1. Nella loro storia, i paesi periferici hanno affrontato una serie di fasi di vulnerabilità esterne commerciali e finanziarie. Attualmente si presenta un fenomeno innovativo nel quale convergono fattori di vulnerabilità commerciale e finanziaria e che è prodotto tanto dalla struttura di produzione ed esportazione dei paesi, che dalle trasformazioni del mercato finanziario internazionale. Tale fenomeno scaturisce dalla volatilità dei prezzi delle materie prime causata da condizioni reali e speculative. Negli ultimi anni si prodotto un aumento dei prezzi delle materie prime sospinto da una serie di fattori, inclusa la speculazione sui mercati dei futures, un fenomeno derivato dalla tendenza alla deregolamentazione del mercato finanziario che si è imposto fino alla recente crisi. L’aumento dei prezzi delle materie prime ha avuto conseguenze diverse nei paesi periferici, provocando per gli importatori un deterioramento delle condizioni di vita e per gli esportatori un miglioramento delle entrate dall’estero e dell’attività economica. Ma, per questi ultimi, l’aumento dei prezzi ha avuto anche effetti distorsivi, avendo determinato l’apprezzamento della moneta. L’esplosione della bolla delle ipoteche subprime ha provocato la caduta dei prezzi delle materie prime evidenziando l’elevata partecipazione della speculazione in quel processo, così come il carattere artificiale (non basato sulla produttività) dell’apprezzamento di alcune monete. Ha rivelato anche l’insostenibilità di parte dell’incremento del consumo promosso dall’ingresso di capitali di breve termine e delle spese di beni e servizi importati più facilmente per l’apprezzamento monetario2. Il risultato di questa situazione è un nuovo shock esterno dai grandi costi sociali per le economie periferiche di basso o medio sviluppo. 2. La vulnerabilità esterna delle economie periferiche si deve alla loro specializzazione nella produzione e nei prodotti primari la cui domanda e i relativi prezzi dipendono non dalle condizioni di produzione degli offerenti, bensì dalle entrate dei paesi centrali, o nel caso più recente, dei paesi in via di sviluppo ad alta crescita. Questa asimmetria ha dato luogo ad una enorme letteratura sul neocolonialismo, sulla dipendenza, sullo scambio disuguale o, da un punto di vista più economico, sul deterioramento dei termini di scambio. Nel secolo XX, precisamente, la caduta dei prezzi dei prodotti di esportazione delle economie periferiche, in relazione ai prezzi dei prodotti industriali che si verifica principalmente a partire dagli anni trenta e, poi, dal secondo dopoguerra, diede luogo alla teoria di Prebish-Singer sul deterioramento dei termini di scambio. La risposta di tale teoria a quel deterioramento, fu la sostituzione di importazioni e l’integrazione regionale, a cui deve aggiungersi una raccomandazione di Raúl Prebisch spesso dimenticata: lo stimolo all’esportazione di prodotti industriali. I paesi periferici soffrono, oltre dei periodi di deterioramento dei termini di scambio, di una volatilità dei prezzi delle materie prime che è relativamente maggiore di quella dei prodotti industriali e che si converte in volatilità delle entrate estere. A questo si deve aggiungere, a partire dagli anni settanta, la vulnerabilità di origine finanziaria3. A questo punto è importante tenere in conto, anche che le condizioni del mercato mondiale colpiscono gli equilibri macroeconomici e hanno costi sociali, ma forniscono anche opportunità di benefici straordinari, molte volte in forma di rendite finanziarie, per attori economici locali, nazionali o stranieri, che operano nel campo della produzione, la commercializzazione o il finanziamento delle attività primarie. Allo stesso modo di come le forme tradizionali di dipendenza costituirono lo scenario di accumulazione delle oligarchie e borghesie nazionali dei paesi periferici. La tendenza al deterioramento dei termini di scambio sembrò convertirsi, negli ultimi anni, nell’incremento dei prezzi delle materie prime. L’Indice dei Prezzi delle materie prime comuni (commodities) elaborato dal Centro di Economia Internazionale (CEI), della Cancelleria argentina dimostra che, tra la fine del 2000 ed il 2007, il prezzo del totale e delle commodities, escluse quelle relative all’energia, è aumentato del 127%, mentre il petrolio grezzo è aumentato del 254%. Tra fine 2007 e metà 2008, quegli Indici crebbero, rispettivamente, del 68% e 47% raggiungendo livelli molto superiori a quelli di 18 anni prima. Tuttavia, nonostante gli aumenti registrati, nel 2007, i prezzi di tutte le commodities in termini reali, eccetto metalli e minerali, sono sotto i picchi degli anni settanta mentre l’aumento dei prezzi dei beni primari ed il deterioramento dei termini di scambio hanno creato, come è accaduto particolarmente in Argentina, l’immaginario di una nuova opportunità storica di crescita sulle basi di produzioni tradizionali, articolata sull’utilizzo di tecnologia moderna nella produzione, trasporto e commercializzazione. Questa immaginazione esplose insieme alle bolle di speculazione sui più diversi mercati come si osserva in questi giorni. Nella terza settimana di ottobre, la quotazione della soia e del petrolio era approssimativamente la metà di quella di un anno fa. Per comprendere lo spettacolo dell’ascesa e caduta del prezzo delle commodities è necessario analizzare le cause dell’incremento e, nel caso del fattore speculativo, le condizioni che lo resero possibile.
