1. La crisi esplosa negli Stati Uniti ha una sua storia. Ha avuto il suo primo atto nell’agosto 2007 con il crollo delle ipoteche di bassa qualità ed è diventata evidente alla metà di settembre 2008 per l’impatto sulle finanze globali. Il panico ha generato interventi cospicui di liquidità alle principali banche centrali del capitalismo sviluppato, nel tentativo di arginare la debacle del sistema finanziario nel cuore del capitalismo centrale. Si stima che l’iniezione di fondi superi i 2,3 mila miliardi di dollari senza che nessuno si decida a pronosticare la quantità definitiva che si dovrà elargire nel prossimo futuro. La crisi è un problema a medio e lungo termine e dobbiamo ancora analizzarne la profondità e l’estensione. Al centro della preoccupazione dei governi vi è il salvataggio del sistema finanziario internazionale e per tale motivo si prosegue con la concentrazione e la centralizzazione dei capitali. Tutto ciò è evidente nelle fusioni, nelle acquisizioni e nelle nazionalizzazioni (temporanee) degli istituti bancari. La prima intenzione dell’amministrazione Bush ha puntato al salvataggio delle borse morose (“debiti tossici”) per sanare il sistema bancario e rilanciare l’attività a discapito dell’intera società, allo scopo di ammortizzare questo costo socializzato nel sistema mondiale. Di fronte all’insufficienza della misura, e seguendo l’esempio inglese, l’orientamento delle risorse è stato indirizzato verso la nazionalizzazione con l’intento di limitare l’impatto sui costi sociali ed economici. Il salvataggio bancario è finalizzato a sostenere l’avanguardia della liberalizzazione finanziaria ed economica operata tra gli anni ’70 e gli anni ’90, ossia i decenni che hanno visto l’attivazione dell’offensiva del capitale transnazionale e dell’ideologia neoliberale. Alludiamo all’attività bancaria di investimenti in crisi e all’architettura del sistema finanziario mondiale come emblema del mondo liberale (neoliberale), le cui funzioni hanno contribuito a potenziare le asimmetrie delle entrate e delle ricchezze per consolidare un ordine economico e sociale sostenuto dallo sfruttamento. La crisi, è noto, danneggia innanzitutto i lavoratori e gli investitori diretti, specialmente i più piccoli in quel “capitalismo popolare” costruito negli Stati Uniti, ma anche i proprietari delle case ipotecate e con problemi, ossia circa cinque milioni di persone. In primo luogo vengono colpite le persone fisiche, anche se la crisi, come abbiamo visto, danneggia le banche, le assicurazioni, le borse, i fondi d’investimento, il sistema di speculazione del mercato azionario e finanziario, le consulenze e le valutazioni dei rischi del “prestigio internazionale” e gli stessi Organismi Finanziari internazionali (FMI, Banca Mondiale, BID) che finiscono per trasformarsi in volgari commentatori di una situazione che esplode in maniera diversarispetto alle loro previsioni e raccomandazioni. Risulta molto utile concentrarsi sulla considerazione degli effetti prevedibili a breve termine e le possibilità che la situazione ci permette di pensare. L’effetto immediato è la conferma del rallentamento economico negli Stati Uniti e il passaggio (che va oltre le previsioni tecniche) ad una recessione che da questo paese si diffonderà in tutto il sistema mondiale. Sappiamo bene che la recessione presuppone disoccupazione e deterioramento della qualità della vita dei settori della popolazione con redditi minori, danneggiando così la capacità produttiva e attivando nuovi cicli di concentrazione imprenditoriale. La rivista The Economist1 segnala in nota, sotto il titolo “Ridefinendo la recessione”, il fatto che molti economisti ipotizzano che la recessione derivi da una caduta del PIL dei paesi e che quindi sia necessario ripensare la definizione standard del tema, visto che nella forma tradizionale di misurazione è arrivato, in due trimestri, alla caduta del PIL. La situazione si è verificata in Europa e Giappone, afferma la rivista, non come conseguenza di quanto è avvenuto negli USA, ma perché quelli sarebbero i paesi in recessione, secondo la terminologia usuale. Tutto indica che il fenomeno è tipico della situazione negli USA. L’articolo citato sottolinea che negli USA la disoccupazione è arrivata al 6,1% nel mese di agosto del 2008, con valori simili a quelli della precedente recessione del 2001; la disoccupazione è il dato migliore per misurare il fenomeno recessivo, e il testo dell’articolo termina con un’allusione a un vecchio racconto di stampo umoristico: “... quando il tuo vicino perde il suo lavoro, si