Lavoro produttivo e/o improduttivo

Stefano Garroni

1. Considerazioni di metodo È subito da mettere in evidenza che l’elaborazione ‘economica’ di Marx (ed ovviamente non solo quella) non è frutto né di una procedura assiomatica, né della ‘scoperta geniale’ di categorie e rapporti, prima di Marx affatto sconosciuti. Al contrario, la sua elaborazione nasce (anche) da un fitto e ben meditato rapporto con la storia della disciplina, di cui Marx individua aporie e contraddizioni, che la prospettiva da lui proposta si candida a risolutrice. Ciò significa che, in Marx, strettissimo è il rapporto fra riflessione teorica ed esperienza storicamente accumulatasi, senza che ciò comporti la riduzione della prima a mera generalizzazione della seconda. D’altronde è per questo - e non solo per la loro natura di appunti - , che le pagine marxiane che ci interessano, dedicate alla distinzione tra lavoro produttivo ed improduttivo, sono un continuo rinvio all’elaborazione di economisti che, in un modo o nell’altro, hanno già trattato il tema in questione; ed, ovviamente, anche il richiamo alle polemiche intercorse tra quegli economisti testimonia del profondo ancoraggio, che il pensiero di Marx ha con il movimento storico obiettivo della riflessione economica. Trascuriamo, ora, di documentare quanto questa caratteristica della riflessione marxiana derivi dall’influenza di Hegel, per sottolineare piuttosto come la critica a Marx, in particolare nel senso di una valutazione sostanzialmente negativa della sua eleborazione, comporti di necessità, anche, un’assunzione critica verso lo stesso svolgimento storico obiettivo del pensiero economico moderno. Il fatto che non abbiamo a che fare con ‘genialità’ o particolari intuizioni di Karl Marx significa - questo è il punto assolutamente da non trascurare - che il suo pensiero è un risultato di quel movimento storico obiettivo e che, dunque, non può essere compreso (o criticato), senza individuarne la non gratuità, la non casualità (tipo ‘l’intuizione di un genio’, appunto), ma sì piuttosto il profondo legame con una ben determinata vicenda storica effettiva. Va da sé che a questo punto, se vale quanto detto a proposito del suo rapporto col ‘movimento storico obiettivo della riflessione economica’, un problema che si pone è quello dell’originità dell’elaborazione marxiana - nel senso, concretamente, di quale sia l’apporto che Marx - e solo Marx - ha dato allo specifico ambito della riflessione economica. Come documenteranno anche le pagine che esamineremo, sarebbe difficile individuare un concetto, una categoria, che possano trovarsi solo in Marx e non già (almeno in una prima formulazione) in filosofi ed economisti, che precedettero - ed anche di molto1 - lo stesso Marx. D’altra parte, questo è vero anche per altri ambiti della riflessione marxiana: la concezione della storia come prodotto della lotta tra le classi, ad es., la troviamo nella storiografia dell’antica Grecia, come anche in tanti documenti dell’epoca moderna (perfino artistici), fino alla critica reazionaria della Rivoluzione francese; la concezione marxiana della religione non aggiunge nulla di sostanziale ad una antica tradizione di pensiero, che è esaurientemente raccolta ed illustrata nel De natura deorum di Cicerone, ovvero di un autore che Marx conosceva bene. Son tutti casi, questi (e non son gli unici), in cui il problema dell’originalità di Marx (nel senso che dicevamo prima) si pone effettivamente. Ma sono anche tutti esempi di una caratteristica della riflessione marxiana, di cui abbiamo già detto: ovvero, del suo radicarsi nell’effettivo svolgimento dell’esperienza storicamente accumulatasi. Ed a ben considerare, in tutti questi casi, l’originalità di Marx non sta tanto in ciò che egli sostiene, quanto nella prospettiva, in cui egli colloca anche risultati storicamente già acquisiti, ma che - da quella prospettiva - ricevono un senso nuovo ed una nuova capacità di svolgimento. In una parola, questa nuova prospettiva è la visione dialettica della storia, a proposito della quale, nel corso della nostra esposizione, potremo dire solo qualcosa, ma che - fin da subito - dobbiamo riconoscere come fosse, almeno potenzialmente, in qualche misura implicita già nella riflessione di economisti precedenti Marx. A questo punto è prevedibile un’obiezione: se l’originalità di Marx consistesse, in sostanza, nella prospettiva dialettica, in cui egli analizza i movimenti storici, sarebbe un’originalità ben discutibile, dopo l’elaborazione hegeliana. La risposta tradizionale a questa obiezione (che arriva anche a sostenere che l’analisi marxiana del modo capitalistico di produzione è quella che è, perché deve attenersi a modalità appunto dialettiche e non perché esattamente quelle son le caratteristiche, esibite dal modo di produzione in questione) è che quella di Marx è una