Crisi strutturale e sistemica con uso della finanza: un nuovo vecchio modello contro il lavoro

RITA MARTUFI, LUCIANO VASAPOLLO

1. Un po’ di storia economica Nell’ottobre del 1929 si ebbe il fatidico crollo dell’economia mondiale che coinvolse tutti i paesi industrializzati; la grande depressione ricordata come il “Crollo di Wall Street” ebbe conseguenze devastanti in tutti i paesi industrializzati e provocò oltre a drastiche riduzioni di reddito anche crolli del commercio internazionale, dell’agricoltura e di tutte le produzioni. Moltissime sono state le analisi effettuate per spiegare tale grave crisi economica che partendo dagli Usa si è estesa in tutto il mondo; Galbraith tra gli altri, spiegò che tra i motivi vi era senza dubbio, oltre a una errata distribuzione di reddito, anche un eccesso di speculazione finanziaria e una struttura sbagliata del sistema bancario. La crisi bancaria fu soprattutto sovrapproduzione di capitale, mancanza di regole certe ecc. ma sicuramente anche allora come oggi si è trattato di una crisi di carattere strutturale e quindi tutta interna allo stesso sistema di produzione, cioè una determinata caratterizzazione del modello di produzione capitalista. Negli anni seguenti si è avuta una ripresa economica mondiale che ha però conosciuto svariate crisi di minore impatto e piccole riprese fino ad arrivare alla soluzione della crisi, con la seconda guerra mondiale, che rende possibile l’esplicitarsi in tutte le sue forme dell’economia di guerra e dello stesso keynesismo con la sua caratterizzazione militare sia in termini di sostegno della domanda per la guerra guerreggiata sia per la successiva fase della ricostruzione. Se la crisi e un evento “normale”, e non eccezionale come pensano i keynesiani, insito nel modo di produzione capitalista per distruggere quel capitale in sovrappiù che inceppa meccanismi di accumulazione e di crescita del saggio di profitto, allora anche la stessa economia di guerra è una “normale” modalità per sostenere la domanda, indotta e imposta, nei periodi di sottoconsumo o di sovrapproduzione di merci e di capitali. E’ così che le crisi si ripetono; basta ricordare ad esempio quella del sistema monetario del 19921, la crisi delle Borse asiatiche del 1987 e la crisi di Wall Street del 2001 con la conseguente stagnazione che si è protratta per lunghi anni. La moneta USA è divenuta sempre più debole al confronto dell’euro che ha iniziato la sua ascesa nei confronti del dollaro. Il capitalismo attuale è condizionato dalla finanza e dall’abbandono delle politiche keynesiane di sostegno della domanda attraverso lo Stato sociale; la finanza è diventata dominante e il liberismo più sfrenato si è applicato non solo alle merci e ai prodotti ma soprattutto ai movimenti di capitale provocando molti dubbi anche nei teorici dell’economia dominante. Il programma neoliberista include non solamente una determinata politica macroeconomica, ma anche importanti cambiamenti strutturali nel campo tecnologico, istituzionale e nella politica e correlazione di forze sociali. Per applicare questo programma, i governi conservatori di centro-destra e di centro-sinistra portano avanti un’offensiva contro il movimento sindacale di classe, che si traduce già dai primi anni ‘80 in serie sconfitte del movimento operaio. Il fallimento dello sciopero dei sindacalisti britannici del carbone si tradusse in una modificazione della legislazione lavorativa, che ha trasformato la Gran Bretagna nel paese dell’UE con maggiori restrizioni legali per realizzare un sciopero. Le privatizzazioni (sotto l’ideologia del “capitalismo popolare”) ed il deterioramento delle condizioni di lavoro ebbero la punta dell’iceberg nel sistema di servizi pubblici britannici, e hanno generato con la precarizzazione un mercato del lavoro che non garantisce che il lavoro serva per uscire da situazioni di povertà. Lo sviluppo della cornice legislativa del neoliberismo include come prima misura quella di generare una recessione per provocare un aumento della disoccupazione, per evitare il pieno impiego e debilitare il movimento sindacale organizzato di classe, con l’obiettivo di poter avere una manodopera disciplinata. Recessione che finisce per la via monetarista ad aumentare i tassi di interesse (è ciò che realizza il presidente della Riserva Federale dell’EUA Paul Volcker nel 1982, provocando improvvisamente l’aumento del debito estero dei paesi periferici e la conseguente crisi del debito). Ai cittadini non si dice che l’aumento del prezzo del denaro abbia tale obiettivo, ma si sostiene che si provoca la recessione perché c’è inflazione, e per combatterla bisogna contenere la spesa, e per questo il consumo, e bisogna adattare la capacità di acquisto alla capacità di produzione. Altre componenti dell’aggiustamento neoliberista sono la flessibilizzazione salariale e di impiego e la deregolamentazione per via legale (cioè la precarizzazione istituzionale); riduzione dell’insieme di norme che regolano il funzionamento dell’economia e privatizzazione, cioè riduzione della capacità di intervento diretto nell’economia dello Stato e del settore pubblico. La flessibilizzazione è anche una componente di deregolamentazione, che consiste nel ridurre gli ostacoli al licenziamento e facilitare nel contempo la contrattazione parziale. A sua volta, la flessibilizzazione salariale vincolata alla negoziazione collettiva cerca l’individualizzazione salariale per rinforzare la disciplina nel lavoro, affinché aumenti la produttività individuale e ciò trova legittimazione legale attraverso le decine di contratti di lavoro cosiddetto atipico, cioè precario. La privatizzazione contribuisce inoltre alla saturazione della domanda dei prodotti tradizionali. Con la privatizzazione si trasforma in merci un insieme di attività che stavano nelle mani dello Stato fino a quel momento. In particolare, le attività più dinamiche della nuova rivoluzione industriale, cioè: le comunicazioni (telefono, linee aeree) o perfino l’energia ed i servizi sociali. E ciò, si dice, avviene per garantire il successo del sistema-paese nella competizione globale: tutti i cittadini sono chiamati a concorrere per il bene comune nella globalizzazione. Sicuramente le tendenze di fondo del contesto economico internazionale negli ultimi anni sono molto cambiate. Nell’impianto strutturale produttivo, ad esempio, le imprese sono passate da una struttura produttiva orizzontale ad una struttura di tipo verticale, con la conseguente segmentazione e concentrazione della produzione e del capitale. La diminuzione dei costi di trasporto, la soppressione generalizzata dei dazi, il crescente abbattimento dei diritti portuali e aeroportuali e dei monopoli ferroviari, marittimi ed aerei, stanno determinando un mercato delle merci, in cui la localizzazione del centro di produzione diventa sempre meno rilevante. Nella produzione snella, la comunicazione, il flusso di informazioni accedono direttamente nel processo produttivo: comunicazione e produzione si fanno coincidere. Il programma di produzione è impostato a partire dalle esigenze del mercato. La delocalizzazione, la frammentazione e la dispersione dei luoghi fisici della produzione non implicano affatto una diminuzione del potere della grande impresa capitalistica. Essa continua, proprio grazie alle concentrazioni finanziarie e al downsizing (dimagrimento), a mantenere il suo potere. Si realizzano così le filiere produttive nazionali ma anche internazionali, alla ricerca di luoghi produttivi in cui il fattore lavoro è specializzato ma bassi sono i suoi costi e le garanzie sindacali.

2. Verso il neoliberismo e la finanziarizzazione Dal 1981, iniziarono i processi di ristrutturazione della politica economica. Le previsioni si concretizzavano nella riduzione veloce e sostenuta dell’inflazione, nella riduzione della disoccupazione, e nella drastica diminuzione del deficit fiscale. La logica della politica economica si sarebbe indirizzata verso una politica di restrizione monetaria che avrebbe implicato una diminuzione delle pressioni inflazioniste, e verso una politica fiscale che avrebbe incoraggiato un incremento dell’offerta, cioè una combinazione tra “l’ortodossia monetaria” e le “raccomandazioni d’offerta”, considerando che questo circolo vizioso avrebbe portato ad un processo dinamico e sostenuto che avrebbe rotto l’incatenamento caratterizzato dalla combinazione tra stagnazione ed inflazione.

Inoltre l’arma della crisi del petrolio è stata usata pesantemente negli anni ’70; due terribili attacchi pilotati con enormi rincari del prezzo del petrolio misero in crisi il primo tentativo dell’Europa di creare un blocco economico antagonista a quello statunitense, attraverso la costruzione del “Serpente Monetario”. Appena nata la moneta europea, temendo che potesse rafforzarsi sui mercati e diventare strumento di riserva valutaria internazionale, è iniziato l’attacco frontale degli Stati Uniti, capaci di attirare enormi quantità di capitali europei attraverso gli alti tassi d’interesse americani e l’ipertrofia di un’economia finanziata proprio dal denaro proveniente dalla vecchia Europa. Quest’ultima da una parte sceglie politiche monetariste restrittive per il rispetto dei criteri finanziari di Maastricht, che hanno provocato disoccupazione e accresciuto i disagi sociali, dall’altra parte è politicamente troppo debole e frammentata per contrapporsi da subito e in maniera adeguata allo strapotere statunitense. A ciò si aggiunga che la politica monetaria imposta dalla Banca Centrale Europea tende a ribadire ai vari governi i vincoli restrittivi in modo da sfruttare la favorevole situazione economica per risanare i bilanci pubblici e ridurre il debito pubblico senza alcun intervento espansivo dell’economia in termini occupazionali. L’Europa in realtà punta ad una continua competizione con la crescita statunitense incentrata sulla stabilità dei prezzi, stimolando la crescita di un’economia di scambi facili ad alta redditività nei servizi, specie sul lato della finanza, rafforzando i processi di finanziarizzazione ed imponendo riforme strutturali che puntino alla liberalizzazione (cioè privatizzazione) delle prestazioni sociali e alla rimozione di qualsiasi forma di rigidità del mercato del lavoro, cioè flessibilità e precarizzazione allargata al massimo. Ma ciò che si potrebbe chiamare “reaganismo originario” portò ad alcune conseguenze, come una lenta rigidità della “politica monetaria” nel 1981, che implicò una crescita iniziale del M1 (massa monetaria) di circa un 10%, ma successivamente ebbe una crescita pari solo al 4,7%, per poi decadere successivamente tra aprile e novembre del 1981 ed essere cancellato definitivamente2. Le suddette misure della politica monetaria ebbero effetti, non previsti dalla teoria:

a) una crescita sostanziale del costo del credito, cioè una crescita dei tassi d’interesse; b) spinta all’innalzamento del tasso di cambio effettivo; c) esercizio di un impatto recessivo sul livello di attività economica, in quanto limitò fortemente la domanda e la produzione; d) non funzionò il cosiddetto principio della “curva di Phillips”, secondo il quale un incremento di M1 avrebbe prodotto un incremento del risparmio, che si sarebbe tradotto in un aumento dell’investimento produttivo.

