente ad aumentare il salario relativo e a migliorare la propria condizione sociale, non può mai dar luogo, nel lungo periodo, ad una crescita dei salari proporzionale a quella della produttività, che persegue l’obiettivo della riduzione del valore della forza-lavoro. “La legge dell’accumulazione capitalistica (...) esprime in realtà solo il fatto che la sua natura esclude ogni diminuzione del grado di sfruttamento del lavoro, od ogni aumento del prezzo del lavoro, che siano tali da esporre a seri pericoli la costante riproduzione del rapporto capitalistico e la sua riproduzione su scala sempre più allargata” (Marx 1994 Libro I: 679-80). 30. In un intervista a Il manifesto (24 gennaio 2008) dal titolo “Il mondo sotto il segno del consenso di Pechino”, Arrighi esplicita ancora più chiaramente questo circolo vizioso: ”Ho però molti dubbi che l’indicazione di scendere nei laboratori della produzione aiuti a capire nessun arcano. Per capire il funzionamento del capitalismo dobbiamo fare i conti con il proliferare di forme economiche di mercato, ma non necessariamente capitalistiche. E poi anche con la compresenza di diversi modelli di capitalismo”. 31. Il Manifesto, 3 settembre 1989. 32. Harvey sostiene che in Cina si sta verificando la più grande migrazione di massa a cui il mondo abbia mai assistito, con un tasso di inurbamento del 15% annuo. La presenza di questo enorme esercito industriale di riserva spinge verso il basso i salari nelle città. (Harvey 2007: 147). 33. A smentire la rappresentazione della società cinese come di una società statica e della sua popolazione come naturalmente incline alla sottomissione, per qualche tara “confuciana”, Arrighi riporta l’esistenza di forti conflitti interni in Cina, di scioperi, manifestazioni e proteste, che costituiscono un fattore massimo di destabilizzazione sociale, anche per la tradizione di combattività dei contadini e degli operai cinesi (Arrighi 2007: 412). 34. La riduzione del tasso di povertà estrema in Cina è stata riconosciuta anche dalla Banca Mondiale. 35. E’ significativo che proprio Harvey riferisca dei progetti infra-strutturali del governo cinese e affermi che essi sono finanziati dal deficit secondo il classico stile keynesiano. Egli sostiene che, “da un certo punto di vista, i cinesi si differenziano in modo lampante dal modello neoliberista” (p. 162). Questo denota le difficoltà che anch’egli incontra nel definire lo sviluppo cinese come neoliberista sic et simpliciter (egli parla infatti di “neoliberismo con caratteristiche peculiari”). Il suo libro ha il merito di evidenziare la convergenza verificatasi a livello internazionale negli ultimi trent’anni con il rafforzamento dell’offensiva capitalistica e lo spostamento della ricchezza dal lavoro al capitale su scala mondiale. 36. Brecher, Costello e Smith (2008) parlano di una “behind the scene battle which is raging worldwide over reforms in China labor’s law” e che ha visto schierate tutta una serie di multinazionali statunitensi ed europee, come Wal-mart, Google e General Electric nel fare pressione sul governo per limitare l’aumento dei diritti dei lavoratori. 37. “Il lavoro cinese ritrova un diritto” di A. Pascucci (Il Manifesto, 2 gennaio 2008); “La Cina ora punta a un modello più evoluto” di F. Piccioni (Il Manifesto, 3 gennaio 2008), “ Cina, come l’azienda aggira la nuova legge sul lavoro? Delocalizza all’interno e licenzia 3.400 addetti. China Labour Watch denuncia la Fuan Textile Mill” di M. Di Sisto (Liberazione, 18 aprile 2008); “Cina, la sfida dei capitalisti rossi: ‘Vogliamo libertà di licenziare’” di F. Cavaliera (Corriere della Sera, 5 marzo 2008). 38. 39. “Il ruolo della Cina in Africa” di C.P. Chandrasekhar URL: www.resistenze.org; “Pechino si impone in un’Asia i fase di ripresa” di P.S. Golub (Le monde diplomatique, ottobre 2003), “Spinta geostrategica dell’Asia ai rapporti ‘Sud-Sud’. Il ‘decoupling’ limita i rischi della recessione” di G. S. Frankel (Il Sole 24 ore, 5 maggio 2008). 40. Il potere di Mao si basava su una combinazione di concessioni e repressione. Una delle ragioni principali da lui addotte per la conclusione dell’esperienza della Comune di Shanghai fu proprio la necessità di riportare le rivendicazioni degli operai nei limiti “ragionevoli”, compatibili con gli imperativi posti dal quadro internazionale. 41. Rimando all’analisi accurata di M. Chossudovsky (1998), al testo di L. Wallach, M. Sforza (2000) e a quelli di W. Bello (2002 e 2004). 42. Il 13 giugno 2008, infatti, l’Unione Europea ha approvato una direttiva che permette l’innalzamento del tetto massimo di lavoro a 65 ore la settimana. 43. La competitività delle merci cinesi viene, da un lato, denunciata da Tremonti con la classica formula della “concorrenza sleale” e, dall’altro, ricondotta al vantaggio competitivo dei paesi che “partono dopo”, con una minor composizione organica di capitale, rispetto a quelli più sviluppati industrialmente. 44. Il libro di B. Emmott, Asia contro Asia (2008), esprime proprio questo progetto.

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