dialettica rovesciata rispetto all’hegeliana. Il punto debole di questa risposta è evidente: l’espressione ‘rovesciamento della dialettica hegeliana’ è ovviamente un’espressione metaforica, che per essere effettivamente significativa va interpretata ed esplicata: insomma, non si fa scienza con le metafore; in un’esposizione scientifica può anche trovar posto una metafora, ma a patto che ne venga rapidamente ben definito il senso, dunque, a patto che cessi ben presto di essere appunto una metafora. Penso che in realtà, il modo migliore per intendere il rapporto Hegel/Marx sia, da un lato, il più ovvio ma, da un altro, il più difficile: si tratta, infatti, di accostare, confrontare, cogliere le analogie e le differenze tra precise pagine di Hegel e di Marx. Si tratta, insomma, di leggere con molta attenzione sia le opere del primo che quelle del secondo: il che, per quanto possa sembrare un’operazione ovvia, tuttavia, costituisce una difficoltà non da poco, poste le caratteristiche degli scritti sia di Hegel che di Marx. Per fare un esempio, consideriamo una pagina dell’Enciclopedia di Hegel. Nel §. 527 di quest’opera, leggiamo: “La distinzione dei ceti opera la concreta divisione della generale disponibilità (Vermögen2) - che è, appunto, un affare generale - nelle masse particolari, che sono determinate secondo i momenti del concetto, le quali hanno una propria base di sussistenza, in connessione a corrispondenti modi di lavoro, di bisogni e di mezzi per la loro soddisfazione, infine sia di abitudini, che di scopi ed interessi culturali.” Cos’è questa se non una prima formulazione di ciò che, dopo Marx, verrà detto concezione materialistica della storia ?3 Ma già in questo paragrafo hegeliano possiamo cogliere qual è il diverso - ed opposto (ma sappiamo che, nel quadro della dialettica, gli opposti si implicano l’un con l’altro!) - orientamento di lettura, a cui Marx ed Hegel si attengono nell’indagare i movimenti storici. Da filosofo, Hegel legge questi ultimi avendo come obiettivo di riuscire a determinate le forme di movimento della storia. A Marx, invece, che ha sempre polemizzato contro ogni tentazione sistematico-speculativa, interessa - per così dire - ridiscendere dalle forme dinamiche della storia, alle determinate forme di movimento, valide in un contesto storico specifico. Ed allora, se si segue l’indicazione di confrontare attentamente specifiche pagine di Hegel e di Marx, si potrà comprendere come l’analisi determinata che Marx conduce, abbia sempre - come suo presupposto e condizione - la forma dialettica generale, esposta da Hegel, ma ne sia contemporaneamente una determinazione particolare. A questo punto, possiamo passare all’analisi del testo di Marx, ma prima un chiarimento di ordine affatto pratico. Con la sigla MEW, 26.1: a cui segue il numero della pagina, intendo il testo tedesco del primo tomo delle “Theorien über Mehrwert”, pubblicato a Berlino dalla Dietz Verlag; per l’edizione italiana, ho presente la traduzione, curata da G. Giorgetti e pubblicata a Roma da Editori Riuniti nel 1961 con il titolo “Teorie sul plusvalore. I”.

La riflessione di Marx sull’endiadi lavoro pro¬duttivo/improduttivo inizia con un esplicito riferimento all’economista scozzese Adam Smith (1723-1790), che viene accusato di essere ancora una volta ambiguo, sfuggente (zweischlächtig), in quanto nella sua analisi compaiono, di fatto, due diverse - e per certi aspetti opposte - concezioni di quell’endiadi appunto. Naturalmente, Marx esaminerà ognuna di tali concezioni, cercando di metter ordine nella trattazione smithiana del tema. Perché vale la pena notarla questa iniziale critica a Smith? È del tutto chiaro che il suo implicito è che, in sede di riflessione scientifica, è assolutamente necessaria la precisione linguistico-concettuale (ovvero, delle parole, che si usano e dei concetti che, così, si esprimono). Dire ‘scienza’ significa, in effetti, produrre la teoria di un oggetto determinato (in questo caso, una teoria dell’economico), che sia in linea di principio priva di ambiguità sia linguistiche che concettuali. Ricordiamo, in proposito, che una lettura attenta dei testi di Marx mostra come, per lo più, in lui termini come materialismo o materialista siano perfettamente sostituibili con scienza e scientifico, nel senso di quell’obbligo alla determinatezza o precisione, che Smith - come abbiamo visto - non sempre rispetta.4 Anche in questo caso abbiamo il segno d’una importante influenza di Hegel su Marx. È Hegel infatti che, in varie opere, rimarca come scienza, intelletto, determinatezza, differenza siano concetti, che si richiamano l’un con l’altro e che circoscrivono l’ atteggiamento scientifico verso il mondo. In altre parole, ben lungi dal contrapporsi al mondo dell’intelletto e della scienza, Hegel mostra di comprenderne profondamente le caratteristiche, di