chiama rallentamento dell’economia. Quando sei tu a perdere il lavoro, allora è recessione. Ma quando un economista perde il suo lavoro, il fatto si trasforma in depressione. Gli economisti che ignorano il recente aumento della disoccupazione meritano di perdere il loro lavoro”. Tutto ci porta a considerare che la recessione esista già negli USA ben oltre le previsioni accademiche. Dall’ultima registrazione disponibile si evince che il PIL degli USA è sceso allo 0,3% nel III trimestre del 2008 (QUADRO 1). Il tema non è minore e se qualcosa si è appreso dalla crisi degli anni ’30 è la possibilità che la politica economica possa agire per superare i processi recessivi, soprattutto se come adesso, avviene in combinazione con l’aumento generalizzato dei prezzi. La stagflazione, termine coniato durante la situazione emergente negli anni ’80, torna ad imporsi nella congiuntura economica mondiale e ciò induce a pensare a misure atte a superare la situazione. La ricerca mira al recupero di un nuovo ciclo di crescita economica e stabilità dei prezzi, favorendo nuovamente la condizione per l’accumulo di capitali. Si tratta di un obiettivo che presuppone il trasferimento della crisi all’insieme dell’economia mondiale.
2. Un’eventuale uscita dagli USA è la ripetizione della strada intrapresa per superare la precedente recessione del 2001, quando si è combinata la spesa militare (strategia contro il terrorismo) alimentando uno sfrenato indebitamento dello Stato e dei privati, che è sfociato nella bolla immobiliare e nella crisi delle ipoteche dell’agosto del 2007. È chiaro che ora la storia non si può ripetere allo stesso modo, poiché l’offensiva militarista sembra bloccata in Iraq e in Afghanistan, senza una chiara uscita da una manovra che perde legittimità nel mondo e all’interno degli USA, aumentando al contempo un deficit fiscale sempre più difficile da finanziare. Né si può stimolare il credito di un sistema bancario con mora crescente e scarsa propensione della popolazione ad indebitarsi di fonte alla debacle finanziaria in corso, soprattutto quando gli USA raggiungono un debito pubblico che supera gli 11 mila miliardi di dollari. Neanche l’abbassamento del tasso di interesse riesce a favorire un credito dal quale fuggono i probabili debitori davanti alla cruda realtà della recessione e dell’inflazione. La strategia messa in atto nel 2001 ha esacerbato i problemi strutturali di deficit fiscale, commerciale e di indebitamento pubblico e privato degli USA. Sono limiti obiettivi che impediscono di ripercorrere quel cammino, soprattutto se si pensa alla maggiore gravità del processo recessivo in corso rispetto a quello precedente. Davanti al fallimento per cui il capitale privato sostiene gli enti in crisi, come è stato fatto dalla stessa Federal Reserve, l’innovazione, se così si può definire, consiste nel fatto di ricorrere all’eterno intervento statale sotto nuove forme, con apporti del tesoro e dei fondi pubblici per sostenere gli enti finanziari. L’obiettivo è quello che la ruota della circolazione produttiva e mercantile torni a funzionare al fine di poter rilanciare il regime del capitale sotto una nuova offensiva della liberalizzazione globale. Si tratta di intervenire dal vertice del potere statale, anche solo temporaneamente, per stabilizzare la situazione economica e riprendere l’offensiva per la liberalizzazione. Lo scenario per il futuro è la continuità del progetto egemonico per l’apertura e per il libero scambio. Per quanto possa sembrare un’ipotesi fatalista o pessimista, al contrario, si tratta solo di ragionare in funzione della correlazione di forze in ogni momento storico. Alcuni si soffermano sulle somiglianze del crack attuale con quello avvenuto nel 1929, con la conseguente crisi del ’30. Allora, apprendendo la lezione, si abbandonò il concetto secondo il quale tutto sarebbe stato risolto dalla “mano invisibile del mercato”, ereditata dai fisiocrati classici e neoclassici dell’Economia Politica di più di due secoli, per inaugurare un nuovo tempo storico di rottura epistemologica che coincide con John Maynard Keynes. Questa nuova concezione si è imposta come corrente principale del pensiero e della politica economica per mezzo secolo (1930-1980) ed è stata messa in discussione con la crisi di redditività tra la fine degli anni ’60 e gli inizi del decennio seguente. Era finita l’età d’oro (dal 1945 al 1975), caratterizzata dalla crescita più alta che la società contemporanea abbia conosciuto, mentre i dati delle restrizioni alla redditività del capitale mettevano