3. L’aumento dei prezzi delle commodities ha cause molteplici: Domanda: L’aumento dei prezzi è stato principalmente conseguenza del rapido incremento della domanda di varie economie in forte crescita, in particolare Cina ed India, le quali sviluppano modelli basati sull’utilizzo intensivo di energia e materie prime per l’industrializzazione e le costruzioni. Sull’argomento, una relazione della società di consulenza argentina Abceb4 sostiene che la domanda è il fattore determinante dell’aumento di prezzi perché la domanda alimentare dei paesi in via di sviluppo ha fatto ormai ridurre lo stock mondiale di alimenti dalle sue storiche riserve di 100 giorni a circa 60. Durante il periodo dal 1997 al 2006 la domanda mondiale di alimenti è cresciuta ad una media annuale del 1,9%, e si stima che tra il 2006 e il 2015 la crescita si attesterà su una media del 2,6% annuale. L’UNCTAD (2008) stessa attribuisce l’aumento dei prezzi alla domanda asiatica, e considera che questo fattore, unito all’aumento dei costi di produzione per le crescenti restrizioni di offerta di alcuni beni (specialmente il petrolio) determinerà un rialzo a lungo termine dei prezzi. Confutando tale visione, un studio dell’Università del Tennessee mostra che tra il 1990 ed il 2007, la domanda di carne bovina e suina della Cina fu soddisfatta dalla produzione interna lasciando perfino saldi esportabili; importò poca carne di pollo nel 2007; mentre è autosufficiente nella produzione di riso e mais ed esporta ed importa grano5. È anche interessante verificare che esiste una forte differenza tra l’aumento del prodotto cinese e gli aumenti dei prezzi dei beni. Nel periodo 2002-2007, il Pil Cinese aumentò di un 10% annuo e l’Indice di Prezzi delle materie prime, di un 18% medio all’anno. Nel periodo tra il 2007 ed il primo semestre del 2008, l’aumento medio fu del 9% e 50% rispettivamente.
Allo stesso modo, si osserva che, nel caso dei cereali, gli aumenti dei prezzi internazionali furono molto più elevati del consumo e che, secondo UNCTAD (2008), la produzione aumentò alla stessa velocità del consumo.
Domanda per biocombustibili: l’aumento della domanda in prodotti come canna di zucchero e mais si deve anche alla crescente produzione di biocombustibili. Retroalimentazione: l’aumento dei prezzi dei combustibili impattò con quelli di altre commodities su due fronti: in forma diretta, nella misura in cui costituiscono input dei processi di produzione (combustibili o agrochimici nel caso della produzione di alimenti); in forma indiretta per l’aumento dei prezzi del trasporto che è significativo nelle commodities, per l’elevata relazione di questi prodotti tra volume da trasportare e prezzo.