saperlo disegnare in termini, certamente moderni e consapevolmente aperti a quella prospettiva convenzionalistica, che solo nella riflessione epistemologica del primo Novecento comparirà con tutta chiarezza. Insomma, per quanto contrasti con l’interpretazione tradizionale del rapporto di Marx con Hegel, l’istanza del rigore scientifico (nel significato prima chiarito) viene a Marx non tanto da Feuerbach, quanto (anche) dalla lezione hegeliana. Ma torniamo al testo. La prima definizione smithiana, circa la differenza tra lavoro produttivo e/o improduttivo, è così riesposta da Marx: nel senso della produzione capitalistica (sott. mia. SG), lavoro produttivo è il lavoro salariato (Lohnarbeit), che nello scambio con la parte variabile del capitale ... non solo riproduce questa parte, ma inoltre produce un Mehrwert (= plusvalore; d’ora in avanti, MW) per il capitalista: solo a questa condizione la merce o denaro si muta in capitale, vien prodotta come capitale. È produttivo solo quel lavoro salariato, che produce capitale.5 Ho sottolineato quel , perché - come vedremo anche meglio in seguito - l’esigenza di attenersi con rigore alla differenza tra lavoro produtivo e/o improduttivo all’interno del modo capitalistico di produzione, non tanto è di Smith (per quanto egli abbia dato un significativo contributo al raggiungimento di questo obiettivo), quanto propriamente di Marx - e d’altronde la cosa non sorprende, se teniamo presenti le considerazioni sopra svolte a proposito di ciò, che caratterizza l’atteggiamento scientifico. Dunque, produttivo è quel lavoro salariato, capace di produrre una quantità di valore, che - per un verso - ripaga il capitalista del denaro speso (anticipato) in salari (il capitale variabile), ma che, per un altro, produce un’ulteriore quota-parte di valore, che va oltre l’ammontare del capitale variabile e che, proprio per questo, risulta essere lavoro non pagato, ovvero plus-lavoro, o plus-prodotto, o plus-valore (MW, secondo la sigla tedesca).6 Insomma, quando produttivo vien considerato solo quel lavoro che produce MW, allora è vero che il lavoro produttivo è definito (bestimmen) dal punto di vista della produzione capitalistica e A. Smith ha espresso la cosa effettivamente secondo il suo concetto, ha afferrato il toro per le corna e va ricordato che, come Malthus ha giustamente chiarito, la distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo resta il fondamento dell’intera economia borghese.7 La tesi generale, che Marx a questo punto espone, è che la distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo non deriva dalla particolarità materiale (stoffliche Bestimmung)8 del lavoro, né dal tipo di prodotti in cui raggiunge il suo finish. Dunque, non deriva dalla determinatezza concreta o particolarità dei diversi lavori, ma sì piuttosto dalla specifica forma sociale, ovvero dai rapporti sociali di produzione, in cui quel lavoro si svolge. In questo senso, la merce in cui si realizza il lavoro produttivo può essere la più futile, dacché l’esser produttivo è una proprietà (Bestimmung) che il lavoro assume, non dal suo contenuto o dal suo risultato, ma sì dalla sua determinata (bestimmte) forma sociale.9 Naturalmente, questo è un punto-chiave, che va ben precisato: a tutta prima, nell’evidenza immediata, l’esser produttivo o non, appare come una proprietà, che appartiene al lavoro, alla ‘cosa’ lavoro. Insomma, è come se il lavoro potesse essere il soggetto di due proposizioni, mutualmente esclusive, ovvero: (i) il lavoro è produttivo; (ii) il lavoro non è produttivo. In entrambi i casi, il soggetto (il lavoro) si presenta come un che di dato, come una cosa a sé stante, a cui si possono, correttamente o non, attribuire predicati (o qualità), che - anch’essi - esistono di per sé e che, dunque, in questo senso sono cose. La prospettiva d’analisi, in cui Marx si pone, conduce, al contrario, a ‘sciogliere’ dalla loro rigidità di cose10, sia il soggetto che i predicati, i quali - tutti - vengono riproposti, ma come espressioni di rapporti ed, esattamente, di rapporti sociali, storicamente costruitisi e, quindi, storicamente superabili.11 Come si vede bene da questo esempio, la problematica dell’estraneazione dell’uomo12 e del suo superamento, gioca un ruolo centrale anche nell’elaborazione ‘economica’ marxiana.13 Per tornare ad A. Smith, il suo modo di intendere il ‘lavoro produttivo’ comporta, ovviamente, anche una determinata valutazione di cosa sia il ‘lavoro improduttivo’: come egli dice, nella gran parte, il lavoro improduttivo non dà merci, dacché la merce - in quanto tale - non è un semplice oggetto immediato di consumo, ma sì un valore d’uso, che è portatore di valore di scambio. In altre parole, la merce è sì un bene, una commodity, qualcosa che soddisfa un determinato bisogno; ma è, contemporaneamente un bene che