in discussione il paradigma teorico. Il keynesismo ha occupato un posto egemonico dal 1930 e già dal 1980 si manifesta come un momento di cambiamento del paradigma discorsivo nel potere mondiale con i governi conservatori britannici (Thatcher) e statunitensi (Reagan). La condizione di fondo nella crisi del ’30 era data dalla presenza di un competitore sistemico dell’ordine egemonico: la pretesa socialista dell’Unione Sovietica, che contribuiva a stimolare le domande dei lavoratori, soprattutto nei paesi più sviluppati del capitalismo mondiale, alimentando al contempo l’illusione del superamento dell’arretratezza e della dipendenza nel mondo sottosviluppato. La correlazione di forze su scala mondiale, all’uscita dalla crisi del ’30, condizionò la risposta con politiche keynesiane e riformiste che si materializzavano nello Stato benefattore ed il cui maggior esponente sarebbe stata l’Europa, con una forte presenza socialdemocratica, anche se colui che avrebbe posto in evidenza il nuovo ordine sarebbe stato Franklin D. Roosevelt con il “New Deal”, nel 1932. La sconfitta del socialismo sovietico, tra il 1989 e il 1991, ha modificato la scena della disputa globale e ha consentito la chiusura dell’eccezionalità di mezzo secolo di “capitalismo riformista” per riprendere il corso interrotto della liberalizzazione e dell’espansione transnazionale del capitale. Solo come ipotesi, aggiungiamo che i cambiamenti che avvengono in America Latina e nei Caraibi, aldilà delle incertezze, possono generare le condizioni per poter immaginare un ordine alternativo al capitalismo, e per questo nel nostro orizzonte si delinea simultaneamente la convivenza della crisi con il proposito della liberalizzazione esacerbata del capitale, e l’aspettativa per un altro mondo possibile, stimolata dalla complessa realtà latino-americana e caraibica.
3. Dalla crisi del debito nel 1982 si è succeduta una moltitudine di situazioni critiche in diversi paesi, passando dai problemi della Borsa degli USA, nel 1987, ai più recenti degli anni ’90 in Messico (1994), in Asia (1997), in Russia (1998), in Brasile (1999) e in Argentina (2001). In ogni occasione si sono avuti casi emblematici che anticipavano la situazione critica delle istituzioni che si stavano creando, negli ultimi anni, per la circolazione del capitale. Tra i casi di maggior trascendenza e visibilità mondiale vi è il fallimento, nel 1998, del “Hedge Fund” Long Term Capital Management (LTCM), nella cui amministrazione (il board di direzione) figuravano personalità della corrente principale, come Robert C. Merton e Myron S. Scholes, i vincitori del premio Nobel per l’economia, nel 1997, per i loro apporti ai metodi di valutazione dei derivati finanziari. Si trattava di una teoria relativa a investimenti su investimenti in condizioni “normali”, che la svalutazione russa del 1998 mise in crisi, danneggiando investimenti per 4.500 milioni di dollari e provocando il rapido intervento del sistema finanziario negli USA, capeggiato dalla Federal Reserve di New York. Una delle prime letture fatte di quella manifestazione di crisi è stata la necessità di regolamentare i mercati finanziari dei quali si stava perdendo il controllo. La diagnosi segnalava un insieme di eccezioni fuori controllo, ma nella sicurezza dell’alchimia finanziaria dei derivati e di altri istituti finanziari per sostenere l’euforia in ascesa di un mercato mondiale di capitali. Nello stesso modo si può pensare alla crisi della Enron che fin dalla sua origine nell’elettricità e nella sua diversificazione che includeva assicurazioni finanziarie, esplose come una frode contabile al fine di occultare i grandi profitti dei suoi promotori, nel segno della crisi derivata dall’11 settembre 2001 e dell’impatto di una crisi finanziaria che rendeva evidente l’emergenza della situazione in Argentina con la cessazione dei pagamenti, la più grande della storia contemporanea. In realtà, tra gli anni ’80 e gli anni ’90, vennero date le condizioni per la stimolazione della “bolla speculativa” sotto la guida, tra il 1987 e il 2006, della Federal Reserve degli Stati Uniti (FED) di Alan Greenspan, il quale nel 1997 parlò di “esuberanza irrazionale dei mercati”, alludendo alla vulnerabilità del mercato mondiale dei capitali. Gli anni di Greenspan sono stati teatro dell’avanzata della deregolamentazione finanziaria; i precedenti provenivano dalle direttive di Paul Volcher, titolare della FED tra il 1979 e il 1987. Queste direttive hanno causato l’aumento dei tassi di interesse che avrebbero portato all’estremo l’ipoteca