In realtà l’incremento di M1 fu diretto al risparmio che non riguardò l’investimento produttivo, ma l’industria del divertimento e della speculazione, come risultato del livello per niente stimolante in cui si trovava il tasso di profitto; tutto ciò provocò l’aumento dei tassi d’interesse. In quel periodo, l’economia si vide sommersa dal peggior momento recessivo dal dopoguerra. Il recupero dell’ultimo trimestre del 1982 non è dipeso solo dalla politica economica: la perspicacia dei cosiddetti economisti dell’offerta (Supply Side Economics) non consistette tanto nella politica che avevano raccomandato, quanto nell’essersi resi conto del fatto che il modello di accumulazione del dopoguerra si era esaurito, poiché l’economia nordamericana, in particolare, stava passando ad un nuovo paradigma tecnologico, all’interno del quale l’obiettivo della politica economica non doveva essere più lo stimolo diretto alla “domanda effettiva”.

3. Accumulazione flessibile e finanza Tutto questo accadeva perché si stava progressivamente passando dal ciclo fordista-keynesiano, basato sul paradigma tecnologico dell’industria metal-meccanica-automobilistica-petrolchimica, ad un ciclo cosiddetto postfordista, che ha la sua base tecnologica dominante nel paradigma elettronico-informatico. L’accumulazione flessibile (così chiamata da David Harvey) si confronta direttamente con le rigidità del fordismo; si tratta della flessibilità dei processi produttivi, dei mercati del lavoro, dei prodotti e dei modelli di consumo che determina dei cambiamenti nel processo disuguale di sviluppo, fra settori produttivi e fra regioni geografiche, con un aumento vertiginoso nel settore dei servizi e la nascita di industrie in regioni sottosviluppate. Si potrebbe anche dire che la globalizzazione neoliberista si oppone alla multinazionalizzazione che implica che un’impresa, pur essendo presente in diversi paesi, è comunque legata soprattutto a uno Stato, di solito il paese d’origine. Oggi, invece, sempre più l’impresa multinazionale decide la propria strategia produttiva in funzione dei costi di produzione relativi nei diversi luoghi e in relazione ad una diversificazione del prodotto finale da vendere nel maggior numero possibile di paesi o, anche, di un prodotto assemblato nella impresa madre con componenti che arrivano dalla varie filiere produttive situate in ogni parte del mondo. La finanza ha mutato il suo ruolo e da sostegno all’economia reale è passata ad essere sostegno di se stessa. E’ chiaro che per arrivare a questa situazione di liberismo senza regole della finanza si è dovuta prima introdurre la libera circolazione dei capitali che il sistema monetario di Bretton Wood non permetteva e che fino a pochi decenni fa non esisteva neppure. Il sistema monetario attuale chiamato dagli economisti USA “Bretton Wood II” non si basa più sulla convertibilità dollaro-oro ma su cambi fluttuanti e sulla sempre maggiore presenza dei paesi asiatici a finanziare il deficit statunitense che è cresciuto a dismisura e che sta causando i guasti dei giorni nostri. Ora, dopo quasi 80 anni dal fatidico ‘29 ci troviamo, infatti, di nuovo di fronte a una delle crisi economiche e finanziarie più gravi che il mondo occidentale ricordi. Va detto che il terremoto che ha investito le Borse internazionali a partire dal “cosiddetto settembre nero” secondo Paul Samuelson (premio Nobel dell’economia) può essere paragonato al crollo del muro di Berlino per il comunismo. “Nell’ultimo anno le Borse mondiali hanno perso il 41% della loro capitalizzazione, pari a 25.9 trilioni (sono migliaia di miliardi) di dollari; con Wall Street che ha pagato il prezzo più grosso: 7 trilioni. Sono numeri talmente grossi che non si riesce nemmeno ad immaginarli. Diciamo che gli investitori mondiali hanno perso negli ultimi dodici mesi il prodotto interno lordo generato in tutto il mondo in sette mesi.”3 Se si pensa che il PIL mondiale è di 44.000 miliardi circa ci si rende conto che le perdite subite corrispondono a circa il 70% del PIL mondiale. Ma attenzione perché il capitale finanziario giocando il ruolo nel sistema di capitale fittizio e non produttivo, non determina plusvalore, non genera ricchezza reale e quindi la Borsa non brucia ricchezza ma in una sorta di gioco a somma zero fa sì che ciò che è perso da qualcuno è vinto da qualche altro. La felicità che doveva assicurare la globalizzazione, il paradiso che era assicurato dal capitalismo finanziario dove sono?

4. La morsa della finanza nella competizione globale Ma da dove si è partiti per arrivare ad oggi? Sicuramente dalle effettive manifestazioni della crisi d’accumulazione strutturale dei primi anni ’70 (primo shock petrolifero) che evidenziava l’incapacità sistemica di mantenere i livelli “adeguati” di saggio del plusvalore, obbligando i diversi capitalismi a tentare la via della globalizzazione incentrata, come abbiamo dimostrato in tutti i nostri lavori, libri, articoli, almeno di questi ultimi 15 anni, sulla predominanza della finanza, quindi del capitale fittizio su quello produttivo, sulle privatizzazioni e l’abbattimento dello Stato sociale, con il connesso attacco al salario diretto, indiretto e differito. Tutto ciò si è concretizzato in esternalizzazioni, delocalizzazioni produttive, uso massiccio degli investimenti diretti esteri, scomposizione del mondo del lavoro e attacco ai diritti, sviluppo della precarietà che accompagna la disoccupazione strutturale, con la cosiddetta flessibilità del lavoro tutta interna ai nuovi modelli di accumulazione flessibile, fino alle guerre di espansione e di controllo per il petrolio e le materie prime e dei flussi e della composizione del “capitale umano”, cioè la forza lavoro, per la società dell’economia postfordista a forte contenuto di risorse immateriali e per dare linfa vitale alle aree del fordismo sostenute dalle nuove forme di schiavitù del lavoro, ecco il neoliberismo che nel tentativo di uscire dalla crisi sistemica usa la globalizzazione che ha portato l’economia mondiale ad assumere una forma di economia virtuale, immateriale, di carta, in una competizione globale che usa il sistema delle rendite finanziarie immobiliari e di posizione per l’arricchimento di pochi, per strozzare il mondo del lavoro, senza prospettive reali di risoluzione della crisi come dimostrano gli ultimi sussulti della finanza “allegra e creativa”. Fino ad oggi all’incremento della liquidità internazionale non si erano unite tensioni inflazionistiche perché negli Stati Uniti l’immigrazione, l’aumento di produttività e le importazioni frenavano tale possibilità e in Europa i processi inflattivi erano limitati dalle politiche restrittive sul salario diretto, sulla spesa sociale, sulla mancata redistribuzione di reddito e ricchezza e quindi sul contenimento dei consumi. Ma oggi, come si è visto, l’inflazione ridiventa una variabile centrale; lo si vede nell’aumento dei prezzi del petrolio e delle materie prime, che provocano una crescita dei tassi e un’alta volatilità dei corsi azionari. Sono gli organismi finanziari internazionali che avvertono sugli aumenti dei rischi di instabilità legati all’assetto dei mercati finanziari internazionali, nei quali soltanto gli investitori istituzionali muovono capitali in dollari pari all’incirca al valore dell’intero prodotto mondiale. Basta soltanto che le aspettative sui profitti di tale capitale investito siano al ribasso per far fuggire enormi masse di capitale verso i paradisi fiscali, e addirittura si pensa che solo un tremendo scossone monetario e un crollo delle quotazioni azionarie possa ristabilire un corretto rapporto fra mondo finanziario e mondo dell’economia reale in un sistema monetario internazionale che tenga maggiormente come riferimento gli equilibri e i fondamentali dell’economia fra polo statunitense, polo europeo e polo giapponese. È proprio attraverso la guerra del dollaro contro l’euro, la crisi petrolifera a guida americana e la gestione di quella che hanno definito New Economy nel contesto generale della finanziarizzazione dell’economia, che gli Stati Uniti giocano le loro carte per soffocare le mire di affermazione ed espansione del nuovo polo geoeconomico dell’Unione Europea. La conferma di questa analisi viene ulteriormente rafforzata dalla dinamica geografica dei flussi di investimenti diretti esteri, che negli anni ‘90 del XX secolo hanno rappresentato lo strumento principale del dogma internazionale di comando della “stabilità” politico-economica globale, divenuto elemento prioritario della politica di controllo e di dominio, imposto nel mondo anche attraverso il nuovo ruolo assunto dai diversi organismi politico-economici internazionali (FMI, BM, BEI, OCSE, WTO, etc.). Una “stabilità” che diventa legge di dominio, sia di natura politica sia economica, per il controllo nelle aree del mondo ad interesse strategico-economico delle dinamiche politiche, sociali e delle crisi economiche, in modo che si risolvano sempre a favore delle grandi multinazionali occidentali e degli interessi dei più importanti blocchi geoeconomici e geopolitici, USA e UE primi fra tutti.