viene immesso nel mercato, scambiato con altro e che - solo attraverso questa mediazione - può entrare nel consumo effettivo. Il lavoro improduttivo, invece, quando si realizza in un prodotto, si realizza in qualcosa, che passa immediatamente nel consumo.14 Senonché, questo modo smithiano di concepire il lavoro improduttivo ha conseguenze di grande rilievo: vediamo meglio. Per riassumere, possiamo dire, per Smith, è improduttivo il lavoratore, che può anche esser detto : costui non aggiunge valore al risultato dei suoi sforzi, della sua applicazione, tanto che - osserva Smith - impiegare numerosi lavoratori improduttivi conduce all’immiserimento del datore di lavoro, il quale, invece, si arricchisce, quando impiega lavoratori produttivi. Ciò non significa, però, che il lavoro improduttivo non produca - in alcun senso - valore, dacché esso riproduce il suo stesso valore: ciò che manca al lavoro improduttivo è di dar luogo ad un valore, eccedente il proprio. Altra differenza è che - sempre secondo A. Smith - se è vero che il lavoro produttivo si cristalliza, ha il suo finish, in un oggetto determinato o merce vendibile, che perdura nell’esistenza, almeno per un certo tempo, dopo che il lavoro è finito; altrettanto è vero che il lavoro improduttivo, generalmente, eroga un servizio, che scompare nello stesso momento in cui vien fornito.15 A questo punto, nel ragionamento inziale di A. Smith si è introdotto un elemento, che lo modifica prodondamente e che lo rende non omogeneo, ma sì contraddittorio. Se, infatti, inizialmente, la differenza tra lavoro produttivo e improduttivo era definita dalla capacità o meno di produrre MW e, quindi, se l’endiadi era valutata entro l’orizzonte del modo capitalistico di produzione; ora, invece, la differenza risulta caratterizzata dalla capacità o meno del lavoro di estrinsecarsi in una merce, che perduri nel tempo e che sia vendibile: l’orizzonte propriamente capitalistico dell’argomentazione è scomparso.16 Quali che ne siano le oscillazioni, dobbiamo comunque riconoscere che la riflessione smithiana ha colto un elemento di fondo, che costituirà una parte certamente essenziale dell’analisi marxiana del modo capitalistico di produzione: all’interno di quel modo di produzione, si dice il lavoro, che non solo ridà quanto il capitalista ha speso per l’acquisto della forza-lavoro, ma che anche produce un sovrappiù di valore, che non è altro se non lavoro non pagato.17 Per proseguire il nostro discorso, andiamo a MEW, 26.1: 134, in cui leggiamo che, a differenza della capacità di lavoro, la merce è una cosa materiale, cha sta lì contrapposta all’uomo e che ha, per lui, una determinata utilità; nella merce si cristallizza, si oggettiva un certo quantum di lavoro. È importante sottolineare come, nel lavoro che si fissa e si realizza in una merce, che ha un prezzo e che è scambiabile, Adam Smith includa tutti i lavori intellettuali, che vengono consumati direttamente nella produzione materiale: non solo il semplice lavoratore manuale e il lavoratore, che opera con macchinari, ma anche il sorvegliante, l’ingegnere, il manager etc.: in breve, tutto l’intero personale, che è presente in una determinata sfera della produzione materiale, allo scopo di produrre determinate merci e la cui cooperazione è necessaria per la fabbricazione delle merci; nella realtà, tutte queste figure, in quanto collaboranti, aggiungono al capitale costante (= schematicamente, il capitale speso per l’acquisto di macchinari. SG) il loro lavoro complessivo e, d’altrettanto, fanno crescere il valore.18 Torniamo al concetto di merce, perché a poposito di tale argomento incontriamo, nel capitolo che ci interessa, alcune pagine di grandissimo interesse. Abbiamo già avuto occasione di osservare che tipico dell’orientamento dialettico è sciogliere l’apparente rigidità o positività delle ‘cose’, per ripresentarle come espressioni di rapporti sociali, storicamente dati. È quanto capita alle categorie economiche, se sottoposte alla critica marxiana. In questo senso possiamo dire, pure, che è tipico (anche se non propriamente originale) di Marx, mostrare come ogni categoria economica non sia segno di un dominio reale, autonomo, a sé stante; sì piuttosto esprima, esplichi, svolga19 ciò, che è implicito in una relazione sociale e produttiva, storicamente determinata. Un’altra fondamentale caratteristica dell’approccio dialettico è la piena consapevolezza che l’analisi di un dominio reale dato, in nessun modo, significa la sua riduzione alla secca unità dell’idea (sto dando al termine il significato comune, non quello che lo stesso termine ha entro l’elaborazione hegeliana); ma sì coglierne, mettere in chiara luce, invece, le differenze non casuali, non episodiche, ma che derivano, piuttosto, dal ‘movimento della cosa stessa’. Se parliamo della merce in quanto valore di