Svalutazione del dollaro: la svalutazione del dollaro nella quale sono apprezzate le commodities favorì aumenti dei prezzi nei mercati, alla ricerca di compensare la caduta del valore finale di vendita. Si tratta dello stesso meccanismo che operò nel mercato petrolifero con la svalutazione del dollaro dopo il 1973. E così, secondo la UNCTAD (2008), tra maggio 2007 e maggio 2008, l’indice dei prezzi delle commodities, esclusi i combustibili, aumentò del 41,9% in dollari, ma solo del 32,7% in termini di titoli speciali e 23,3% in termini di euro.
Speculazione: l’inusitata crescita dei prezzi nel 2007 rafforzò l’opinione dell’influenza della speculazione in tale tendenza. Secondo l’UNCTAD (2008) la speculazione non è un conduttore dei prezzi delle commodities bensì piuttosto un fattore che può accelerare ed amplificare i movimenti dei prezzi spinti dall’offerta e dalla domanda. Questa visione è condivisa dalla Commodity Futures Trading Comisión (CFTC) con l’argomento che aumentarono anche sostanzialmente i prezzi delle merci senza un mercato nel futuro e nelle quali vi è poco o nessun commercio di indici, come accade col ferro e l’acciaio. Nel caso particolare del petrolio, la spiegazione abituale è che l’aumento si deve alla domanda cinese. Ma, come sostiene una relazione sul tema, nell’ultimo quinquennio, l’aumento del prezzo del barile è più prossimo all’aumento di un indice dei prezzi futuri che si usa per speculare che della domanda reale. Gli acquisti di petrolio a futures attraverso tale indice (Index), equivalgono a 1.100 milioni di barili, otto volte di più di quanti ne ha messi insieme negli ultimi cinque anni la Strategic Petroleum Reserve degli USA (Masters, 2008). L’UNCTAD ammette anche la partecipazione della componente speculativa e nota che, se c’è un cambiamento nei mercati finanziari che coinvolga i tassi di interesse o il recupero dei mercati borsistici gli investitori potranno decidere di cambiare la composizione dei loro portafogli e provocare una caduta nelle quotazioni. Da parte sua, anche la CFTC considera che i prezzi dei futures di merci sono il riferimento per il prezzo delle merci fisiche, per cui quando gli indici che si usano per speculare con quei beni aumentano, la spinta si trasporta nei prezzi dei beni fisici. Secondo quanto sostenuto nella relazione della Abceb, i contratti di futures non commerciali della Chicago Board of Trade, rappresentano il 45% di tutti quelli negoziati fino a giugno del 2008. Il che rende conto della spinta che esercita la pressione finanziaria sul prezzo finale delle merci. Una relazione di un dirigente di un’impresa di investimenti davanti al Senato degli Stati Uniti spiega in dettaglio il gioco speculativo sulle merci. Il 20 maggio 2008, Michael W. Masters, dirigente Masters Capital Management, spiegò davanti al Comitato di Sicurezza Nazionale e Temi Governativi del Senato degli Stati Uniti l’evoluzione del mercato di futures di merci. (Masters 2008) Secondo Masters, nei primi anni di questo decennio alcuni investitori istituzionali che si trovarono in difficoltà a seguito del ribasso del mercato dei titoli tra il 2000-2002, cominciarono a guardare al mercato di futures in merci come un potenziale settore di attività per gli investitori istituzionali. Le merci brillavano attraenti perché erano state storicamente non correlate, cioè titolari di una tendenza inversamente proporzionale ai portafogli di titoli e di entrate fisse. Per questo motivo gli investitori di diversa tipologia cominciarono ad investire nel mercato di futures scommettendo sull’aumento dei prezzi. Nel 2001 si creò l’Index di materie prime, un indice di prezzi che raggruppa le principali merci e che canalizza il grosso degli investimenti speculativi. La convergenza dell’interesse dei grandi investitori sul nuovo strumento, alterò drasticamente la dinamica del mercato. Tradizionalmente, i concorrenti nel mercato di futures furono i produttori, gli incettatori e le industrie, per coprirsi dal rischio di variazione dei prezzi. E, sebbene i mercati di futures avevano avuto sempre alcuni speculatori, i grandi investitori istituzionali non l’avevano considerato mai prima come vitale per gli investimenti a lungo termine. Sui mercati di futures tradizionali, gli speculatori finanziari scommettono