5. La globalizzazione finanziaria La nuova fase cosiddetta postfordista a connotati finanziari porta al predominio di un ciclo fortemente speculativo, in cui il denaro investito si accresce senza passare attraverso alcun intermediario produttivo; in pratica non c’è trasformazione del capitale in mezzi di produzione, in produzione effettiva, prevalendo sempre più l’investimento finanziario rispetto a quello produttivo di gestione caratteristica, realizzando contesti di “bolla finanziaria” speculativa. Il luogo in cui si effettua la produzione è determinato dal costo del lavoro, dalla specializzazione dei lavoratori, dalle infrastrutture. Non è più la postazione geografica legata allo sfruttamento delle risorse materiali ad influenzare la nascita e lo sviluppo degli insediamenti produttivi, ma i fattori economici, sociali, politici legati alle dinamiche del costo del lavoro e ai processi di creazione dei monopoli. E con l’obiettivo di frantumare l’unità e la forza che la classe operaia aveva espresso in tutte le sue potenzialità negli anni ’60 e ’70 si impongono processi di scomposizione attraverso le esternalizzazioni, le delocalizzazioni, la precarizzazione del lavoro con le mille forme di lavoro atipico che portano ad un significativo abbattimento del costo del lavoro e a rapporti sempre più individuali e disaggregati della classe lavoratrice. Nel mercato finanziario, invece, molto più impressionante è stata la globalizzazione realizzata in questi anni ed è sicuramente in questo senso che si è meglio evidenziata e realizzata una delle condizioni della fase attuale della mondializzazione capitalista. La differenza tra l’aumento delle esportazioni di merci, la crescita e la sua movimentazione dei capitali è stata sorprendente: basta pensare che dal 1964 al 1992 la produzione nei paesi a “capitalismo avanzato” è cresciuta del 9%, le esportazioni del 12% mentre i prestiti internazionali sono cresciuti del 23%. Ogni giorno circa 2.000 miliardi di dollari sono spostati da un punto all’altro del pianeta attraverso le speculazioni finanziarie. Le grandi imprese industriali che fino a pochi anni fa erano collocate tra le prime dieci imprese del mondo, sono oggi state sostituite dalle imprese finanziarie (come ad esempio i grandi Fondi pensione degli USA e del Giappone). E i capitali si spostano prevalentemente tra Europa, USA e Giappone mentre solo il 15% dei trasferimenti si attua nei mercati emergenti. Sono oggi le valute l’oggetto delle speculazioni finanziarie e non più, come accadeva negli anni ’80, le oscillazioni dei prezzi delle merci; solo nel 1999 il valore complessivo di tutte le attività finanziarie dei principali paesi capitalisti è stato stimato pari al 360% del Prodotto Interno Lordo della stessa area. Il controllo delle valute e del capitale finanziario permette di determinare le quotazioni dei cambi e quindi di accumulare profitti sempre più alti; questo però provoca solo un “fittizio” movimento del plusvalore tra capitali e non reale, ossia determinato dalle merci. La competizione determinata dall’unificazione internazionale, intesa come l’attuale fase della mondializzazione capitalistica, ha imposto negli ultimi anni ristrutturazioni di impresa, innovazioni tecnologiche che invece di creare nuova occupazione hanno realizzato meno posti di lavoro dei licenziamenti effettuati. Una realtà senza analogie con il passato, che ha portato la disoccupazione a divenire uno dei fenomeni più drammatici del nostro tempo con caratteristiche sempre meno congiunturali, assumendo forti connotati strutturali. Questo anche perché, molte imprese, per ridurre il peso degli oneri sociali e ridurre il costo del lavoro utilizzano sempre più il cosiddetto “outsourcing”, ossia l’esternalizzazione di fasi e di interi processi produttivi per accrescere l’efficienza e la produttività dell’impresa e diminuire i costi. Domina la “produzione snella” che unita a forti processi di finanziarizzazione permette di realizzare subito alti profitti. Per far essere questo sistema sempre più efficace le imprese si organizzano con tecniche e tecnologie nuove che incrementano la parte del ciclo produttivo che viene decentrato all’esterno, dando così risposta in tempi sempre più brevi alle oscillazioni della domanda, delle richieste dei clienti-consumatori. Localmente la finanziarizzazione si unisce ad un aggravio enorme della disuguaglianza nella distribuzione interna del reddito e della ricchezza realizzata, la quale si indirizza sempre meno al fattore lavoro (sotto forma di salario diretto, differito e indiretto), spostandosi verso il fattore capitale in forme di surplus finanziario, cioè come elemento predominante di remunerazione in forma di puro profitto finanziario. Conseguenza di questo fenomeno è il rischio di un arretramento delle democrazie in Occidente, una desocializzazione, una degenerazione della politica e un’omologazione alle logiche del profitto di tutto il sociale. Si realizza così una sorta di “totalitarismo finanziario” e della cultura d’impresa che, alla ricerca di profitti facili, sempre più di tipo finanziario-speculativo e non produttivo, destabilizza intere aree (vedi le crisi del Messico, del Brasile, della Thailandia, della Corea, dell’Indonesia, della Russia, dell’Argentina), determinando processi di instabilità politico-economico-sociale con conseguenze che si fanno più critiche e violente attraverso l’uso delle cosiddette guerre etniche, dei fondamentalismi religiosi, della disgregazione delle unità nazionali e con forme sempre più sofisticate dell’uso della criminalità; il tutto funzionale ai paradigmi del Nuovo Ordine Mondiale. Negli ultimi 15 anni si è evidenziato un forte legame tra finanziarizzazione dell’economia e criminalità; si pensi,ad esempio, al commercio della droga cui vanno aggiunti tanti altri traffici illegali, come quello delle armi, il mercato clandestino dei rifiuti, la prostituzione e il mercato dei lavoratori schiavi nella cosiddetta economia sommersa (sommando ai proventi della droga quelli dei traffici sopra citati, si raggiunge un giro di affari di oltre 1000 miliardi di dollari annui). Un aspetto fondamentale in tutto questo processo di internazionalizzazione è sicuramente quello relativo alla ridefinizione, in senso di centralità di ruolo, del sistema bancario e finanziario in genere, cui è affidato il compito di determinare i nuovi processi di sviluppo internazionale e le linee strategiche della competizione globale. Da molti decenni, infatti, è in atto un processo di grandi movimenti finanziari che coinvolge tutto il mondo, con un sistema interbancario che si appoggia su intermediari diffusi su tutto il territorio; le banche universali svolgono direttamente la gran parte delle funzioni loro richieste da privati e imprese con grandi mercati interbancari che collegano tra loro banche radicate sul territorio e banche che sono localizzate in piazze finanziarie.

6. La specificità finanziaria nella crisi strutturale: il ruolo del sistema bancario Sicuramente un tracollo notevole derivato da questa crisi è stato quello delle banche che, essendo tra i principali acquirenti dei titoli “carta straccia”, si sono ritrovate ad avere nel proprio portafoglio oltre 750 miliardi di dollari di bond cartolarizzati. Infatti oltre il 40% della capitalizzazione delle Borse è andato perso in quest’ultimo anno; le cifre parlano chiaro: quasi 26.000 miliardi di dollari e Wall Street che è arrivata a perdere 7000 miliardi. La tabella 1. seguente mostra alcuni dati sui costi della crisi forniti dal Fondo Monetario Internazionale.

Tab. 1.

Cfr. www. Tgcom.mediaset.it/infografica/infografica3326.shtml

Negli ultimi nove mesi le banche europee e americane hanno perso 568 miliardi di euro di capitalizzazione e se Hsbc e il Santander sono rimaste in prima e seconda posizione, e Intesa Sanpaolo si è confermata al 6° posto, Ubs è scesa dalla quinta alla settima posizione, UniCredit è crollata dalla terza all’ottava posizione e Royal bank of Scotland è finita in coda con una capitalizzazione crollata del 75% a 14,6 miliardi.4 (cfr. tab. 2 e 3) Tab. 2. Capitalizzazioni banche5

Tab. 3 Se si guardano le prime dieci banche USA si vede che JP Morgan è arrivata al primo posto (in precedenza era al terzo) la Lehman Brothers è arrivata al 10 posto, la Merrill Lynch è passata dal quarto al settimo posto. Ed ora si affaccia un altro spettro per l’economia americana; ossia la bolla speculativa delle carte di credito. “Dopo aver inondato per anni gli americani - scrive il quotidiano (New York Times NYT) - con offerte di carte di credito e linee di credito senza limiti, banche e società specializzate stanno tagliando drasticamente entrambi”. La stretta “sta interessando perfino i consumatori meritevoli di credito e minaccia il settore bancario, già in forte difficoltà, con un’altra ondata di perdite massicce, dopo un’epoca in cui ha potuto mietere guadagni da record con il business del credito facile, che ha contribuito a creare”. Nel primo semestre 2008, spiega il Nyt, le società che offrono carte di credito hanno svalutato crediti a rischio per 21 miliardi di dollari, “perchè molti clienti non riescono più a pagare i debiti. E con le società che licenziano decine di migliaia di lavoratori, secondo gli analisti il settore si aspetta perdite per altri 55 miliardi nel prossimo anno e mezzo”. Al momento “le perdite totali ammontano al 5,5% del debito delle carte di credito, ma potrebbero superare il livello del 7,9% raggiunto nel 2001 dopo lo scoppio della bolla dei titoli tecnologici”6.