scambio, - così dice MEW, 26.1: 141s - quale miniaturizzazione materializzata (Materiatur) del lavoro, anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un modo di esistenza della merce, che è del tutto costruito dalla società e non ha nulla a che fare con la sua realtà corporea (non è, dunque, una sua qualità naturale - in questo senso, oggettiva, positiva; sì piuttosto il risultato d’una certa storia. SG). Infatti, la merce, in quanto valore di scambio, viene rappresentata come un quanto determinato di lavoro sociale, ovvero come denaro. A questo punto, “è possibile che il lavoro concreto, di cui la merce è il risultato, non lasci in essa alcuna traccia di sé. Nel prodotto manifatturiero (Manufakturware), invece, questa traccia resta nella forma, che la materia prima conserva esteriormente. Nell’agricoltura (Ackerbau) ecc., quando la forma che la merce (ad es., il grano, il bue, etc.) ha mantenuto è, anche, prodotto del lavoro umano e viene trasmessa/ereditata di generazione in generazione, diviene lavoro che si incorpora (nel prodotto), tanto che (la traccia di tale lavoro umano) non la si può più distinguere (nel prodotto stesso). In altri lavori industriali non c’è lo scopo di modificare la forma della cosa, ma solo la sua collocazione spaziale (Ortbestimmung) ... Dunque, in questo modo è possibile cogliere la materializzazione (Materialisierung) del lavoro nella cosa.” Il processo di materializzazione del lavoro nella cosa - il testo lo dice chiaramente - non è qualcosa di univoco che possa esser descritto una volta per tutte, non assume sempre la stessa forma. La materializzazione non comporta, sempre (o non sempre nello stesso grado), occultamento del lavoro umano, sua scomparsa in un falsificante mondo ‘oggettivo’, che naturalizza l’uomo (il suo lavoro) trasformandolo in cosa, e umanizza la cosa, nel senso di rendere proprietà dell’oggetto ciò, che deriva, invece, dall’operare umano, in condizioni determinate. Dunque, anche nella trattazione della Materialisierung del lavoro nella cosa, Marx non perde di vista l’esigenza (scientifica, come sappiamo) di descrivere il processo nelle sue diverse modalità, nelle sue differenze, rispettadone così il carattere appunto di processo reale e non riducendolo alla spettrale unità di una idea speculativa. 2. Il ‘Tableau’ di Marx: confronto con Adam Smith

Sappiamo che il capitolo, che Marx dedica al tema lavoro produttivo/lavoro improduttivo, ha una fondamentale impronta critica nei confronti dell’elaborazione di Adam Smith, e va detto che tale impronta è assai più presente di quanto non appaia di primo acchito, nel senso che non sempre la pagina di Marx indica espressamente il suo obiettivo polemico (Adam Smith, appunto). Un esempio di quanto diciamo è offerto dalle ampie considerazioni, che Marx svolge a proposito dello scambio, entro il sistema capitalistico di produzione (d’ora in avanti, KPW, sigla tratta dal tedesco kapitalistische Produktionsweise), fra reddito e capitale. Nella realtà capitalistica, osserva Marx, il reddito prodotto viene impiegato in tre direzioni: a) nell’acquisizione di prodotti consumabili individualmente; b) nella ricostituzione del capitale costante, consumatosi nel corso della produzione e c) nell’acquisto di nuovo capitale a fini di accumulazione. Nella sua analisi, tuttavia, Marx esaminerà solo a) e b), perché così hanno fatto gli economisti, Adam Smith in testa. Tale trascuratezza da parte degli economisti in generale e di A. Smith in particolare dipende proprio da una tesi di quest’ultimo, che Marx denuncia come un’autentica assurdità.20 Ma seguiamo nel dettaglio l’argomentazione marxiana, ricordando sempre la limitazione entro cui essa si sviluppa, ovvero, l’esclusione del punto c). La sorta di Tableau, che Marx costruisce e che lui stesso, in ricordo del fisiocratico Quesnay21, chiama così nella citata lettera ad Engels, parte dalla divisione della produzione capitalistica globale in due settori (A e B), il primo dei quali produce beni individualmente consumabili, mentre il secondo produce strumenti di produzione. Il primo caso possibile, che Marx analizza, è quello dello scambio di reddito con reddito, ovvero del reddito prodotto in A col reddito prodotto in B. Come Marx chiarisce, si ha scambio di reddito con reddito, quando i produttori del settore A scambiano quella parte del loro prodotto, che rappresenta profitto o salari, con quella parte del prodotto del settore B, che rappresenta anch’essa reddito. È a questo punto che troviamo un’importante precisazione di Marx, che prima riassumiamo per, poi, svolgere alcune osservazioni al suo riguardo. Se i prodotti consumabili sono prodotti proporzionalmente ai bisogni, lo sono anche le masse proporzionali del lavoro sociale, impiegate nella loro produzione (naturalmente non è questo esattamente il caso, piuttosto si danno sempre