Il ruolo delle risorse idriche nell’occupazione israeliana della Palestina

GIULIA ALTERI

Un anno fa, nel marzo 2008, mi sono trovata per la prima volta in Palestina; ho avuto modo di conoscere la realtà palestinese e israeliana per poco più di una settimana, ma mi rendo conto che anni di letture e di documentazione giornalistica mi hanno dato semplicemente una “infarinata” di informazioni, più o meno dettagliate: vedere con i propri occhi la realtà dell’occupazione, la sua invadenza e pervasività capillare, è stata un’esperienza del tutto unica. Le informazioni che hanno diffusione di massa, che puntualmente insistono sugli aspetti identitari, etnici e nazionalistici, coprono vergognosamente le vere ragioni del conflitto; non si intende qui affermare l’estraneità storica del fondamentalismo religioso, in origine esclusivamente ebraico, rispetto alla questione israelo-palestinese, bensì l’uso strumentale dell’identità religiosa ebraica da parte del sionismo politico, e il suo carattere sovrastrutturale rispetto alla natura del conflitto. Un conflitto che ha le sue ragioni storiche di lungo periodo nella prepotenza del colonialismo britannico, nelle strategie statunitensi di controllo del Medio Oriente, nella violenza dell’occupazione militare ed economica e, non da ultimo, nella vigliaccheria degli Stati europei ed arabi, corresponsabili dell’attuale situazione. Oggetto del mio studio, che ho poi finalizzato come tesi di laurea specialistica, è stato un aspetto specifico della soggezione della popolazione palestinese rispetto allo Stato di Israele: il ruolo assunto dal controllo e dallo sfruttamento delle risorse idriche nello sviluppo economico di Israele e dell’economia palestinese, considerando quest’ultima il prodotto di una crescente dipendenza dal potere occupante, e l’occupazione stessa come fattore vincolante rispetto alle dimensioni e alla consistenza assunte dalla sua base produttiva, sia agricola sia industriale. Il punto di partenza è la situazione attuale dell’economia palestinese; se è vero che questa, complice l’assenza di un potere pubblico con reale sovranità politica, territoriale ed economica, non ha potuto espandersi oltre i limiti imposti dallo Stato occupante, altrettanto vero è che mai prima d’ora la povertà aveva raggiunto tali livelli: secondo dati della Banca Mondiale relativi al 2008 il 79,4% della popolazione di Gaza ed il 45,7% di quella Cisgiordana vivono sotto la soglia dei due dollari al giorno. Il crollo del PIL, sceso nel 2007 al 60% del livello del 1999, il declino produttivo e la contrazione dell’economia, vanno inquadrati nel contesto di confinamento fisico/economico e di costante riduzione della base di risorse disponibili per lo sviluppo palestinese, uno “stato di fatto” che sta pregiudicando la creazione delle necessarie premesse economiche di un’eventuale, sempre più lontana, indipendenza politica. L’interrogativo alla base di questa considerazione è se, e quanto, l’assenza di controllo su risorse fondamentali (come terra coltivabile, risorse idriche e più recentemente energetiche1) sia compatibile con i tentativi di costruire una base produttiva indipendente; alcune semplici considerazioni di ordine macroeconomico possono fornire indirettamente una prima risposta. L’economia palestinese appare strutturalmente fragile e ampiamente dipendente dal sistema economico israeliano; scarsamente industrializzata, l’agricoltura risulta ancora essenziale e contribuisce attualmente al 6,8% del PIL, impiegando il 20% della forza lavoro. Per l’economia israeliana, l’agricoltura ha rivestito un ruolo essenziale negli anni ’50 e ’60, agendo da fattore propulsivo sulla nascente economia produttiva e permettendo, tramite la colonizzazione agricola del territorio, l’assorbimento di flussi crescenti di forza lavoro immigrata; nel 1960 il settore occupava il 17% della forza lavoro e produceva il 12% del PIL, poi il suo peso