7. Come si è arrivati alla cosiddetta crisi dei subprime Il tutto in un contesto di competizione globale a forti connotati finanziari, in cui quello che è cambiato nel vecchio concetto di globalizzazione (a prescindere dalle tecnologie) è l’interconnessione dei fenomeni economici (produzione, consumo, scambio, ma anche l’incremento e l’accentramento di capitale, di tecniche e impianti, le nuove forme di finanziamento, l’imprenditorialità, la competitività, i nuovi processi di accumulazione). Questi fattori tendono, però, al rafforzamento polare dei blocchi economici dei più potenti paesi-area (USA, UE, polo asiatico) dell’economia mondiale, attraverso l’uso politico nuovi processi di finanziarizzazione dell’economia. Gli USA, dalla chiusura forzata e voluta degli accordi di Bretton Wood, hanno continuato a utilizzare prestiti per finanziare il proprio grande deficit; negli anni tra il 2002 e il 2007 oltre il 48% del finanziamento netto del deficit corrente degli USA è stato coperto da Governi stranieri; la politica fiscale di Bush ha portato ad un buco nel sistema finanziario di oltre il 7% del PIL, a ciò si è aggiunto il crescente indebitamento delle famiglie americane che per anni hanno continuato a spendere al di sopra dei propri mezzi. Fino all’anno 2006 negli USA si è registrato un fortissimo rialzo dei prezzi delle case di proprietà che nell’arco di quasi dieci anni (dal 1997 al 2006) sono cresciuti di oltre il 124%; questa situazione però ha avuto come principale determinante la scelta di sostenere una domanda asfittica l’aumento spropositato dei debiti da parte delle famiglie americane sempre più vincolate al pagamento dei mutui stipulati per l’acquisto della casa, e anche al debito al consumo. Il sistema americano, per sostenere la crescita “gonfiata” del PIL, ha fatto si che le banche cominciassero a concedere il credito anche ai cosiddetti clienti Ninja (No income, No Job and Assets) ossia a persone che non avevano un lavoro stabile, un patrimonio alle spalle e nessun tipo di copertura finanziaria, ma pagavano fitti altissimi, spesso più alti del loro salario. Questa pratica ha consentito a famiglie in precarie condizioni economiche di ricevere un mutuo per l’acquisto di una casa a tassi di interesse all’inizio molto favorevoli. Chiaramente questa situazione non poteva durare e quando le famiglie si sono viste aumentare i tassi di interesse e non hanno potuto più pagare i loro debiti hanno dovuto cedere gli immobili per mancato pagamento dei ratei di mutuo. Questa condizione è andata avanti per qualche tempo fin quando si è arrivati ad una vera e propria bolla speculativa con un aumento elevato del tasso di interesse; ciò ha fatto si che la stragrande maggioranza degli americani che avevano un mutuo a tasso variabile non è stata più in grado di pagare le rate e si è vista pignorare la casa; a catena sono crollati i titoli cartolarizzati, e si sono avuti i noti fallimenti di banche e istituti finanziari. Ecco che la crisi ha l’effetto normale di distruggere i capitali (e le imprese) in eccesso. L’aumento del valore immobiliare però ha registrato una brusca frenata dal 2007 a causa di un preventivato aumento spropositato dei tassi di interesse dei mutui, che rende insolventi in particolare gli acquirenti non garantiti, ha fatto si che molti si sono trovati in condizioni di impossibilità nel pagamento del mutuo e quindi è partita una serie di pignoramenti che ha interessato molte famiglie americane. Si è avuto così un crollo economico di sistema che vede come fattore apparentemente scatenante la cosiddetta crisi dei subprime ossia il crollo delle banche che avevano come pratica la concessione di mutui a persone che non potevano garantire la loro solvenza. La crisi dei mutui americani è peggiorata in modo disastroso nel 2008 e a luglio di questo anno si sono avute procedure di pignoramento per proprietari di case di oltre il 170% in più rispetto a luglio 2007; le cifre sono altissime e riguardano circa 740mila proprietari di case che rischiano l’esproprio della propria casa. L’aumento marcato dei tassi di interesse ha portato a una grave crisi di insolvenza e al fallimento di molte famiglie americane (circa 2 milioni). Si pensi che a giugno 2008 si registrava una percentuale di insolvenza dei mutui subprime altissima; ad esempio per mutui stipulati nel 2005 oltre il 37% dei titolari aveva problemi di pagamento e quindi di solvibilità. Nel 2006 la situazione è peggiorata e la percentuale è salita a più del 40% e ha registrato una lieve diminuzione nel 2007 fermandosi intorno al 29%. Le banche che avevano concesso questi mutui “di seconda categoria” o subprime nell’ambito dei giochi della finanza “creativa” hanno pensato di “cartolarizzare” questi mutui; si è avuta così una immissione nel mercato di titoli assolutamente “insicuri” e che molto spesso, essendo in un certo senso “camuffati”, perché avallati con la complicità di “credibili” agenzie di rating, venivano venduti anche ai titolari di Fondi Pensione, colpendo anche così il mondo del lavoro diminuendo con tali pratiche il salario sociale complessivo, che si sono trovati così ad aver nel proprio portafoglio titoli che in sostanza erano “carta straccia”. E non è stato sufficiente neppure il ribasso del tasso di sconto effettuato dalla FED. Questa grave situazione negli USA si è avuta soprattutto a causa della speculazione finanziaria e immobiliare; così si spiega il fatto che negli ultimi 20 anni il prezzo degli immobili raddoppiava circa ogni cinque anni; questo però non per un effettivo aumento del valore degli immobili ma di un aumento forzato dovuto alle speculazioni. I cittadini che richiedevano un mutuo erano solo in piccola parte coloro che acquistavano una prima casa essendo in realtà per la maggioranza speculatori, spesso anche piccoli speculatori che tentavano la buona sorte, che acquistavano al solo scopo di rivendere dopo qualche anno a un prezzo raddoppiato. Si ricorda che negli USA nel luglio 2007 si sono avuti 179.599 pignoramenti di case con un aumento del 9% rispetto al mese di giungo 2007 e di oltre il 93% rispetto al 2006; lo scenario è quindi catastrofico e si estende anche ai paesi europei. Nel 2007 infatti il timore di un crollo ancora maggiore dei mutui subprime ha portato ad una caduta molto accentuata di tutti gli indici di Borsa che si è estesa anche all’Europa. Dopo trenta anni nei quali l’intera economia USA ha vissuto indebitandosi sempre di più si è arrivati al capolinea.(cfr. grafici seguenti7). A fronte di un PIL mondiale di 44.000 miliardi c’è un debito pubblico degli USA di oltre 11.000 miliardi di dollari. Il livello di indebitamento negli USA è stato nel 2007 pari a 13,8 trilioni di dollari oltre 1 milione in più rispetto all’anno precedente e l’indebitamento per persona ha raggiunto il valore di 46,115 dollari, ossia 184,460 per una famiglia composta da 4 persone. Dai grafici 1 e 2 si vede come, analizzando dal 1957 al 2007 sia aumentato a dismisura il valore del debito complessivo USA ma soprattutto l’importo stratosferico dei debiti familiari; cioè una economia in crisi strutturale irreversibile che si sostiene fittiziamente con la finanza, debito interno ed esterno, pubblico e privato, e con il keynesismo militare, l’economia di guerra.

Graf. 1.

Graf. 2.

8. Il “settembre nero” nella crisi sistemica Ed arriviamo ora a parlare di quello che ormai viene definito il “settembre nero”. La grave crisi che si evidenzia in apparenza per i connotati finanziari si è accentuata negli USA e ha interessato a catena tutte le borse occidentali. La Lehman Brothers è stata una delle maggiori interpreti del capitalismo subprime, si ricorda che Fannie e Freddie hanno da soli più della metà dei 12 mila miliardi di dollari di mutui sulle case dei cittadini americani. Il fallimento di colossi bancari come la prima grande banca americana la Lehman Brothers e il crollo di tutte le Borse ha portato il governo degli USA a “nazionalizzare” di fatto la Fannie Mae e Freddie Mac i due colossi dei mutui in società pubbliche per un periodo indeterminato. “Il piano include anche l’acquisto da parte del governo di obbligazioni garantite da mutui subprime possedute dalle società. Il presidente della Federal Reserve Ben Bernanke ha diffuso un comunicato in cui fa sapere di apprezzare questa decisione del Tesoro, L’aumento sempre più rapido delle insolvenze sui mutui immobiliari espone le due società al rischio di enormi perdite, che potrebbero costare ai contribuenti americani decine di miliardi di dollari - il salvataggio potrebbe costare fino a 100 miliardi di dollari secondo diverse fonti - ma Paulson ha sottolineato che l’impatto finanziario di un fallimento delle due società sarebbe disastroso per il sistema. , ha detto.”8 E’ interessante vedere nella tabella 4 seguente quali sono i paesi che possiedono la maggiore percentuale del debito dei bond a ABS di Fannie e Freddie; la quota maggiore è in mano alla Cina seguita dal Giappone a riprova, oltre che per i titoli del debito pubblico, che i paesi asiatici sono i maggiori creditori degli USA.

TAB.4. ABS E BOND VENDUTI DA FANNIE E FREDDIE IN MILIARDI DI DOLLARI9 PAESE TOTALE CINA 376 GIAPPONE 229 ISOLE CAYMAN 52 LUSSEMBURGO 39 BELGIO 33 PAESI MEDIO ORIENTE 30 REGNO UNITO 28 IRLANDA 26 OLANDA 23 SVIZZERA 16 CANADA 4 RESTO DEL MONDO 449 TOTALE 1.305

Un altro dato importante per comprendere il perchè di questa grande esplosione della bolla speculativa immobiliare e finanziaria è rappresentato dai dati che mostrano come il mercato, partendo dai cosiddetti mutui subprime, si sia poi allargato al punto di raggiungere un valore complessivo di cartolarizzazioni e mutui immobiliari USA pari a 531mila miliardi di dollari pari a più di dieci volte l’intero PIL mondiale; il grafico 3 seguente rende subito chiaro quanto scritto10:

Graf. 3.

La crisi odierna ha caratterizzazioni maggiormente sistemiche rispetto alle precedenti crisi delle Borse del 1987 e quella informatica, o meglio della New Economy, del 2001 perché in questa situazione non sono solo in pericolo gli strumenti e le strutture finanziarie ma è colpita direttamente l’intera forza lavoro, specializzata e non, ceti bassi e ceti medio-alti, senza ammortizzatori sociali né alcun tipo di mediazione che per l’equilibrio del sistema salvi, almeno in parte, il potere d’acquisto e il salario sociale complessivo; la popolazione che lavora che si ritrova senza abitazione e con nessuna possibilità di sanare la propria situazione debitoria; in aggiunta a ciò si registrano fallimenti dei Fondi Pensione e quindi anche in questo caso chi ne paga le maggiori conseguenze sono i cittadini che erano stati costretti a investire nei fondi il capitale che doveva garantire la loro pensione.

Ma un altro elemento caratterizza la crisi attuale: l’aumento straordinario del prezzo del petrolio e dei beni alimentari; dal 2007 fino a tutta l’estate del 2008 infatti si sono registrati incrementi del prezzo del petrolio come non si erano mai avuti prima e si è arrivati a quasi 150 dollari al barile. E’ chiaro che questo aumento spropositato non è stato causato da una maggiore richiesta di greggio ma da speculazioni indirizzate alla ricerca di super-utili sempre maggiore; questo accade perché questi profitti vanno principalmente alle multinazionali che lo esportano e non alle imprese che lo estraggono che in maggioranza appartengono agli stati. Anche l’aumento degli alimenti è dovuto ad una speculazione; con il pretesto della nuova energia alternativa, ossia gli agrocombustibili, si è arrivati a uno sfruttamento e a un commercio senza limiti a fini non alimentari dei beni alimentari come mais, olio di palma,ecc, che sono basilari per le economie dei paesi più poveri, con anche in questo caso paurose speculazioni a carattere finanziario (scommesse a termine, futures, derivati, ecc su grandi quantitativi di beni alimentari). E’ chiaro che le speculazioni sugli energetici e gli alimentari rappresentano altri modi di presentarsi della finanziarizzazione dell’economia che attraverso il capitale fittizio tenta disperatamente di dare soluzione ad una crisi che ha chiaramente caratteri sistemici. E quindi le speculazioni che si sono avute con il petrolio e con gli alimenti hanno contribuito a formare quella bolla finanziaria che è esplosa in questi giorni.