dei paesi indebitati, principalmente in America Latina (Argentina, Brasile, Messico). Sebbene il neoliberismo agisca sotto il comando del terrorismo di stato nelle dittature del Cono Sur americano (Cile 1973, Argentina 1976), è con Ronald Reagan (1980) che acquisisce l’atto istitutivo di cittadinanza come ideologia e pratica politica dei governi più potenti del capitalismo mondiale. Il momento di Reagan è lo stesso di Volcher, ossia il transito verso un ventennio di irrazionale liberalizzazione che ora sta esplodendo ai massimi livelli dell’ordine capitalista. La liberalizzazione dell’economia, specialmente nelle finanze degli Stati Uniti, ha favorito l’emergenza dell’insieme degli strumenti atti a diminuire il rischio di inversione, tra i quali ci sono la divisione delle Banche commerciali e degli investimenti. In questi giorni, la crisi ha colpito le principali banche d’investimento, basti pensare al fallimento di Lehman Brothers; l’assorbimento di Merrill Lynch da parte di una Banca commerciale (Bank of America) e la trasformazione in banche commerciali delle due più grandi, Morgan Stanley e Goldman Sachs. Da quest’ultima proviene Henry Paulson, di cui fu presidente fino al maggio del 2006; attualmente è Segretario del Tesoro degli Stati Uniti e mentore del salvataggio delle banche in fallimento, tra cui la Goldman Sachs. Tra questi istituti è apparso un complesso reticolo di opzioni di investimento contro le assicurazioni ibride che facevano sembrare impossibile la caduta di un sistema solido che affrontava la logica del valore, che alla fine si impone con la distruzione di parte del capitale fittizio costruito attraverso la valorizzazione monetaria del capitale. All’inizio vi sono i crediti ipotecari e, in un secondo momento, i titoli assemblati in pacchetti sostenuti dai pagamenti dei creditori ipotecari, che nel loro sviluppo inducono la crescita del prezzo delle terre e del metro quadrato per le costruzioni, valorizzando le proprietà e rianimando un processo ascendente dei tassi di interesse che hanno danneggiato, a medio termine, coloro che si erano serviti dei prestiti. Il castello di carta costruito dal mercato immobiliario e finanziario di crediti di ipoteche si distrugge di fronte alle variazioni del valore degli immobili e di fronte all’impossibilità di onorare l’elevato costo delle ipoteche. Cresce la sfiducia e, con la caduta delle ipoteche precipitano anche i titoli e le assicurazioni ibride nate dall’architettura generata dalla liberalizzazione di questi ultimi anni. Avviene quindi una necessaria distruzione del capitale per stabilire un nuovo ciclo di accumulazione e valorizzazione per sostenere lo stanziamento degli utili, al momento, obiettivo finale del capitale. Quando si fa riferimento alla crisi immobiliaria si vuole mettere l’accento sul fatto che dietro il sistema finanziario e le sue ipoteche inesigibili, vi è l’industria delle costruzioni. Non esiste l’attività di borsa o finanziaria associata alla negoziazione delle ipoteche se prima non ci sono costruzioni materiali che entrano nel processo di circolazione. La circolazione di questi titoli (ipoteche e borse) di case o negozi (compra-vendita di immobili) avviene solo se esiste una precedente produzione o un impegno futuro di costruzione. La crisi si può manifestare nella circolazione e infatti, molto tempo fa, Karl Marx, spiegava il carattere della crisi come crisi di sovrapproduzione. Anche l’intellettuale rivoluzionario rifletteva sul capitale fittizio, associato alla produzione futura. Il fatto che la circolazione non realizzi la produzione rimanda alla convalida delle conclusioni della teoria del valore e delle crisi capitaliste che diventano, seguendo il cammino dello stesso capitalismo, nuovi cicli di accumulazione, concentrazione e centralizzazione del capitale, a meno che, naturalmente, un processo soggettivo di un’azione collettiva dia impulso alle trasformazioni sociali che intervengono nei cambiamenti sociali. Nelle condizioni attuali dello sviluppo del sistema mondiale, ciò che abbiamo detto allude ai processi sociali e politici all’interno della società statunitense, ma anche ai fenomeni nuovi di articolazione di proposte alternative dell’ordine mondiale, specialmente in America Latina e nei Carabi. Si può parlare di una speculazione affrettata, nondimeno è opportuno pensare, salvando le distanze, che un paese relativamente in ritardo rispetto al sistema mondiale, nel 1917 generò le condizioni per un cambiamento dell’ordine globale che si sono manifestate durante quasi tutto il XX secolo.