relativo si è andato riducendo fino all’attuale 2,6%, di pari passo con il processo di industrializzazione. Oggi l’industria contribuisce al 30% del PIL israeliano e la metà delle esportazioni sono prodotti industriali ad alta tecnologia. Al contrario, l’economia palestinese non ha compiuto questo passaggio, il tessuto industriale è tuttora costituito da piccole e piccolissime imprese (nell’ordine dei 4-5 lavoratori salariati) di manifattura locale o che producono in appalto ad aziende israeliane. L’ultimo decennio ha visto peraltro un declino della produzione industriale e il peso del settore è passato dal 16 al 12%, segnalando non solo una contrazione quantitativa ma anche un arretramento: invece di divenire più complessa e integrata, l’economia palestinese si sta disarticolando, con una struttura sempre più connotata dalle ridotte dimensioni delle unità produttive e dalla restrizione dell’accesso a mercati esterni, condizione determinata in gran parte dalle politiche commerciali imposte da Israele; queste ultime hanno condotto a una crescente dipendenza dalle materie prime importate dallo Stato ebraico e stabilito un raggio di commercializzazione quasi esclusivamente locale per i prodotti palestinesi. Si tratta nel complesso di un’economia che non supera i 5 miliardi di dollari annuali, un volume circa 33 volte inferiore a quello dell’economia israeliana da 139 miliardi di dollari. Nel contesto di contrazione della produzione industriale, è probabile che il peso relativo del settore agricolo andrà di nuovo ad aumentare2, nonostante la situazione di assedio derivante dalla forte limitazione dell’accesso a risorse idriche e terra coltivabile. L’assenza di una base industriale solida ha accentuato la dipendenza dall’agricoltura, rendendo la questione dello sfruttamento delle risorse idriche cruciale rispetto alle prospettive di sviluppo; se infatti l’acqua è essenziale sia per l’industria che per l’agricoltura, in quest’ultima viene usata in modo relativamente più intenso, e in media il 60% della disponibilità idrica di un paese è impiegata per uso agricolo. Con ciò, nonostante il settore agricolo sia fondamentale per l’economia palestinese e ormai marginale per quella israeliana, lo Stato di Israele controlla e sfrutta oltre l’80% delle risorse idriche (localizzate soprattutto in Cisgiordania) e ne monopolizza l’estrazione e distribuzione. Vediamo dunque alcuni dati sulla distribuzione per usi: con una disponibilità idrica annuale di 2 166 milioni di metri cubi, in Israele il consumo medio pro capite e di 340 metri cubi annuali. In Cisgiordania la disponibilità annuale è di 146 milioni di metri cubi e a Gaza di 108 milioni, dunque il consumo medio annuale pro capite nei territori occupati è di 82 metri cubi: il rapporto quantitativo con quello israeliano è di 1:4. Per quanto riguarda l’uso agricolo ritroviamo lo stesso rapporto, con 227 metri cubi annuali disponibili per agricoltore israeliano e appena 58 metri cubi annuali per agricoltore palestinese, un assetto distributivo decisamente limitante per l’economia agricola palestinese; considerando infatti che se si sommano le aree di tipo C (sotto controllo civile e militare israeliano) e gli insediamenti, Israele controlla il 60% della terra coltivabile in Cisgiordania (più il 20% di quella di Gaza, precedentemente allo smantellamento degli insediamenti interni alla Striscia), significa che solo il 10% della terra sotto giurisdizione palestinese può essere irrigata, in confronto al 45% (60% per le colonie) di terra sotto controllo israeliano regolarmente irrigata. Alla discriminazione quantitativa nel consumo idrico si aggiunge quella tariffaria: ad esempio durante gli anni Novanta gli israeliani pagavano l’acqua per consumo domestico 0.40 centesimi di dollaro al metro cubo e quella per uso irriguo 0.16 centesimi di dollaro, mentre i palestinesi corrispondevano alla medesima compagnia nazionale