9. La globalizzazione del decadimento sociale La nuova globalizzazione polarizzata, o meglio la moderna competizione globale, mette in gioco non solo il ruolo dell’impresa fordista e del processo produttivo connesso, ma anche gli assetti internazionali finanziari e bancari, vero elemento di innovazione nel processo economico mondiale. Quello che sta avvenendo è il predominio non solo di un nuovo sistema produttivo delocalizzato, ma anche di un nuovo sistema finanziario, di una nuova accumulazione del capitale, “accumulazione flessibile” dell’era postfordista basata proprio sui processi di finanziarizzazione dell’economia e sull’uso massiccio, in termini di accumulazione valoriale, del capitale intangibile, delle risorse immateriali quali la conoscenza, l’informazione, la comunicazione, etc. Si parla allora di accumulazione flessibile, contraddistinta da un confronto diretto con le rigidità del fordismo. Tale modello di accumulazione ha bisogno di una classe lavoratrice flessibile, accondiscendente, che non possa configgere, priva di una struttura di classe organizzata, frammentata, scomposta, quindi individualizzata e precarizzata. Il capitale riparte così all’offensiva imponendo un dominio sociale complessivo che si basa su una determinata flessibilità nei confronti dei processi produttivi, dei mercati del lavoro, dei prodotti e dei modelli di consumo. L’immagine più diffusa mostra che viviamo in un mondo globalizzato, nel quale i margini di manovra dei partiti politici si vanno riducendo, indipendentemente dalle ideologie. Tuttavia, bisogna considerare quali sono gli attori concreti per rendersi conto del fatto che i margini di manovra non sono dati, ma si costruiscono a partire dalla forza di ognuno. Il capitale finanziario di molti piccoli paesi della periferia si sta impiegando in questi circuiti. Anche molte grandi imprese produttive si muovono sulla strada della finanziarizzazione, tralasciando in gran parte la produzione, poiché quello che bisogna produrre è denaro a partire dal denaro, che è quello che produce più rendimento attraverso le mille forme di finanza speculativa. Imprese come la General Electric ottengono oggi maggiori entrate dai propri investimenti finanziari che dall’attività di produzione. Nella cornice delle istituzioni nazionali ed internazionali i nuovi attori che appaiono sul mercato globale di valute sanno far pressione sugli organismi internazionali e hanno una capacità di negoziazione e fondi maggiori di quelli di molti governi. L’innovazione tecnologica, l’omogeneizzazione mondiale dei bisogni dei consumatori, la diminuzione delle barriere doganali e la trasformazione produttiva sono senza dubbio tra le principali motivazioni “ufficiali” di questo nuovo processo, che sta ormai interessando il mercato mondiale. L’alternativa progettata consiste nel generare una società di consumo di massa internazionale, che permetta di frammentare internazionalmente la classe operaia che si era unificata a livello nazionale: ad esempio, una parte della classe operaia tessile tedesca sono i lavoratori di Singapore e Malesia delle imprese tessili tedesche; una parte della classe operaia dell’automobile degli Stati Uniti sono i lavoratori messicani o argentini della Ford, etc. Allo stesso tempo si aumenta la capacità di consumo di una frangia della popolazione dei paesi poveri, minoritaria ma sufficiente a rendere redditizio il commercio internazionale di prodotti di alto valore aggiunto e perfino la commercializzazione interna di parte della produzione delle multinazionali. Questi nuovi consumatori sostituiscono coloro che si sono impoveriti, uscendo dal novero dei generatori di domanda: essi appaiono ormai, nei paesi sviluppati, in numero sufficiente affinché la disoccupazione, l’esercito industriale di riserva, appunto, permetta di controllare i lavoratori di quei paesi. Il cambiamento di culture, schemi intellettuali e convinzioni politiche, è legato ai processi economico-produttivi e al connesso sviluppo socio-politico ed economico. Si modificano così continuamente i modelli di vita a partire dalle determinazioni del rapporto di forza del conflitto capitale-lavoro. Si evidenzia in conseguenza l’accentuarsi delle disuguaglianze di reddito e di condizioni di vita all’interno anche dei paesi a capitalismo maturo con un carovita e un restringimento della capacità d’acquisto e quindi anche di risparmio, che colpisce fasce di lavoratori sempre più ampie. Vi è una nuova intensità di povertà culturali, un sempre maggiore attacco alle forme di protezione sociale e di Welfare, un indebolimento dei modelli di rappresentanza politica e forse per la prima volta ci si trova a dover salvaguardare l’identità, il ruolo e la funzione sociale dei ceti medi, costretti, a scontrarsi con un rischio di progressivo impoverimento, avendo come prospettiva immediata la precarizzazione di ogni forma e di ogni momento del vivere sociale. Il divario tra produzione (industria, servizi, attività pubbliche) ed esigenze occupazionali è stato riformulato solo nell’ottica di uno sviluppo della performance di profitto, sempre più spesso a connotati finanziari, nel quale la valorizzazione socio-culturale delle risorse umane ha rappresentato solo un costo, e non una grande occasione per incrementare la domanda singola e comunitaria, anche di sviluppo ad alta sostenibilità socio-ambientale, favorendo le attività basate su funzioni di incremento di cultura, di solidarietà e di civiltà. Ma non tutti gli incrementi di produttività sono stati correttamente ridistribuiti. Anzi, come si è visto nel corso dell’analisi, sono andati quasi esclusivamente a remunerare il fattore capitale, sotto forma di un profitto non reinvestito produttivamente ma finito quasi totalmente nella “bolla finanziaria speculativa”, a facile guadagno, ma privo di capacità di creare nuova e reale occupazione. La classe lavoratrice dei paesi a capitalismo maturo è stata privata di tutte quelle garanzie e privilegi di cui godeva nei decenni scorsi. È stata scomposta e riorganizzata in tutti i settori con un unico scopo: quello di realizzare di nuovo tassi di profitto elevati (anche se i livelli raggiunti nelle colonie sono difficilmente equiparabili). La forza-lavoro nei paesi a capitalismo maturo, pur se si volesse accettare per buona l’analisi jaffiana, ha ripreso oggi (da decenni) a produrre plusvalore (W). A maggior ragione quando si pensa a settori come quello dell’informatica, delle biotecnologie, quello agroalimentare e degli OGM, etc.: settori che oggi garantiscono (anche grazie alle frequenti posizioni di oligopolio, se non di vero e proprio monopolio) tassi di profitto altissimi, che però sono concentrati al “centro”, pur avvalendosi spesso di forza-lavoro istruita altrove (v. il fenomeno del brain drain che colpisce in genere tutti i paesi coloniali e, negli ultimi anni, soprattutto la Cina per il settore ingegneristico e l’India per quello informatico). Ciò non significa che sia scomparsa l’aristocrazia operaia nei paesi a capitalismo maturo (e nei paesi coloniali). Essa persiste ma è più sfuggente: i fattori che concorrono a strutturare la sua base materiale sono plurimi e, soprattutto, all’interno di una classe lavoratrice frammentata, assume anch’essa una forma meno omogenea. Al risanamento finanziario pubblico e reddituale privato non è corrisposto un adeguato irrobustimento degli investimenti in ricerca e sviluppo e di innovazione, e tale processo è stato caratterizzato da un forte incremento del progresso tecnologico ma che ha avuto come risvolto negativo una continua diminuzione del livello di occupazione e una sua precarizzazione, con l’unico scopo di aumentare i profitti comprimendo i costi del lavoro, il salario sociale complessivo, come insieme di salario diretto e indiretto.