4. La crisi non è solo finanziaria, ma si estende anche all’economia ed ora è in piena fase di sviluppo dalla sua esplosione nell’agosto 2007; ed inoltre non cessa di rendere esplicite le conseguenze nella sua totalità. È ancora presto per qualsiasi previsione e ancora meno per anticipare la fine del capitalismo o dell’egemonia statunitense. Chiaramente durante la crisi degli anni ’30, gli Stati Uniti erano una potenza in espansione che imponeva, alla fine della seconda guerra mondiale, il dollaro come unico cambio e Washington come sede della nuova istituzionalità dell’architettura del potere economico e finanziario del mondo, stabilendo così la dominazione del FMI e della Banca Mondiale. Non ci sono dubbi sul ruolo che in questo periodo hanno avuto gli organismi finanziari e internazionali sotto la direzione degli Stati Uniti. La questione è quanta capacità di leadership rimane agli Stati Uniti in questa crisi e oltre, in un mondo la cui tendenza alla globalizzazione cresce come mai prima d’ora. Inoltre, risulta doveroso interrogarsi sulla nascita di una nuova egemonia capitalista e, con una certa audacia, la riflessione prima suggerita si riferisce a una prospettiva anticapitalista e quindi per il socialismo. La strategia imperialista subordina l’economia degli Stati Uniti e quella del sistema mondiale, così come fa la crisi, alle sue necessità. È un problema economico, politico, militare, ideologico e culturale. Le crisi negli Stati Uniti si risolvono con la militarizzazione e con il terrorismo globale che danno vita alle invasioni territoriali e alle aggressioni di tutti i popoli che lottano per l’emancipazione. Tutto questo impone una necessaria articolazione di una proposta globale di carattere alternativo. È ciò che nell’immaginario dei popoli si cerca di ricostruire nelle lotte per un mondo possibile e necessario. La società mondiale è minacciata dall’offensiva del capitale, che di fronte alla crisi intende rilanciare la strategia di dominio. Per farlo ha bisogno del consenso globale e, nello stesso tempo, questo comporta l’impiego di una strategia contraria per ottenere consenso sociale, politico e culturale per l’organizzazione di una società che soddisfi le necessità popolari. È la sfida del XXI secolo che presuppone una risposta alla crisi dalle classi subalterne. Le proposte di Washington e quelle del potere globale possono essere contestate con la nascita di un movimento mondiale che sappia lottare per un’alternativa nella costruzione di un mondo che si faccia carico della questione dell’emancipazione.
Riferimenti bibliografici
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Professore Titolare della Cattedra di Economia Politica presso la Facoltà di Diritto dell’Università Nazionale di Rosario. Professore di Dottorato presso le università pubbliche di Buenos Aires, Córdoba, Mar del Plata e Rosario. Presidente della Fondazione di Ricerche Sociali e Politiche, FISYP. Membro del Comitato Direttivo del Consiglio Latinoamericano di Scienze Sociali, CLACSO. Direttore Aggiunto del Centro Culturale della Cooperazione, CCC.
The Economist, September 13th 2008, sezione Finanze e economia a pagina 82.