israeliana Mekorot la tariffa unica di 1.20 dollari a metro cubo3. Al boicottaggio attivo della produzione agricola palestinese, tramite la sottrazione di terra coltivabile e risorse idriche, si aggiunge il boicottaggio del relativo commercio, con la restrizione dei mercati di sbocco e la dipendenza forzata dalle reti di commercializzazione israeliane: attualmente circa l’80% dei prodotti agricoli palestinesi è venduto sui mercati locali (a prezzi molto bassi), e il restante 20% viene commercializzato all’estero da Israele, con l’etichetta di “prodotto israeliano”. Oltre a ciò, ha un impatto fortissimo sul commercio anche la restrizione dei movimenti di merci, persone e fattori produttivi imposta militarmente con la politica del confinamento; questa, già preesistente agli accordi di Oslo, ha ricevuto il vaglio ufficiale proprio con questi ultimi, divenendo un sistema di controllo permanente che stabilizza l’occupazione e, frammentando la Cisgiordania in zone a diversa amministrazione, le isola economicamente e fisicamente l’una dall’altra, rompendo la contiguità territoriale e spezzando anche le unità produttive più piccole. Tramite il confinamento, che si articola in interno, generale e totale, Israele può regolare a sua discrezione il grado di interazione fisica ed economica tra le aree palestinesi (aree A, sotto controllo militare e civile palestinese, ed aree B, sotto controllo civile palestinese e militare israeliano) e tra di esse ed Israele, fino ad azzerarla. Tale combinazione di limitazione della produzione e del commercio agricolo risulta soffocante per l’economia palestinese e fondamentale per il mantenimento dell’occupazione; quest’ultima postula infatti uno sviluppo economico dei territori occupati che sia strettamente funzionale alle esigenze dello Stato di Israele, nonché dei capitali israeliani e arabi regionali, interessati a mantenere il controllo su quello che si configura come un bacino di forza lavoro a basso costo e un mercato “schiavo”: dopo l’area nordamericana i territori occupati costituiscono il secondo mercato di sbocco per Israele; specularmente, data l’assenza di controllo sui confini interni ed esterni, e la limitazione subita nella ricerca di altre fonti di approvvigionamento e partner commerciali, il 90% delle importazioni palestinesi è costituito da merci israeliane. Dipendenza, assedio economico e occupazione militare sembrano dunque essere tre aspetti essenziali della strategia espansionista di Israele, che dopo gli Accordi di Oslo ha proseguito in modo costante il processo di colonizzazione. L’accordo ad interim avrebbe dovuto comportare la graduale cessione dell’area C, all’Autorità Palestinese; ciò non è avvenuto, e sono proseguite le confische di terra, con annesse risorse idriche, e la costruzione di insediamenti; l’erosione delle aree palestinesi, confiscate e dichiarate arbitrariamente aree di tipo C, ha portato l’estensione dell’area sotto esclusivo controllo israeliano al 59% del territorio cisgiordano. È significativo il fatto che, oltre agli insediamenti stessi, il territorio sottratto in vista della loro futura espansione (comprensivo di future aree industriali ed agricole) supera notevolmente le necessità di una popolazione insediata in rapida crescita; la presenza israeliana nei territori è infatti cresciuta tra 1987 e 2007 fino ad oltrepassare quota 460 mila, ovvero con un tasso del 150%, mentre l’area territoriale sotto la giurisdizione degli insediamenti, e dunque sotto controllo dell’esercito, è aumentata nello stesso periodo del 400%. Con la presenza dei coloni infatti, cresce anche la presenza militare nei territori: nuovi checkpoint, strade non più percorribili e adibite a uso esclusivo degli israeliani e un sistema arbitrario di permessi, gestito dalle autorità militari, per gli spostamenti interni. Tutto ciò costituisce una realtà quotidiana di ostacolo alle più normali attività