10. Non solo crisi economica L’usura internazionale col tempo ha escogitato anche le proprie “stanze di compensazione” internazionali, i propri istituti di regolamentazione dei vari poteri (imperialistici) concorrenti e conflittuali: ad esempio il FMI, la BM, l’OMC, l’ONU. Essi costituiscono le espressioni più vive, anche se traballanti, delle potenze imperialistiche che dettano i propri ordini del giorno, le programmazioni di agende, pongono i propri veti, annichiliscono qualsiasi forma di opposizione, spesso anche solo verbale, degli altri “soci” partecipanti a titolo non paritario, scrivono il proprio diritto internazionale che poi faranno rispettare a piacimento. C’è qualcuno che pensa che tali strumenti siano il prodromo di un unico governo globale gestito da una unica classe dominante non-conflittuale nel suo seno, laddove gli Stati non rappresentano più alcun potere, delegato tutto alla “rete” internazionale di governo globale. Al contrario, non c’è un solo “movimento” in avanti o indietro di tali soggetti che non sia conseguenza più o meno diretta delle volontà politiche dei governi che partecipano (a vario titolo e con poteri diseguali) a tali istituzioni. La presenza degli Stati è visibilissima e fortissima. D’altronde lo stesso diritto internazionale non ha altro soggetto giuridico di riferimento (soggetto di imputazione del diritto internazionale stesso) se non lo Stato sovrano e indipendente, almeno formalmente. Basterebbe fare qualche richiamo alle teorie marxiste non meccanicistiche sullo Stato, elaborate negli ultimi decenni, per poter dimostrare esso che funzione svolge e da chi è governato. Ma il problema vero di questi teorici della “post-modernità inventata” è che la loro analisi di imperi, imperialismi e conflitti inter-capitalistici non è sviluppabile, è inficiata in nuce dal momento che negano la sopravvivenza di ogni funzione statale. In pratica il capitalismo, sia al centro che in periferia e semiperiferia, continua ad intascare profitti senza creare opportunità di occupazione, ristrutturando lo stesso modo di essere dell’impresa, per seguire esclusivamente un’ottica di competitività basata su processi di delocalizzazione produttiva all’estero, decrementi occupazionali all’interno dei paesi considerati, supersfruttamento del lavoro con incrementi degli straordinari e dei ritmi, uso di lavoro nero e precario e con scarsi diritti riconosciuti ai lavoratori, in particolare con le nuove figure del lavoro atipico, con flessibilità del salario e del lavoro, con tagli continui alla spesa sociale, quindi con salari reali, diretti e indiretti, dalla capacità di acquisto sempre minore. Il tutto finalizzato a determinare profitti che, nonostante le condizioni favorevoli di cui si è detto, non vengono utilizzati in investimenti produttivi ma inseguono la speculazione finanziaria e l’investimento produttivo estero, percorrendo traiettorie verso i paesi dove si può avere un lavoro specializzato a basso costo e a basso contenuto normativo. “Se si considera la parte che fattori non economici come il patriottismo, lo spirito d’avventura, le imprese militari, l’ambizione politica e la filantropia giocano nell’espansione imperiale, potrebbe sembrare che la nostra tesi di attribuire ai finanzieri un’influenza politica così grande sia viziata da una visione della storia orientata troppo strettamente dai fatti economici. Ed è vero che la forza motrice dell’imperialismo non è principalmente finanziaria; la finanza piuttosto è il guidatore del motore imperiale, capace di dirigerne le energie e di determinarne il funzionamento, ma non è il carburante del motore, ne è essa che ne sprigiona la forza meccanica. La finanza manipola le forze patriottiche di politici, soldati, filantropi e agenti di commercio : l’entusiasmo per l’espansione che proviene da queste fonti, per quanto forte e genuino, è anormale e cieco; mentre l’interesse finanziario ha quelle qualità di concentrazione e di previsione di calcolo che sono necessarie per far funzionare l’imperialismo.”11 11. Dal Welfare al Warfare passando per il Profit State La minaccia dell’esplosione di crisi finanziarie e di seri conflitti commerciali è attuale, ma di fronte a fenomeni di questa natura, il capitalismo ha mostrato di avere una capacità di manovra superiore a quella che molti gli avevano attribuito. La soluzione a serie contraddizioni già riferite durante il processo di instaurazione di un nuovo modello di accumulazione altamente internazionalizzato costituisce la maggiore sfida del capitalismo. Le contraddizioni tra ricchezza e povertà, sviluppo tecnologico e disoccupazione, sviluppo tecnologico ed ecosistema, valorizzazione del capitale ed emarginazione di un numeroso gruppo di paesi, sono espressione della sua debolezza e del necessario carattere storico transitorio della formazione socioeconomica capitalista. Si è visto perché con le politiche neoliberiste si registra l’accentuazione dello sviluppo disuguale, non solo tra i paesi maggiormente sviluppati ed i Paesi in Via di Sviluppo, bensì molto significativamente anche all’interno dei paesi del centro capitalista. Infatti, nei paesi industrializzati il tasso di disoccupazione totale è superiore all’8% e quello dei giovani è oltre il 15%. Oggi, più di 35 milioni di persone in questi paesi cerca lavoro; più di 1/3 degli adulti ha un’istruzione inferiore alla scuola media superiore; il 40% delle famiglie più povere riceve il 18% del totale delle entrate; il salario della donna è pari a 3/4 del salario dell’uomo; 100 milioni di persone vivono sotto il limite minimo di povertà; 5 milioni di persone non hanno abitazione. Si aggiunga poi l’insicurezza di fronte alle minacce che rappresentano la diffusione di droghe “pesanti”, l’inquinamento, l’AIDS ed il crimine. Ciò succede perché anche lo Stato ha dimesso la sua funzione di regolatore del conflitto sociale e ha fatto proprie le più rigide politiche di efficienza d’impresa. Un Profit State che si identifica nelle logiche di quelle imprese che da molti anni adottano la regola che i guadagni di produttività ottenuti grazie all’introduzione di tecnologie sempre più avanzate, vengono ripartiti esclusivamente agli azionisti e ai manager, sotto forma di dividendi, aumenti di investimenti finanziari o benefici di altra natura, senza nulla lasciare alle compatibilità sociali. Questo stato di cose ha provocato, e provoca, la mancanza di redistribuzione degli incrementi di produttività ai salari diretti e indiretti dei lavoratori, i quali rivendicano il diritto di ricevere in forme remunerative dirette o indirette tali incrementi attraverso retribuzioni più elevate, o in alternativa con riduzioni dell’orario di lavoro, aumenti dell’occupazione, miglioramento dello Stato sociale, cioè forme di redistribuzione di ricchezza agli occupati e disoccupati; nell’analisi finora condotta si è potuto verificare che tutto ciò non è avvenuto, che la remunerazione del fattore capitale si è rafforzata ai danni dei salari e del fattore lavoro in generale. Sono saltati i parametri che garantivano un compromesso generalizzato tra capitale e lavoro nei paesi a capitalismo maturo; il capitale ha scardinato (continua a farlo) progressivamente tutti gli istituti politici, economici, sociali, giuridici che strutturavano quel modello di Welfare; si passa così al Warfare. Il complesso militare industriale è quello che costantemente svolge il ruolo di catalizzatore del processo militare e delle imprese militari; suoi obiettivi, tra gli altri, sono l’aumento delle assegnazioni per le spese militari, la creazione di un’economia di guerra ed il sostegno al commercio tipico del periodo di guerra. Questo fenomeno ha adottato un carattere internazionale, creando una complessa rete di legami e rapporti tra le principali potenze capitaliste, che considerano il resto dei paesi del sistema, quelli sottosviluppati, come mercato per la vendita di armamenti e fonte di ricchezza di questa politica. L’internazionalizzazione del complesso militare industriale non è isolata, ci sono i processi di internazionalizzazione del capitale e della produzione, oltre alla crescita delle imprese multinazionali e dello sfruttamento dei capitali, da parte di quei monopoli che, oltre ad essere i più importanti produttori e commercializzatori di merci, sono anche i più importanti contrattisti dei loro rispettivi governi per la produzione degli armamenti. Questi monopoli hanno disseminato le loro filiali nel resto delle potenze capitaliste e tra i membri del sistema, creando una torbida massa di interrelazioni che è servita da base per convertire il complesso militare industriale in un fenomeno che non è localizzato solo negli Stati Uniti ma che è ormai ramificato negli altri poli geo-politico-economici, in particolare in Europa con una sua specifica costruzione delle strategie militari e di ciò che potremmo chiamare scenari di sicurezza. Lo sviluppo del modo di produzione tecnologico automatizzato, che deve accompagnare a lungo termine il divenire di una fase espansiva nello sviluppo del capitalismo, potrà condurre al consolidamento transitorio della forma capitalista, di questo nuovo livello di internazionalizzazione neoliberista con risvolti di competizione globale anche a carattere militare tra paesi imperialisti grandi possibilità di progresso in termini di efficacia economica, competitività e diffusione della conoscenza, ma, nel contempo, non potrà realizzare una vera ed equilibrata internazionalizzazione mondiale integrale del nuovo paradigma tecnologico, né l’internazionalizzazione generalizzata di livelli normali di sviluppo umano.

12. Il Keynesismo militare L’imperialismo genera il militarismo e quest’ultimo consolida inevitabilmente la nascita di un gruppo di monopoli statali-militari, nonché un’ampia rete di vincoli e di rapporti tra la burocrazia politico-militare e l’industria monopolista che fornisce l’apparato militare. La spesa militare compie due funzioni essenziali nel funzionamento del capitalismo nordamericano: nell’essere essenzialmente una spesa pianificata del settore pubblico, contribuisce a contrastare le inefficienze e gli sperperi dell’economia di mercato. In effetti, mediante la spesa pubblica militare, si pianifica una parte molto importante dell’economia industriale e dei servizi. Questo fatto fu una delle scoperte dell’economia virtualmente pianificata durante la seconda guerra mondiale, periodo nel quale l’economia nordamericana raggiunse il pieno utilizzo delle risorse produttive. Successivamente l’economia di guerra ha contribuito a frenare le fasi recessive del ciclo, contribuendo al mantenimento dell’occupazione industriale e gli apparentemente accettabili livelli di crescita, misurati in termini di PIL. La possibilità di contare su ingenti fondi pubblici, con una pianificazione dettagliata delle attività di ricerca e dei risultati perseguiti, è alla base dei vantaggi tecnologici di molti rami dell’industria nordamericana che successivamente si trasferiscono alla concorrenza dei mercati dell’industria civile. Ciò spiega perché tra il 60% e l’80% della spesa pubblica in ricerca e sviluppo si destini negli Stati Uniti alla ricerca militare, percentuale molto superiore alla media OCSE che si situa intorno al 25%. Tra i paesi sviluppati, solo Francia, Gran Bretagna, Spagna e Svezia destinano percentuali superiori al 20% della spesa pubblica in ricerca nel settore militare. In Europa, dove la spesa pubblica è molto superiore a quella degli Stati Uniti, tuttavia, la maggior parte di questa è canalizzata verso servizi sociali o infrastrutture che attivano in misura molto minore la capacità industriale locale. Pertanto, sebbene la spesa militare svolga anche un ruolo nella regolazione del ciclo, per esempio di funzionamento degli stabilizzatori automatici della domanda in caso di aumento della disoccupazione, ha un impatto strutturale molto minore nella capacità produttiva dei paesi europei. In generale è significativo che la spesa militare influisce non solamente la congiuntura economica interna, ma anche la situazione sociopolitica internazionale; la spesa militare dinamizza un settore industriale orientato alla produzione di armamenti ed agisce con un effetto di investimento proprio del moltiplicatore keynesiano. Tutto ciò, agevolando e intensificando il processo di militarizzazione, provoca una spirale di economia di guerra che costituisce uno dei tratti più dinamici e contraddittori del capitalismo attuale, anche di quello italiano familiare, e di quello originariamente più a connotato statale. Questa vasta rete di vincoli tra l’industria militare e le strutture politiche e governative si esprime anche a livello personale di carriere, sotto forma di un continuo scambio di posti dirigenziali tra le giunte direttive delle grandi imprese industriali-militari più importanti e l’apparato di governo, in entrambe le direzioni. Ci sono grandi imprese industriali-militari che traggono vantaggio lavorando come appaltatori o subappaltatori dello Stato ma che, nella loro attività fondamentale, sono anche, non poche volte, produttrici di merci civili spesso di settori non monopolisti la cui attività è più legata all’economia interna che non alla produzione militare per l’estero. Esiste un insieme di fattori che alimentano attualmente anche in Italia il carattere multinazionale del complesso militare industriale. Tra questi i più importanti sono sicuramente l’ampio spettro di interessi economici e politico-militari delle potenze imperialiste nel mondo; l’impatto di un’ampia rete di basi militari fuori dal territorio nordamericano con l’esistenza di un’ampia rete di alleanze e patti militari, ora rafforzati per l’apertura della NATO con l’entrata di ex membri del Patto di Varsavia; non va inoltre dimenticato che gli Stati Uniti hanno inaugurato il ventunesimo secolo con una politica estera di estrema aggressività, che non rispetta le regole delle istituzioni internazionali e la tendenza a sviluppare un potere nucleare-tattico, diretto a dissuadere la possibilità di lottare contro l’imperialismo da parte dei paesi del Terzo Mondo. L’Europa e gli Stati Uniti hanno mantenuto livelli scientifici simili, anche se Washington ha ottenuto in generale un’applicazione tecnologica militare più efficiente. Si tratta di una transnazionalizzazione capeggiata dagli Stati Uniti, ma che è una strategia volta a consolidare la capacità dissuasiva e di aggressione di Stati che, come Israele, svolgono un importante ruolo strategico all’interno di una regione di particolare interesse; ad incrementare la capacità di mobilitazione militare degli usa, senza dover dipendere da alleanze. E’ chiaro altresì che anche per i paesi del polo europeo in cui l’Italia svolge sempre più un ruolo di alto livello, la politica aggressiva dell’imperialismo ha bisogno che le spese militari dei paesi sottosviluppati aumentino continuamente, per dare risposta alla strategia di militarizzazione dell’economia a livello mondiale. Si tratta di una strategia imperialista internazionale che oltre a sostenere e sviluppare il sistema transnazionale in vista di alti guadagni per le grandi imprese produttrici di armi e appoggiare l’accesso alle fonti di risorse energetiche e di materie prime dovunque si trovino, deve rafforzare la capacità offensiva di una rete di Stati che appoggiano la politica imperialista, dotandoli di quanto necessario per reprimere qualsiasi movimento di contestazione o di resistenza allo sfruttamento capitalista. A tal fine è strumentale la creazione di tensioni regionali relative a problemi come il narcotraffico, l’emigrazione, le dispute territoriali, l’ambiente etc.