sproporzioni, deviazioni, che si parificano l’un con l’altra, nel senso che il persistente movimento alla parificazione presuppone, esattamente, queste continue sproporzioni). Dunque, a Marx interessa sottolineare che lo scambio di reddito tra A e B può assicurare un’ equilibrio fondamentale alla produzione capitalistica, solo attraverso la mediazione della concorrenza, ovvero, non direttamente, ma sì in modo indiretto, auf Umwege - secondo un’espressione, che troviamo frequentemente sia in Marx che in Hegel. Senonché lo strumento di mediazione - la concorrenza appunto - , se consente di conseguire un’ equilibrio fra domanda ed offerta, tra quantità di reddito prodotto in A e di reddito prodotto in B, continuamente ripropone, tuttavia, lo squilibrio fra le due componenti ed il risultato finale è che l’equilibrio, entro il confine della KPW, è una sorta di finalità, continuamente smentita e continuamente riproponentesi: mai raggiunta effettivamente, ma sempre presente come sollecitazione di fondo.22 Naturalmente - qui accenniamo solo al tema - , la riflessione di Marx presuppone che la questione dello scambio di reddito con reddito ed, in generale, dell’equilibrio economico entro i limiti della KPW, vada esaminata al livello non di quanto accade entro i singoli rami produttivi, ma sì a quello del capitalismo come sistema complessivo - in questo senso, come Begriff o concetto, nell’accezione hegeliana.23 Quali conseguenze tutto ciò abbia per la teoria del valore, possiamo cominciare a vederlo dal ragionamento di Marx, che sommariamente esponiamo. Se 1 braccio di tela costa solo 1 ora e questo è il tempo di lavoro necessario, che la società ha da impiegare per soddisfare il suo bisogno di 1 braccio di tela, da ciò non deriva assolutamente che, se vengono prodotti 12 milioni di braccia di tela, dunque, se sono state impiegate 12 milioni di ore di lavoro o, il che è lo stesso, 1 milione di giornate di lavoro - dunque, 1 milione di lavoratori come tessitori - , che la società abbia impiegato tale quantità di tempo-lavoro, perché ‘necessario’ alla tessitura. Posto il tempo di lavoro necessario, dunque, posto che si può produrre in una giornata una determinata quantità di tela, ci si chiede quante giornate lavorative di questo tipo siano da impiegare per la produzione di tela. Il tempo di lavoro, che viene impiegato annualmente per una certa somma di determinati prodotti, è pari ad una determinata quantità di questo valore d’uso - per es.,1 braccio di tela, che poniamo corrispondente ad una giornata lavorativa - , moltiplicato per il numero delle giornate lavorative impiegate in generale. La quantità totale del tempo/lavoro, impiegato in un determinato ramo della produzione, può collocarsi al di sopra o al di sotto della corretta proporzione rispetto alla quantità totale di lavoro disponibile socialmente, anche se ogni parte-aliquota del tempo di lavoro impiegato era quello necessario, per offrire alla società la corrispondente parte aliquota del prodotto globale. Insomma, posto che il tempo socialmente necessario per produrre la quantità tot della merce M sia xh e che il bisogno sociale di M sia di Dtot - il che significa, dal punto di vista del tempo lavoro, Dxh - , allora si pone una domanda, che non ha necessariamente una risposta positiva: ovvero, <è la società disposta ad impiegare Dxh per la produzione della quantità necessaria di M?>. Il fatto è insomma, sostiene Marx, che esiste un tempo di lavoro necessario all’interno di un certo ramo della produzione; ma esiste, al di sopra di esso, un tempo di lavoro necessario, che la società nel suo complesso è disposta a dedicare alla produzione di quel ramo, giusta la distribuzione delle ore di lavoro dal punto di vista della produzione globale. In definitiva, presupposto il valore d’uso della merce, la caduta del suo prezzo al di sotto del valore mostra che, per quanto ogni parte del prodotto sia costata solo il tempo di lavoro socialmente necessario, in quel certo ramo produttivo è stato impiegata, tuttavia, una quantità di lavoro, superiore a quello necessario dal punto di vista della società nel suo insieme. 