economiche e la Banca Mondiale stessa ha osservato che «le restrizioni imposte in Cisgiordania sono dirette alla protezione e al miglioramento della libertà di movimento dei coloni, e all’espansione fisica ed economica degli insediamenti a spese della popolazione palestinese4». La fase più recente di questo processo di disarticolazione intenzionale dell’economia palestinese è legata alla costruzione del Muro; esso non coincide con la Linea Verde, bensì si addentra in territorio cisgiordano in più punti, rompendone la contiguità, isolando migliaia di palestinesi in aree dichiarate militari e separandoli fisicamente dai terreni agricoli e dai pozzi. L’impatto economico del Muro dell’Apartheid va dunque misurato anche in termini di ulteriori confische, e non solo di separazione fisica con Israele; molti sono gli esempi di come il Muro abbia effetti devastanti, fra questi quello del Distretto di Qalquilya è molto chiaro. Qalquiliya è la città cisgiordana più vicina al Mediterraneo, si trova a soli 13 km da Tel Aviv e teoricamente dalla possibilità di sbocco su mercati esteri. L’economia della città è da sempre legata alla produzione e al commercio agricolo, si tratta infatti di un’area molto fertile data la presenza di una falda sottostante, facente parte del gruppo dell’acquifera occidentale. Precedentemente alla costruzione del Muro, iniziata nel 2002, la città era sede del maggior mercato ortofrutticolo del nord della Cisgiordania ed esportava anche fuori da Israele: qui convogliavano dai villaggi circostanti prodotti dell’agricoltura locale, dando vita ad un fiorente commercio. Attualmente, la produzione agricola ha subito un drastico calo e il volume del reddito generato dal relativo commercio si è più che dimezzato, con aumento esponenziale della disoccupazione e della povertà. La causa diretta di questa situazione, ormai emergenziale, risiede nell’isolamento deliberato imposto da Israele: la città è circondata da un muro ad anello che la racchiude completamente, e si passa solo tramite uno stretto collo di bottiglia presidiato dall’esercito, che controlla ogni persona o merce in entrata e uscita. Per la costruzione del Muro sono stati confiscati il 55% dei terreni agricoli, che ora ricadono al di là di questo: con ciò Qalquiliya è stata decurtata di metà della produzione agricola5. Inoltre il controllo militare limita fortemente il commercio, sia in quantità, sia in termini di tempi di trasporto dilazionati; a tale proposito, la Camera di Commercio locale ha rilevato nel solo periodo 2007-2008 una diminuzione del 15% delle imprese operanti nel trasporto merci, imprese che non hanno potuto sostenere il calo dell’attività e i maggiori costi di spostamento dovuti alla barriera fisica costituita dal Muro. Tuttavia l’isolamento di Qalquiliya fa parte di un progetto generale di separazione molto precedente alla costruzione del Muro. Nel 1980 Ariel Sharon, al tempo Ministro dell’edilizia abitativa, propone un progetto di insediamento abitativo conosciuto come “Piano Star Points”; questo mirava a erodere il confine della Linea Verde dove essa è prossima a Qalquiliya, uno degli estremi del “triangolo palestinese”, costituito da Qalquiliya, Tulkarem e Nablus e densamente popolato. In questo modo si intendeva “diluire” la concentrazione di popolazione palestinese in un’area considerata troppo vicina a Israele: rispondendo a tale esigenza il Piano richiedeva la costruzione di insediamenti abitativi da entrambi i lati della Linea Verde, in modo da rompere l’unità dell’area abitata dai palestinesi e accaparrare ulteriori risorse per Israele. Questo proposito è stato raggiunto, e attualmente nove insediamenti sono localizzati nelle immediate vicinanze di Qalquiliya; la presenza degli insediamenti viene addotta dalle autorità israeliane come giustificazione per la presenza di due basi militari, poste una poco a sud di Qalquiliya e l’altra attigua all’insediamento