13. La centralità dell’economia di guerra per nascondere la crisi L’attuale oligarchia è, come mai prima, al potere e questa realtà coincide con il fatto che i rapporti politico-militari, all’interno non solo della società nordamericana ma direttamente in Europa anche ad esempio in Italia, hanno raggiunto una collocazione strutturale che li ha posti, all’interno del sistema politico, allo stesso livello dei sottosistemi di governo, dei partiti e del sistema elettorale, con il vantaggio che i rapporti del complesso militare industriale si incrociano con i tre sottosistemi e presentano un livello di transnazionalizzazione non raggiunto da nessun altro componente strutturale del sistema politico-economico-produttivo, riproponendo di fatto così ciò che da decenni avviene nel sistema nordamericano. Tra la fase dell’imperialismo colonialista del secolo XIX e l’imperialismo post-coloniale di matrice nordamericana del secolo XX, il militarismo si è trasformato nel garante del potere imperialista, elemento essenzialmente politico del processo capitalista di produzione, configurando un triangolo di funzioni che determinano il carattere del sistema nel suo insieme: è l’asse dell’articolazione intersettoriale del sistema industriale nordamericano, il motore dell’innovazione tecnologica ed il fattore di accomodamento di fronte al ciclo economico. Si è sviluppato così a partire negli Stati Uniti un complesso militare-industriale che esprime l’insieme di interessi tra il capitale e lo Stato, e che il progetto paneuropeo dell’ue aspira a riprodurre con anche la specificità tutta italiana. La costruzione di un apparato militare e la nascita di un vincolo crescente tra questo, la politica del governo e l’economia, risponde, all’interno del capitalismo, al bisogno sempre maggiore di dare una risposta al processo di acutizzazione delle contraddizioni di questo regime di sfruttamento. Infatti serve, contemporaneamente, a sostenere l’ordine imperialista e a fornire, tendenzialmente, uno strumento regolatore del ciclo di riproduzione. Tale processo, che non ha origine all’interno del capitalismo, ha generato una continua crescita delle forze militari e uno stretto legame tra queste e l’economia, dando luogo, con lo sviluppo dei monopoli, alla nascita di un’industria bellica che, in modo profondamente contraddittorio, soddisfa le necessità del continuo incremento del profitto e della concentrazione del potere economico e politico nella società capitalista attuale. Nel contesto prima descritto, la crescita dell’apparato militare, insieme allo sviluppo delle sue fonti materiali di sostegno e dell’industria bellica, smette di rappresentare soltanto la continua crescita del carattere aggressivo-repressivo del capitalismo in generale e dello Stato, per diventare gradualmente una necessità del funzionamento del regime capitalista di produzione, un bisogno della riproduzione capitalista nei centri del capitalismo maturo, con le sue conseguenti ripercussioni nel resto del sistema capitalista mondiale.

E vi è poi un altro aspetto da considerare: gli USA fino ad ora: “... per rimanere in piedi devono controllare l’economia mondiale con la finanza e con le armi. Gli Stati Uniti spendono 560 miliardi di dollari OGNI ANNO per gli armamenti, per le centinaia di basi militari sparse per il mondo, dal Giappone, a Cuba, a Vicenza. La seconda nazione per spese militari è la Gran Bretagna con 59 miliardi di dollari, quasi un decimo, e la Russia di Putin segue con 35.”

Fonte: Plan B 3.0, Lester Brown

Il mondo paga la tenuta del dollaro, i 560 miliardi di dollari in armamenti. Gli Stati Uniti, di fronte a questo disastro finanziario, dovrebbero fare come la Germania nazista sconfitta e costretta a pagare i debiti di guerra e corrispondere i debiti di PACE alle nazioni che ha messo in ginocchio... Nel 1989 è caduto il muro di Berlino, nell’ottobre 2008 è caduto il muro di Wall Street insieme al delirio di una globalizzazione governata da chi ci guadagnava sopra. L’URSS non esiste più. Gli Stati Uniti, per adesso, ci sono ancora e ci spiegano l’economia, la finanza, la libertà. Ci occupano per proteggerci, fanno fallire le nostre banche, le nostre borse... Tra pochi mesi il crollo della finanza si trasferirà nell’economia reale, nella produzione. In primavera nessuno penserà più al titolo delle azioni o al conto corrente, ma al posto di lavoro, ad arrivare alla fine del mese”12. Per tutto questo l’economia di guerra e la guerra guerreggiata dovranno avere carattere strutturale, cioè ampio respiro e lunga durata con drammatiche ricadute anche sul movimento dei lavoratori dei paesi a capitalismo maturo (con i tagli al sistema pensionistico, alla sanità e allo Stato sociale con un nuovo specifico attacco ai diritti civili, sociali e sindacali).

14. Il keynesismo privatistico imprenditoriale I principi su cui poggia il capitalismo-proprietà privata dei mezzi di produzione, competitività e massimo profitto- devono essere a tutti i costi preservati e quindi cosa fanno i governi statali e del capitale ? Proteggono i ricchi e le imprese nazionalizzano, quindi socializzano sui lavoratori le perdite. Prima di tutto è necessario rilevare che le soluzioni utilizzate per cercare di porre un freno alla minaccia sempre più reale della recessione non è in linea con il concetto neoliberista della estraneità dello Stato nel funzionamento dell’economia, perché è proprio l’intervento dei governi che sta cercando di recuperare i disastri del libero mercato attraverso immense iniezioni di denaro pubblico nell’economia, sottratti alla spesa sociale con un Keynesismo di impresa e di guerra che distrugge Welfare e attacca duramente il salario sociale nel tentativo storico di far pagare la crisi ai lavoratori attraverso il Profit State, il Warfare, il Welfare dei miserabili. Ma vediamo più da vicino come si stanno comportando i vari governi dei paesi europei.

A Londra, il governo, per tentare di porre fine alla recessione, ha presentato un piano di sostegno alle banche di 500 miliardi di sterline che in sostanza corrisponde a una nazionalizzazione. Ed infatti “La Gran Bretagna scivola verso la recessione: nel terzo trimestre il Pil britannico ha segnato una contrazione dello 0,5%, superiore alle attese. E’ la prima volta dal 1992 che in Gran Bretagna si registra una contrazione del prodotto interno lordo rispetto al trimestre precedente. Il calo è superiore alle stime degli economisti che si aspettavano un -0,2% Rispetto allo stesso trimestre del 2007, il Pil britannico ha registrato un rialzo dello 0,3%, sotto la stima media di un +0,5%, dopo il +1,5% del trimestre prima. La Gran Bretagna è sulla strada della recessione per la prima volta dal 1991, anche se tecnicamente non si può parlare di ciclo recessivo (due trimestri consecutivi di crescita negativa) tenuto conto che nel secondo trimestre il prodotto interno lordo era rimasto invariato rispetto al trimestre precedente. La Gran Bretagna è il primo dei Paesi del G7 ha comunicare i dati sul Pil del terzo trimestre13”. L’Irlanda inserisce una forma di garanzia totale sui depositi bancari per un valore di oltre 400 miliardi di euro che di fatto equivale a una cifra pari al doppio dell’intero PIL. In Spagna si è annunciata la nascita di un fondo di 30 miliardi di euro per garantire il mercato interbancario; In Francia è prevista la nascita di una nuova struttura giuridica statale che possa garantire un aiuto alle banche che si trovano in difficoltà. In Germania il governo ha operato il salvataggio di quattro banche; in Russia il presidente Dmitri Medvedev ha dichiarato che sarà effettuato un maxi prestito del valore di 950 miliardi di rubli alle più importanti e grandi banche del Paese. L’Islanda colpita dalla crisi è stata costretta a nazionalizzare le 3 banche più grandi del Paese. In Olanda, Belgio e in Austria è stato alzata a 100mila euro la garanzia per i depositi bancari. E in Italia il Governo ha dichiarato che sarà creato un fondo di salvataggio di venti miliardi di euro che interverrà per aiutare gli istituti di credito in crisi; il Governo avrà una partecipazione senza diritto di voto e si impegna a immettere nuovo capitale qualora le capitalizzazioni bancarie fossero insufficienti14. Anche in Giappone sono state introdotte delle regole per cercare di contrastare gli effetti della crisi e si sono avute nuove misure per aiutare l’economia a superare questo momento. Nuove spese per un valore di quasi 40 miliardi di euro si sono aggiunte a quella già introdotte ad agosto e si è arrivati alla cifra totale di 26.900 miliardi di yen (207 miliardi di euro)15. Ed interessante è riportare quanto scritto da Fidel Castro su questo argomento “Lunedì 13 (ottobre) sono state annunciate le cifre multimilionarie di denaro che i paesi europei lanceranno nel mercato finanziario per evitare il collasso. Le azioni si sono riprese alla sorprendente notizia. Grazie agli accordi menzionati, la Germania ha impegnato nell’operazione di riscatto 480.000 milioni di Euro, la Francia 360.000 milioni, l’Olanda 200.000 milioni, Austria e Spagna 100.000 milioni ognuna e così via, sino a raggiungere, assieme al contributo della Gran Bretagna la cifra di 1.7 milioni di milioni di Euro che in quel giorno - dato che la relazione di cambio tra una e un’altra moneta varia in continuazione - equivalevano a 2,2, milioni di milioni di dollari, da sommare ai 700.000 milioni di dollari degli Stati Uniti... I paesi capitalisti europei, saturi di capacità produttiva e di merci, disperatamente necessitati di mercati per evitare gli scioperi degli operai e degli specialisti nei servizi, i risparmiatori che perdono il loro denaro, i contadini rovinati, non sono in condizione d’imporre condizioni e soluzioni al resto del mondo. Questo lo proclamano i leader d’importanti paesi emergenti e di quelli che, poveri e saccheggiati economicamente, sono vittime di scambi senza uguaglianza”16. Ed allora viene da chiedersi: chi pagherà i costi dei vari salvataggi effettuati dai Governi? Non sembra esserci dubbio sulla risposta. Saranno come sempre i lavoratori, le classi più deboli ed emarginate, aumenterà la disoccupazione, la precarietà del lavoro e del vivere sociale, saranno tagliate le spese per il Welfare senza contare i gravi disagi delle famiglie che, non riuscendo più a pagare i mutui per le abitazioni si ritroveranno senza casa. Il rapporto dell’OCSE ‘Growing Unequal’ riporta che da gennaio a settembre 2008 si è avuta una crescita del divario fra ricchi e poveri maggiore di quella registrata negli ultimi due decenni passati: questo significa che il 10% degli italiani ha un reddito medio pari a 5000 dollari (con una media OCSE pari a 7000 dollari) a fronte di un10% di italiani più ricchi che ha un reddito di 55.000 dollari (superiore alla media OCSE) “La disuguaglianza di reddito - si legge nel rapporto - è cresciuta significativamente dal 2000 in Canada, Germania, Norvegia, Stati Uniti, Italia e Finlandia, mentre è diminuita in Gran Bretagna, Messico, Grecia ed Australia”. La disparità è aumentata in due terzi dei paesi che fanno parte dell’organizzazione, spiega l’Ocse, e questo è avvenuto “perchè le famiglie ricche hanno raggiunto risultati particolarmente positivi rispetto alla classe media e alle famiglie che si trovano ai livelli più bassi della scala sociale”.17 Va evidenziato che il 10% della popolazione più ricca possiede oltre il 28% del totale del reddito disponibile; ed ancora è importante ricordare che il tasso di povertà minorile nel nostro Paese è del 15% a fronte di una media Ocse del 12%. In conclusione di questo quadro macroeconomico è chiaro che, con tali scenari di mutamento di fase, di conflittualità accesa fra area del dollaro e area dell’euro, con attenzione sempre alla variabile asiatica (Cina, Russia, Iran, India) con forti mire espansionistiche sull’Eurasia e in Asia centrale e in America Latina, che nell’immediato futuro saremo chiamati a fare i conti, in un contesto in cui la competizione globale assumerà sempre più forti connotati politico-strategici di conflitto interimperialistico.