sulle variazioni di prezzi a breve termine, e la loro attività garantisce una certa stabilità nei mercati. Ma nel mercato dell’Index, i fondi ed altri speculatori scommettono sull’aumento dei prezzi a lungo termine e non si disfano, del tutto, dei loro titolo ma vendono i contratti di futures prima della data di scadenza e reinvestono il ricavo in nuovi contratti. Gli investitori istituzionali che scommettono all’Index hanno una forte incidenza sul mercato per il volume dei loro portafogli che è più grande di quello degli operatori che investono solo in materie prime e perché il mercato di futures è più piccolo del mercato di capitali. Attualmente la posizione degli investitori istituzionali è maggiore di quella degli speculatori tradizionali e di quella delle posizioni commerciali. Gli investimenti nell’Index sono passati da 13.000 milioni di dollari alla fine del 2003, a 260.000 a marzo del 2008, il prezzo delle 25 merci che formano gli indici di investimento sono aumentate del 183% nello stesso periodo. Nel primo quadrimestre del 2008 gli speculatori dell’Index investirono 55.000 milioni di dollari sul mercato. Secondo Masters, negli ultimi cinque anni gli speculatori dell’Index, hanno accumulato titoli di acquisto che equivalgono alla domanda dell’industria di etanolo degli Stati Uniti per un anno. In grano, la riserva degli speculatori dell’Index è di 1.300 milioni di tonnellate, cioè l’equivalente del consumo di due anni del cereale negli Stati Uniti. L’elevata incidenza dei nuovi operatori che scommettono sull’incremento sostenuto dei prezzi, spiega che si è generata una tendenza di aumento autogenerato. Masters esemplifica l’effetto sociale di questa speculazione: se gli investitori comprano grandi quantità di sostanze farmaceutiche e strumenti medici, per ottenere profitti con l’aumento dei prezzi che provocano, li trasformano in prodotti irraggiungibili per i malati. La stessa cosa succede con la speculazione che fa aumentare i prezzi dei prodotti alimentari, del combustibile e del riscaldamento.
4. I mercati di futures di materie prime hanno sofferto una progressiva deregolamentazione che ha eliminato le norme prudenziali stabilite in origine e contribuito alla crescente speculazione. Nel 1848 si creò a Chicago, centro della cintura del grano nordamericano, la Chicago Board of Trade, il primo mercato di futures (con titoli standardizzati a partire dal 1865). Nel 1882 nacque il New York Mercantile Exange (NYMEX), con futures per la carne in lattina, le uova ed il burro, e nel 1933 il Commodities Exange (COMEX), per negoziare tra l’altro metalli e caucciù. Nel 1936 nacque il mercato di futures di Chicago, con una norma per la quale non doveva permettersi che gli speculatori dominassero i mercati di tale prodotto. Nel 1972 la Borsa merci di Chicago aprì la prima borsa di futures in valuta dove i compratori di prodotti di base potevano negoziare futures in valuta per coprirsi da eventuali rischi. Successivamente alla crisi del sistema dei tassi di cambio fisso e del principio di fluttuazione delle valute (1973), aumentò la necessità delle imprese e degli operatori finanziari di proteggersi dalle variazioni future dei tassi di cambio e dei tassi di interesse e così si stimolò la speculazione col valore dei futures monetari e di beni quotati sui mercati mondiali. Per due decenni i mercati hanno funzionato con forti regolazioni sugli investimenti di ogni operatore per ridurre le possibilità speculative. Ma, a partire dagli anni novanta, la CFTC ha permesso ad alcuni speculatori un accesso praticamente illimitato al mercato di futures di commodities. Nel 1992, la CFTC dettò la regolamentazione 35, che esonerava certi tipi di contratti di energia dall’esigenza di essere contrattati all’interno delle regole del NYMEX e nel 2000 deregolamentò le transazioni realizzate sul mercato elettronico. In questo modo la maggioranza delle operazioni si realizzano tra le parti, senza essere registrate sui mercati stabiliti (Over the counter, OTC). Nel 2000 si abolirono, di fatto, i limiti alle posizioni di ogni investitore. Uno degli strumenti utilizzati fu quello di abilitare un sistema di passaggi attraverso i quali un investitore nel mercato può contrattare con una banca un passaggio di copertura, quando il suo investimento