di Alfei Menashe. Queste installazioni completano il quadro del controllo militare dell’area, ed è opinione diffusa tra i membri del Municipio di Qalquiliya che l’acqua sia una delle principali motivazioni del deliberato isolamento, nonchè della densità delle colonie israeliane nel Distretto. Come già detto, la città si trova sopra una delle maggiori falde acquifere cisgiordane, con una portata stimata intorno ai 55 milioni di metri cubi annuali, dalla quale i pozzi palestinesi (ovvero i pozzi preesistenti all’infrastrutturazione della Mekorot) estraggono meno di un decimo l’anno6; infatti, a causa di decreti militari risalenti al 1967 e tuttora in vigore, i palestinesi non possono scavare pozzi di profondità equivalente a quelli della Mekorot; secondo l’Unione Agricoltori e Contadini cisgiordana, i pozzi della Mekorot a Qalquiliya sono in grado di estrarre 3.336 metri cubi d’acqua all’ora, in massima parte a vantaggio degli insediamenti limitrofi. La presenza di questi ultimi sembra essere la chiave di volta per il mantenimento del controllo sull’acquifera occidentale e dunque sull’economia palestinese locale: controllando l’acqua è possibile restringere a piacimento la base di risorse su cui poggia l’economia di Qalquiliya: terra, acqua e commercio dei beni prodotti con queste risorse. Facendo qualche passo indietro e assumendo una prospettiva storica, l’estensione del controllo sulle risorse idriche dell’area è stata sin dall’origine un obiettivo di primaria importanza per la dirigenza politica sionista; la questione del Giordano e dei suoi affluenti risulta già aperta con la Dichiarazione di Balfour (1917) e il dialogo che si sviluppò tra l’Organizzazione Sionista Mondiale e il Governo Britannico. Nel 1919, in attesa della fine ufficiale del morente Impero Ottomano e dell’inizio del Mandato britannico, il futuro primo Presidente di Israele Chaim Weizmann scrive al Primo Ministro inglese Lloyd George che «l’insieme del futuro economico della Palestina dipende dal suo approvvigionamento d’acqua per l’irrigazione e l’energia elettrica7»; un anno dopo lo stesso Weizmann scrive che «se la Palestina fosse amputata del Litani, dell’Alto Giordano e dello Yarmuk, senza neanche parlare della riva ovest del Mare della Galilea (ndr. il lago Tiberiade), non potrebbe essere economicamente indipendente. E una Palestina debole e impoverita non sarebbe di utilità per nessuna potenza».8 Dunque già molti anni prima della fondazione dello Stato, le frontiere immaginate dai sionisti comprendevano non solo l’attuale Stato di Israele - compresi i territori occupati dal 1967 - ma anche una porzione della Siria, della Giordania e del Libano del Sud; era ciò che essi intendevano per Eretz Israel, la Grande Israele. Colto appieno il valore economico e militare-strategico della posta in gioco, nel 1941 anche il leader del sionismo laburista Ben Gurion sostenne la necessità del controllo del Giordano e del Litani ai fini «del radicamento dello Stato Ebraico». Quando nel 1947 le nazioni Unite approvarono il Piano di spartizione della Palestina, la dirigenza sionista salutò l’evento come il raggiungimento di un obiettivo che attraverso le acque permetteva il consolidamento dello Stato; la spartizione significava già una vittoria per il movimento sionista, si trattava però di un’accettazione temporanea e opportunistica che non rimuoveva il progetto di sfruttamento idrico dell’intera regione: la stessa indefinizione delle frontiere dopo il maggio del 1948 rendeva evidenti le reali intenzioni di mantenere inalterato il piano, tanto più che le risorse idriche risultavano fondamentali per sostenere la colonizzazione agricola del territorio attraverso l’Avoda Ivrit, il lavoro ebraico. L’occupazione delle terre e la coltivazione estensiva si rivelarono infatti, in un contesto di industrializzazione ancora scarsa e connotato da ingenti flussi di forza lavoro immigrata, l’unico