24 Proseguendo nell’analisi, Marx ricorda che in ogni ramo della produzione, solo una parte del prodotto complessivo rappresenta reddito, vale a dire lavoro aggiunto durante l’anno, profitto e salario.25 “Il reddito di quel pezzo di merda del funzionario statale è parte del profitto e del salario; il reddito degli altri lavoratori improduttivi è la parte del profitto e del salario, che essi comprano col loro lavoro improduttivo, dunque non accresce il prodotto esistente come profitto e salario, ma determina quale parte essi ne consumano e quale i capitalisti e gli altri lavoratori.” Quindi, - si ricava dalla pagina marxiana - , rispetto a profitto e salario, il reddito è una sottrazione: il lavoratore improduttivo consuma parte del profitto e del salario, senza contropartita. Va notato come Marx, all’unisono con Smith ma forse non con altri economisti francesi del tempo26, consideri drasticamente e con evidente disprezzo il funzionario statale come un mero lavoratore improduttivo. Ancora va osservato che la parte di prodotto, che va ai lavoratori improduttivi, è una chiara esemplificazione di ciò che Marx - studiando il movimento sociale che dalla produzione porta al consumo e vice versa - indica con il termine distribuzione, ovvero quella divisione del prodotto complessivo, che avviene secondo regole sociali, dunque, secondo una ‘necessità’, che, nella KPW, assume la forma dal salario, che i lavoratori (in questo caso improduttivi) ricevono.27 Approfondendosi, l’analisi di Marx si ripropone come strumento per cogliere, sia pure all’interno di un determinato movimento complessivo, le diverse situazioni possibili, i lati differenti che, nella realtà, la ‘cosa stessa’ (ovvero l’oggetto di studio) può esibire. Si tratta, come abbiamo già sottolineato, di quel ‘gusto per la differenza’, che non solo caratterizza l’approccio scientifico, ma anche la prospettiva dialettica, che Marx riprende da Hegel. Torniamo al testo, per trovarvi una verifica di quanto abbiamo affermato. Solo in alcune sfere della produzione, la parte del prodotto rappresentante reddito può entrare in esso nella sua forma naturale o può, per il suo valore d’uso, esser consumato come reddito. “Tutti i prodotti, che rappresentano solo strumenti di produzione non possono essere consumati come reddito, nella loro forma immediata o naturale, ma solo per il loro valore.”; “una parte degli strumenti di produzione possono essere immediatamente strumenti di consumo, a seconda dell’uso possibile, come nel caso di un cavallo o di un carro, ecc.”; analogamente, una parte degli strumenti di consumo possono fungere da strumenti di produzione; d’altronde, quasi tutti gli strumenti di consumo, come strumenti del consumo stesso, possono entrare di nuovo nel processo produttivo.28 Da quanto sopra possiamo ricavare non solo la relativa ovvietà che il fatto che ogni merce possegga, oltre al valore di scambio, anche un valore d’uso, non necessariamente comporta, che la merce possa, in ogni caso, esser consumata individualmente, ovvero scambiata con reddito. Ma, anche, che un oggetto di consumo individuale può, in certi casi, volgersi in strumento di produzione e vice versa e che, dunque, ancora una volta le categorie economiche non si contrappongono rigidamente l’una all’altra, dacché possono rovesciarsi, anche, l’una nell’altra. Cambiamo ora scenario e vediamo come si presentano le cose, quando lo scambio non sia più di reddito con reddito, ma sì di reddito con capitale. I produttori dei prodotti non consumabili, non scambiabili con reddito - leggiamo in MEW, 26.1: 207s - possono consumare il loro valore di scambio, vale a dire che possono cambiarli in denaro, per poi trasformare questo stesso denaro in merci consumabili. Ma a chi possono venderli? Ad altri produttori di prodotti non consumabili individualmente? No, possono venderli solo a produttori di prodotti individualmente consumabili. Questa parte dello scambio mercantile rappresenta lo scambio del capitale di uno contro il reddito dell’altro e del reddito dell’uno contro il capitale dell’altro. Ancora una volta possiamo constatare come la problematica dello scambio tra reddito e capitale, ovvero del rapporto fra lavoro produttivo e/o improduttivo, si leghi immediatamente a quella del processo di accumulazione capitalistica, illustrata da Marx nel ‘tableau’, compreso nel 2° Libro di Das Kapital Nel caso dello scambio di reddito con capitale, lo schema riassuntivo potrebbe esser questo: il settore B (che, ricordiamo, produce merce non consumabile individualmente) vende merci al settore A (che produce, invece, merci consumabili individualmente) e ricava denaro, che poi impiega nell’acquisto di merci consumabili individualmente. Ovvero, il settore B non dà merci ad A, ma sì denaro, con il quale, poi, compra merci individualmente consumabili, che sono appunto prodotte da A. Lo scambio tra i due settori produttivi non è diretto ma mediato, dacché il movimento del passaggio del prodotto da un settore all’altro si spezza in due parti: nella prima delle quali si presenta come scambio di merce con denaro (M Æ D) e, nella seconda, di denaro con merce (D Æ M): il ciclo M Æ D Æ M si spezza in due momenti distinti, i quali, ovviamente, possono di fatto non realizzarsi entrambi.29 Procediamo nell’analisi, cogliendo la logica di un’altra forma possibile dello scambio fra reddito e capitale. Solo una parte del risultato complessivo dei produttori di beni consumabili rappresenta reddito; c’è un’altra parte, che rappresenta capitale costante. Il produttore né può consumare