eccede l’importo fissato. Il passaggio è un contratto per il quale la banca realizza l’operazione per conto dell’investitore. Inoltre, la banca può registrare l’acquisto come un’operazione commerciale, per cui non si calcola come investimento speculativo. Ad ogni modo l’operazione genera un debito dell’investitore con la banca e, pertanto, un rischio implicito. L’autorizzazione ha aperto una breccia nella legislazione che ha dato luogo ad un aumento degli importi investiti in futures. Secondo Masters, l’85%/90% degli operatori dell’Index utilizza il sistema dei passaggi per investire importi maggiori a quelli autorizzati. Una storia simile la si trova nel mercato di futures di petrolio creato negli Stati Uniti nel 1983. Parallelamente, negli anni novanta si crearono vari mercati di materie prime deregolati (come l’Intercontinental Exchange) sui quali si permette ai fondi di copertura di rischio (Hedge Funds) ed alle banche di investimento, di contrattare futures senza nessuna limitazione, nessun obbligo di informazione, nessun controllo sull’operatività. Enron fu tra i primi operatori a comprare senza limiti di mercato futures di energia e con investimenti finanziari. Questa strategia la condusse all’insolvenza quando i prezzi dell’energia non corrisposero alle ipotesi iniziali.
5. La deregolamentazione dei mercati di commodities fu parte di un processo più ampio di liberalizzazione ed ampliamento del mercato finanziario. Dagli anni ‘80 ebbe luogo una progressiva apertura del conto di capitale e una deregolamentazione dei sistemi finanziari che diede luogo ad una lunga serie di crisi di gravità crescente. Questa trasformazione non fu un prodotto naturale del mercato, bensì la conseguenza di un gioco di forze nel quale si imposero quelle vincolate alle attività finanziarie, che includono tante entità specifiche del settore come frange crescenti del capitale che cerca di rivalutarsi attraverso la rendita finanziaria6. Una delle conseguenze di tali trasformazioni, è l’inclusione di crescenti segmenti dell’attività economica e della società nei circuiti finanziari. E così si registra l’aumento del finanziamento ai paesi periferici negli anni settanta (con la conseguenza del loro indebitamento); l’inclusione delle imprese come attività di speculazione (fusioni ed acquisizioni di carattere finanziario); l’espansione dei fondi di pensione (finanziarizzazione delle entrate del ciclo della vita); l’ampliamento e deregolamentazione dei mercati di futures di futures (inclusione di prodotti vitali nei circuiti speculativi); l’estensione del finanziamento del consumo ed ipotecario. Questa ultima fase incluse l’espansione del credito a settori insolventi e la commercializzazione dei debiti, i quali furono, a loro volta, comprati con leva finanziaria, avventura estrema e terminale che affrettò la crisi finanziaria globale. La deregolamentazione diede luogo, anche, all’apparizione di nuovi attori e strumenti finanziari, tra i quali i derivati. I derivati sorsero come una forma di copertura dai rischi futuri. Secondo la visione convenzionale, le operazioni di futures riducono le possibilità di fluttuazioni brusche nelle quotazioni del mercato e i rischi degli investitori. Questa posizione è contestata da analisti ed organismi che ritengono che i derivati si sono trasformati in una forma di speculazione pericolosa la cui portata e rischio implicito è impossibile da valutare. Parte delle operazioni si realizza nelle borse o attraverso camere di compensazione che impongono determinati requisiti ai partecipanti, e nelle quali rimangono registrate le transazioni. Ma un’altra parte si porta a termine in forma privata, a tavolino (OTC), in modo sconosciuto esattamente come si ignora la grandezza del mercato. Dagli anni ‘90, il mercato di derivati è cresciuto velocemente. Secondo la Bank for International Settlements (Bis), il giro d’affari giornaliero del mercato si è triplicato tra il 1995 ed il 2005 e successivamente, fino al 2007 si è ancora raddoppiato. La maggior parte del mercato di derivati è formata da transazioni sui tassi di interesse, quotazioni di azioni e tassi di cambio, cioè di operazioni di copertura dal rischio finanziario o scommesse sul futuro di variabili finanziarie. Meno del 2% sono contratti su commodities.