15. Perché è crisi sistemica Ma questa crisi può essere più grave di quella del ’29 poiché non detto che i nuovi paesi competitori emergenti come ad esempio Cina, Russia, India possano compensare il crollo degli USA proprio perché questi ultimi hanno un notevole peso nel commercio mondiale, nella funzione del loro mercato finanziario e per il fatto che a tutt’oggi oltre i due terzi delle riserve monetarie internazionali sono in dollari; inoltre questa crisi ha conseguenze immediate e dirette sui lavoratori sia in termini di ulteriore aggravio della disoccupazione, del taglio al salario diretto, indiretto e differito anche attraverso la rovina dei fondi pensione, si ad esempio perché crescerà la massa dei nuovi poveri con una forte polarizzazione verso il basso anche da parte dei ceti medi che si accompagnerà ai vecchi poveri a coloro che sempre più rimarranno senza casa e che avranno sempre più intaccato il loro potere d’acquisto. Ecco perché parliamo da tempo di crisi strutturale irrisolta fomentata e allargata attraverso la deregulation finanziaria che ha determinato una sorta di dominio del capitale fittizio ma non una sua esclusività né tanto meno si potrà mai dire che tale forma di capitale sia elemento fondante o precursore dei processi di accumulazione. Si potrebbe a tal proposito in qualche modo fare riferimento ai cicli lunghi di Kontratieff che dopo una prima lunga fase espansiva, quella del dopo seconda guerra mondiale fino ai primi anni ’70 può far individuare un lungo ciclo di crisi appunto dai primi anni ’79 a tutt’oggi, e in questa lunga crisi i capitalismi tentano di realizzare profitti soprattutto attraverso la speculazione finanziaria. Ma la particolarità è che questa crisi è strutturale e sistemica e determina quindi sicuramente la fine del predominio del capitalismo e imperialismo statunitense e allo stesso tempo preannuncia la fase terminale del sistema stesso capitalista proprio perchè le possibilità di accumulazione reale del sistema hanno raggiunto il loro limite, e se nella lunga fase espansiva il modello keynesiano e gli stati di welfare keynesiani hanno permesso la crescita quantitativa del capitale è anche vero che la finanziarizzazione dell’economia, le privatizzazioni forzate, l’attacco ai diritti e al costo del lavoro,al salario diretto, indiretto e differito in tutte le sue forme non ha potuto risolvere questa crisi attraverso distruzione di valore del capitale proprio perché è crisi di sistema. La finanziarizzazione dell’economia ha portato non a una soluzione della crisi a una bolla finanziaria senza precedenti con un aggravamento della crisi economica generale; la privatizzazione dell’economia non ha portato a soluzioni tant’è che oggi sia i progressisti, la sinistra, i conservatori vogliono ritornare ad un ruolo interventista, regolatore e occupatore dello Stato in una forma di keynesismo che non ha soltanto caratteri militari e di sostenimento all’economia di guerra ma anche di forte sostegno alle imprese, alle banche, alle assicurazioni che in questa fase erano destinati a fallire senza dare invece alcuno spazio al sostenimento della domanda in spesa sociale; anche la terza forma di tentativo di uscire dalla crisi attraverso un duro attacco e compressione complessiva del costo del lavoro e quindi del salario sociale generale in forma diretta, indiretta e differita, non ha aiutato l’uscita dalla crisi poiché ha determinato una contrazione del potere di acquisto generale e quindi ha unito alla crisi di sovrapproduzione i contenuti e gli effetti di una crisi di sottoconsumo. A tutto ciò va aggiunti fenomeni assolutamente nuovi come la sovrapproduzione da sfruttamento di risorse non rinnovabili a partire dal petrolio arrivando all’acqua, ai generi alimentari realizzando quindi contemporaneamente anche crisi ambientale, crisi alimentare, crisi energetica, crisi dello stato di diritto e quindi crisi sistemica generalizzata.

16. Agire nella crisi rafforzando il conflitto sociale per la trasformazione Ma tutto ciò ha a che fare con una visione immediata di fine del capitalismo per “autodistruzione” e quindi in una sorta di teoria del crollismo? Non davvero perché il sistema capitalista troverà ancora delle modalità attuative dei capitalismi per far sopravvivere il modo di produzione capitalista, ma soprattutto perché il passaggio ad un modo di produzione altro, meglio il passaggio alla società socialista, presuppone ovviamente non solo l’esplosione dell’oggettività drammatica in cui si presenta la crisi ma la presenza organizzata della soggettività rivoluzionaria di classe che può indirizzare verso i percorsi reali di superamento del modo di produzione capitalistico e di costruzione del socialismo. Sicuramente il capitalismo statunitense potrà restare ancora un attore importante ma si realizzerà la fine di un ciclo politico in cui gli Usa non avranno una pozione dominante rispetto ad altri centri di potere come l’Europa, la Russia, la Cina, l’India, il Brasile che imporranno, anche se in maniera diversificata, nuove forme di potere politico del capitale che invece, a differenza della natura economica della crisi di cui si è detto in precedenza, entrerà in crisi soltanto se le forze soggettive del movimento operaio e di classe sapranno trasformare la crisi economica e politica in crollo e superamento del sistema di produzione capitalista in sistema di relazioni socialiste. L’attuale crisi sistemica porterà probabilmente alla fine del dominio degli Stati Uniti che sarà sostituito da nuovi centri di potere rappresentarti da Europa, Cina, India, alcuni altri paesi come Russia, Brasile. La storia dimostra che il capitalismo ha attraversato sempre crisi economiche più o meno gravi e che molto spesso le ha risolte attraverso la guerra. Questa crisi porterà alla realizzazione di un sistema multipolare nel quale gli Stati Uniti dovranno dividere il potere con altre nazioni e questo potrebbe significare l’inizio di un periodo di competizione sempre più aspra a danno come sempre della classe lavoratrice. Ed allora questa situazione potrebbe portare ad una speranza di cambiamento per la classe operaia e popolare; il sistema capitalistico non è arrivato al capolinea ma sicuramente sta attraversando un periodo molto oscuro; ed è proprio ora che la classe lavoratrice potrebbe cercare di far valere fino in fondo i propri diritti; ma bisogna dire che in Europa al momento non vi è una vera soggettività di classe capace di esprimere direzione e organizzazione del mondo del lavoro in grado di portare avanti la lotta di trasformazione radicale del modo di produzione capitalista, come invece appare oggi e forse solo nei paesi dell’America Latina dove si sta costruendo a partire dalle organizzazioni di classe dei lavoratori una reale situazione in cui è possibile avviare un programma di transizione verso un processo di superamento della società dello sfruttamento capitalistico.

Ricercatrice socio-economica, Comit. Scient. di CESTES e Dir. redaz. di PROTEO

Univ. “La Sapienza”; Direttore Scientifico CESTES e di PROTEO

Nel 1992 si ricorda infatti la cosiddetta crisi del Sistema Monetario europeo causato dalla “speculazione internazionale” che attaccò dapprima la lira (che subì una svalutazione) e poi la sterlina.

Si veda al proposito l’Economic Report of The President, 1981, Washington, USA.

http://it.biz.yahoo.com/09102008/92/liquidazione-non-sta-risparmiando-niente-nessuno.html

http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/dossier/Finanza%20e%20Mercati/2008/crisi-credito-borse-governi-banche-centrali/borse-analisi/banche-10-mesi.shtml?uuid=e84043a8-a00c-11dd-b23c-4c4868599d2c&DocRulesView=Libero

http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Finanza%20e%20Mercati/2008/10/tabella-banche-europa-classifica.shtml?uuid=43cd990c-9f93-11dd-98a2-3923c44dbd58

http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Mondo/2008/10/crisi-carte-di-credito.shtml?uuid=7b83e2d4-a5a1-11dd-bd0e-74972eef3b4a&DocRulesView=Libero

http://mwhodges.home.att.net/nat-debt/debt-nat-b.htm#financial

http://www.loccidentale.it/articolo/crisi+mutui%2C+il+governo+usa+nazionalizza+fannie+mae+e+freddie+mac.0057398

Cfr. “La grande crisi. Domande e risposte”, Il Sole24 Ore, Approfondimenti, Milano, ottobre 2008, pag. 17

Cfr. “La grande crisi. Domande e risposte”, Il Sole24 Ore, Approfondimenti, Milano, ottobre 2008, pag. 31

[6] Cfr. E.J Hobsbawm, L’età degli imperi 1875-1914, editori Laterza, 1987, pag.97

Beppe Grillo il 07.10.08, Yankees Go Home, http://www.beppegrillo.it/2008/10/yankees_go_home.html

http://temporeale.libero.it/libero/fdg/2271541.html

Cfr.http://www.metronews.it/economia/aiuti-alle-banche-per-venti-miliardi.html?Itemid=237%3FItemid%3D139118

http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Finanza%20e%20Mercati/2008/10/giappone-piano-rilancio-economia.shtml?uuid=e280552e-a666-11dd-88bf-3617f1b8e8b6&DocRulesView=Libero

Cfr. Le riflessioni del compagno Fidel, L’insolito, http://www.granma.cu/italiano/2008/octubre/juev16/reflexiones.html

http://www.tgfin.mediaset.it/tgfin/articoli/articolo430703.shtml