modo per mantenere una presenza fisica ebraica, e dunque per colonizzare. Irrigare equivaleva - ed equivale tuttora - ad espandere il territorio sotto controllo militare ed economico, sottraendo spazio e risorse alla popolazione preesistente9. Dalle parole ai fatti: dal 1953 Israele opera in modo unilaterale la deviazione del corso del Giordano a monte del Lago Tiberiade e inizia da qui la costruzione della rete idrica nazionale, indispensabile per l’avvio di uno sviluppo economico sistematico; nel 1955 il National Water Carrier comprendeva già 200 km di condutture dall’Alto Giordano fino al Negev, aprendo possibilità per l’espansione dell’attività agricola nel Sud del paese. Con la Legge idrica del 1959, Israele dichiara proprietà dello Stato «tutte le risorse idriche nazionali», concetto ambiguo, data la voluta indefinizione delle frontiere; inoltre l’acqua è resa pubblica, ma israeliana, e ciò porterà ad una sistematica limitazione del consumo “non israeliano”; poi nel 1967 Israele occupa, tra gli altri, la Cisgiordania e il Golan siriano, acquisendo in tal modo il controllo del bacino di alimentazione a nord del Giordano - che comprende gli affluenti Hasbani, Dan e Banjas - e delle falde acquifere cisgiordane. Dopo più di quarant’anni, queste risorse sono tuttora indispensabili per Israele, che basa il proprio approvvigionamento idrico per il 37% sulle acque del Giordano e per il 63% sulle risorse di falda: anche questo suggerisce quanto il controllo dell’acqua sia necessario al mantenimento dell’occupazione e all’avanzamento della colonizzazione. In conclusione, la situazione di fatto prodotta dalla politica espansionista di Israele rende estremamente improbabile un cambiamento dell’assetto distributivo delle risorse idriche: ciò infatti imporrebbe cambiamenti profondi delle istituzioni statali e dell’economia israeliana, come l’abbandono dello strumento di espansione territoriale rappresentato dalla colonizzazione, che può continuare ad avanzare solo mantenendo uno stretto controllo sulle risorse idriche.

La scoperta di giacimenti di gas naturale nelle acque di Gaza (ovvero che a dispetto del controllo assunto da Israele, secondo il diritto internazionale rientrano nella sfera territoriale di Gaza) solleva questioni rispetto alla volontà mostrata dallo Stato ebraico di appropriarsene: nonostante precedenti accordi presi dall’Autorità Palestinese con la British Gas e con la Consolidated Contractors Company, interessate allo sfruttamento dei giacimenti e alla costruzione di un gasdotto, poco prima dell’attacco a Gaza (tra dicembre 2008 e gennaio 2009) il Governo di Israele ha cercato un accordo separato con la British Gas, “bypassando” sia l’AP sia Hamas. Fonte: articolo di Chossudovsky M., War and natural gas: the israeli invasion and Gaza’s offshore gas fields, sul sito www.globalresearch.ca, 08.01.2009

Isaac J., A sober approach to the water crisis in the Middle East, ARIJ-Applied Research Institute of Jerusalem, 20.04.2006 Dati citati in Selby J., Water, power and politics in the Middle East. The other Israeli-palestinian conflict, I.B. Tauris, Londra, 2003

World Bank, Movement and access restrictions in the West Bank: Uncertainty and inefficiency in the palestinian economy, 2007

UNOCHA-UNRWA, The humanitarian impact of the Barrier, 07.2008

PASSIA- Palestinian Academic Society for the Study of International Affairs, Water. The blue gold of Middle East. Special Bulletin, Gerusalemme, 2002

Kahn D., Agricolture and water resources in the West Bank and Gaza (1967-1987), Jerusalem Post, 2000

Citato da A. Rousseau nel giornale on line “Mondialisation”, 11.04.07

Lo stesso Ministero dell’Agricoltura e dello Sviluppo Rurale ha dichiarato nel 1997 che «il settore agricolo e rurale adempie in Israele alla responsabilità nazionale e sociale di sparpagliare la popolazione e di popolare le regioni di frontiera», citato in Selby J., op.cit.