Le operazioni di acquisto o di vendita di futures in valuta, grano, petrolio o titoli di debito possono farsi senza che gli appaltanti abbiano l’attivo incluso, perché terminando l’operazione i pagamenti si effettuano per le differenze tra i prezzi fissati nel contratto e quellii vigenti nel mercato, senza che il compratore esiga che gli siano consegnati effettivamente, gli attivi. Ma inoltre, le operazioni possono pattuirsi impegnando solo una percentuale dell’importo che l’uno o l’altro appaltante dovrebbe pagare in futuro. I tassi di profitto di queste operazioni sono molto elevati nella misura in cui sono in relazione ai ridotti importi effettivamente impegnati. Ma, se lo scommettitore perde può trovarsi con seri problemi di liquidità e deve procurarsela vendendo attivi, il che mette in moto un circolo vizioso di vendite e caduta dei mercati, come accade attualmente sui mercati di commodities ed in quelli di titoli ed azioni.. Già nel 1999, il FMI emanò un ammonimento che, con la crisi, acquisisce enorme attualità: “gli shocks rappresentano una palla di neve scagliata in aria se un operatore di futures richiede ai suoi clienti che aumentino i margini di copertura in risposta ad un cambiamento nel valore delle proprie posizioni. Gli ordini di vendita (di titoli da parte degli operatori che hanno bisogno di liquidità per coprire le loro posizioni) possono dar luogo al fatto che i crolli dei prezzi siano più rapidi” (FMI 1999 p. 126). Questo è precisamente quello che è successo, negli ultimi mesi, sui mercati di futures di commodities e di titoli ed azioni in generale.
6. Negli anni ’90 si produsse, oltre alla comparsa del mercato speculativo sui prezzi delle materie prime, lo smantellamento dei sistemi regolatori costruiti per stabilizzare i prezzi. Negli anni settanta e ottanta, funzionò un sistema di accordi tra produttori e consumatori di materie prime, gli International Commodity Agreements (ICA) il cui obiettivo era la stabilizzazione dei prezzi attraverso l’intervento diretto sul mercato, con la formazione di stock di intervento e quote di esportazione. Gli stock erano finanziati internazionalmente; si compravano le commodites e si immagazzinavano quando i prezzi avevano una discesa tendenziale di lungo termine, e si vendevano quando i prezzi salivano. Questo sistema includeva principalmente caucciù e cacao. Su zucchero e caffè si applicavano preferibilmente quote di esportazione. Secondo l’UNCTAD (2008), gli ICA ebbero problemi di finanziamento ma ebbero alcuni effetti positivi nelle economie di esportazione. In quel periodo, anche i paesi intervenivano individualmente con provverdimenti di stabilizzazione. Questi sistemi non avevano impatto sui prezzi internazionali, ma fungevano comunque da cuscinetto tra i prezzi internazionali e quelli del mercato interno. D’altra parte, il FMI e l’UE finanziavano i governi attraverso sistemi come il Compensatory Financing Facility (CFF), del FMI, ed i programmi stabiliti negli accordi tra UE ed Africa e UE ed il Caribe Pacifico (Lome e Cotonou) I programmi di intervento furono smantellati a partire dagli anni novanta con l’evoluzione delle teorie e politiche neoliberali che sostenevano che i mercati avevano un potere regolatore più efficiente. E nei programmi del FMI e dell’UE aumentarono le condizionalità per l’accesso ai fondi. Nel periodo 1998-2007, la stabilità dei mercati fu minore che nel periodo 1968-1977, durante il quale si registrò la crisi del dollaro con conseguenti aumenti del prezzo del petrolio. Ma fu comunque maggiore del periodo precedente, 1978-1997.
7. Gli aumenti di prezzi delle commodities colpiscono nella periferia in diverso modo secondo il bilancio commerciale dei paesi ivi collocati. Nelle importazioni netti aumentano i costi per alimentazione e produzione. Uno dei problemi più gravi del periodo recente, di forte aumento dei prezzi degli alimenti, fu il rincaro del costo per le importazioni di generi alimentari nei paesi poveri soprattutto africani. Per i paesi esportatori, aumentarono le entrate estere e migliorarono i termini dello scambio, salvo nel caso degli esportatori di prodotti agricoli.
I prezzi delle commodities ebbero, oltre ad un incremento, un aumento della instabilità. Secondo l’UNCTAD, tra il 1970 ed il 2008, i prezzi dei prodotti manifatturieri ebbero variazioni inferiori al 10%. Il maggiore grado di instabilità si registra negli anni novanta. I prezzi delle commodities, combustibili esclusi, hanno registrato variazioni superiori al 10%, ed il range di variazione comincia ad ampliarsi sostanzialmente a partire dal 1998. Le variazioni più grandi corrispondono, in tutto il periodo, ai prezzi dei combustibili, con picchi che arrivano al 40% sopra e sotto la media. La tradizionale volatilità di questi prezzi si aggravò sicuramente con l’intervento, negli ultimi anni, della componente speculativa. Le ampie variazioni dei prezzi si riflettono nell’instabilità delle entrate di valuta e delle entrate private e fiscali collegate all’esportazione.
8. L’aumento dei prezzi dei prodotti primari hanno migliorato le economie esportatrici di questi prodotti, creando però conseguenze secondarie avverse di breve e lungo termine. Uno dei problemi è l’apprezzamento delle monete nei paesi le cui esportazioni sono aumentate a partire dall’incremento dei prezzi dei beni primari. L’apprezzamento cambiario è conseguenza dell’applicazione dei modelli di obiettivi di inflazione che privilegiano il controllo dell’offerta monetaria e lasciano che il tasso di cambio sia fissato dai flussi di capitale. Questa politica implica il decidere tassi di interesse alti che attraggono capitali di breve termine che si sommano ai derivati del commercio estero o degli investimenti esteri. Le entrate di capitale aumentano il tasso di cambio e lo collocano ad un livello che colpisce le attività con minori vantaggi comparativi ed il cui sviluppo richiede divise più svalutate. Come spiega Bresser-Pereira (2008), nelle economie a minore sviluppo industriale, esistono due tassi di cambio di equilibrio. Un tasso di cambio di equilibrio generale che corrisponde alla media della produzione che è influenzato dalla produttività delle attività con maggiori vantaggi comparativi (primari o i suoi derivati ed industrie a manodopera intensiva), ed un tasso di cambio con moneta più svalutata, per le industrie. Quando la politica monetario-finanziaria permette che il tasso di cambio si fissi sul primo tasso, l’industria più avanzata perde competitività e capacità di esportazione. Questo fenomeno si chiama Malattia Olandese in riferimento al danno che causò all’industria dell’Olanda l’apprezzamento del fiorino dopo l’aumento dei prezzi del petrolio negli anni settanta (Sinteticamente, l’apprezzamento del fiorino mentre non colpiva la Shell, attaccava Philips). La Malattia Olandese pregiudica l’insieme dell’economia perché le attività tradizionali, ancor quando includano tecnologia, come avviene per il petrolio e l’agricoltura, non impiegano tutta la forza-lavoro e si perdono opportunità di investire in settori a maggiore componente tecnologica e con una produzione di maggiore valore aggiunto. (Bresser-Pereira, 2007). D’altra parte, il tasso di interesse elevato e l’aspettativa di una maggiore rivalutazione della moneta locale, attraggono capitali a breve termine che fomentano bolle di consumo, immobiliari o borsistiche che sottopongono le economie ai rischi di crisi davanti ad un eventuale cambiamento delle condizioni del mercato estero. Con diverse sfumature, questa situazione si verificò nell’ultimo quinquennio in Brasile, Messico e Cile. In Argentina, al contrario, il sostegno di una politica di tasso di cambio competitivo con contenimento delle esportazioni, neutralizzò l’impatto dell’aumento di prezzi di beni primari. (Frenkel, 2004). Tale distorsione può correggersi, almeno parzialmente, con strumenti come le imposte sulle esportazioni che riducano la soglia di remunerazione tra i settori primari e industriali; operazioni di sterilizzazione destinate a mantenere un tasso di cambio competitivo, più alto di quello di equilibrio generale; misure per scoraggiare l’ingresso di valute di breve termine; creazione di fondi di stabilizzazione in valuta, investiti fuori del mercato interno, per evitare l’effetto monetario.
9. L’aumento dei prezzi delle commodities ha riproposto l’importanza delle imposte o ritenute sulle esportazioni, uno strumento respinto dall’ortodossia economica. I principali obiettivi ed effetti delle ritenute possono sintetizzarsi come segue: Prezzi: una delle conseguenze degli aumenti dei prezzi di esportazione fu la generazione di pressioni inflazionarie sulle economie esportatrici. Questo si deve al fatto che gli esportatori tendono a fissare i prezzi sul mercato interno seguendo il modello dei prezzi esteri, alla ricerca di un punto di indifferenza tra la vendita sul mercato interno e l’estero. Nei momenti di aumenti dei prezzi di prodotti esportabili, questo provoca pressioni sui prezzi interni che non sono collegate ai costi di produzione locali. Le ritenute riducono le entrate favorendo una dissociazione tra i prezzi interni e esteri fungendo da strumento anti inflazione. Fisco: mediante le ritenute, lo Stato si appropria di una parte delle entrate degli esportatori che, nella misura in cui non nuoce il livello critico del margine di sfruttamento, non può colpire l’investimento settoriale. Offerta estera: quando un paese è un produttore significativo di una commodity sul mercato mondiale, le ritenute possono avere impatto sul prezzo internazionale e sull’offerta nella misura in cui, riducendo il prezzo incamerato dal produttore, riducono il redditività possibile e, teoricamente, la produzione. Per questo motivo, negli ultimi anni tanto da organismi internazionali che da organizzazioni non governative si sono mosse critiche alle ritenute che applicano i paesi produttori di generi alimentari, sostenendo che riducono l’offerta mondiale di quei prodotti. Remunerazione di fattori: le imposte sulle esportazioni modificano il modello interno dei prezzi relativi intrasettoriali, a scapito dei settori con maggiore vantaggio comparativo che sono quelli che trattano le risorse naturali nella Periferia o le industrie a manodopera intensiva, a beneficio di quelli a maggiore componente tecnologica. In questo modo si riduce la distorsione provocata dalla valorizzazione delle materie prime esportabili e si promuove una remunerazione fattoriale favorevole all’industrializzazione.
10. I prezzi dei prodotti primari continuano ad essere caratterizzati da un’alta volatilità. Per questo motivo, indipendentemente delle fasi di crescita dei prezzi, la specializzazione nella produzione ed esportazione di materie prime continua ad essere una fonte di vulnerabilità per i paesi periferici. La deregolamentazione del mercato finanziario internazionale, e dentro questo processo, quella di futures di commodities, ha generato una nuova forma di vulnerabilità che va ad interessare le tradizionali forme commerciali e finanziarie. I paesi periferici non sono scollegati dai movimenti commerciali e finanziari del mercato mondiale, ed il loro grado di vulnerabilità dipende dal tipo di modello di vincolo con il mercato. L’implementazione di politiche di tasso di cambio fisso o di tasso di cambio fluttuante che avallano valorizzazioni della moneta nazionale non basate su aumenti di produttività, conducono alla generazione di bolle speculative su diversi mercati e sono essenzialmente insostenibili. La crisi e le sue conseguenze ripropongono le raccomandazioni di regolazione finanziaria internazionale e di politiche sostenibili nei paesi periferici, che si raccomandano dopo di ogni crisi, ma sono poi lasciate da parte nella successiva fase di ripresa. E questo crea le condizioni per le crisi future.
Riferimenti bibliografici
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Economista, UNICEM, Università di Buenos Aires.
L’Argentina ha vissuto esperienze di questo tipo alla fine degli anni settanta ed inizio ottanta, per un regime di tipo di cambio di incremento programmato e, durante gli anni novanta, con il regime di convertibilità. Entrambi i sistemi provocarono sopravvalutazione e culminarono in crisi.
Sul tema cfr. Sevares, J. América Latina: de la trampa comercial a la trampa financiera. Su Economía Mundial y Desarrollo Regional. Bernal-Meza, Raúl y Saha, Suranjit Kuma (Edit.). Nuevohacer/Grupo Editor Latinoamericano. Buenos Aires, 2005.
Quotidiano Infobae 30-6-2008.
Quotidiano La Jornada, Messico, 11-6-2008.
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