il valore d’uso di questa parte del prodotto, né può consumare il suo valore con lo scambiarla con prodotti consumabili di altri. Egli deve piuttosto riconvertirla negli elementi naturali del suo capitale costante: egli deve consumare industrialmente questa parte del suo prodotto, ovvero, usarla come strumento di produzione. Ma il suo prodotto, per il valore d’uso che ha, è capace solo di entrare nel consumo individuale: dunque, il produttore, per la natura stessa dell’oggetto, non può riconvertirlo nei suoi propri elementi di produzione: il valore d’uso della merce in questione esclude, infatti, il consumo industriale. Il produttore, insomma, può consumare industrialmente il suo valore, solo mediante scambio con i produttori di ognuno degli elementi di produzione, che entrano nel suo prodotto. Tanto poco questa parte del suo prodotto può entrare nel suo proprio reddito, quanto poco può sostituirla con il reddito dei produttori di altri prodotti consumabili individualmente, poiché ciò sarebbe possibile solo a condizione di scambiare il suo prodotto col loro prodotto, la qual cosa non può avvenire. Ma poiché questa parte del suo prodotto, così come l’altra parte dello stesso che egli ha consumato come reddito, per il valore d’uso che gli è proprio, può solo esser consumata come reddito, deve entrare nel consumo individuale e non può rimpiazzare il capitale costante: dunque, deve entrare nel reddito dei produttori di prodotti non consumabili, deve scambiarsi con la parte dei loro prodotti, il cui valore può esser consumato come reddito o che lo rappresenta. (MEW, 26.1: 208). Se esaminiamo questa situazione dal punto di vista dell’uno ma anche dell’altro attore, risulta che tale scambio rappresenta per A - ovvero il produttore di prodotto consumabile - conversione di capitale in capitale; lo scambio converte la parte del suo prodotto complessivo, che è pari al valore del capitale costante contenuto in esso, di nuovo nella forma naturale, in cui esso può operare come capitale costante. Sia prima che dopo lo scambio, quella parte del prodotto, per il suo valore, rappresenta solo capitale costante. Al contrario, per B, ovvero il produttore di prodotti non consumabili, la scambio rappresenta solo conversione di reddito da una forma all’altra. Egli converte la parte del suo prodotto complessivo, - che costituisce il suo reddito ed è uguale alla parte del prodotto complessivo, che rappresenta il lavoro aggiunto, cioè il suo proprio lavoro (capitale e lavoratori) - nella forma naturale in cui può esser consumato come reddito. Prima e dopo lo scambio, per il valore, esso rappresenta solo il suo reddito. (MEW, 26.1: 208s).30 Può esser utile, a questo punto, tentare un’esposizione, più semplice e schematica, dei risultati, fino ad ora conseguiti dall’analisi marxiana. Resumé - Anche se per ogni ramo della produzione vale il fatto che una parte del prodotto complessivo rappresenta reddito (profitti + salari), è anche vero, però, che quella parte del prodotto complessivo dell’intera produzione di strumenti di produzione, che rappresenta reddito, non può essere immediatamente consumata in quanto reddito. Solo in alcune sfere della produzione, la parte del prodotto rappresentante reddito può entrare, in esso, nella sua forma naturale o può, per il suo valore d’uso, esser consumato come reddito.Tutti i prodotti, che rappresentano solo strumenti di produzione non possono essere consumati come reddito, nella loro forma immediata o naturale, ma solo per il loro valore: necessità, dunque, dello scambio fra i due settori, mediato dall’equivalente generale, ovvero dal denaro. Tuttavia, le distinzioni fin qui fatte non debbono esser assunte in modo rigido (ecco la ‘plasticità’ dell’analisi scientifica e dialettica): infatti, una parte degli strumenti di produzione possono essere immediatamente strumenti di consumo, a seconda dell’uso possibile; analogamente, una parte degli strumenti di consumo possono fungere da strumenti di produzione; ed è pure vero che quasi tutti gli strumenti di consumo, come strumenti del consumo stesso, possono entrare di nuovo nel processo produttivo. I produttori dei prodotti non consumabili, non scambiabili con reddito, possono però consumare il loro valore di scambio, cioè, possono trasformarli in denaro, per trasformare poi questo stesso denaro in merci consumabili. (Lo scambio fra i due settori è, dunque, mediato dal denaro, proprio perché - in genere - i due tipi di prodotti non si convertono immediatamente l’uno nell’altro). Ma a chi gli operatori in A possono venderli quei loro prodotti? Ad altri produttori di prodotti non consumabili individualmente? No, solo a produttori di prodotti individualmente consumabili, dunque, agli operatori in B. Questa parte dello scambio mercantile rappresenta lo scambio del capitale di uno contro il reddito dell’altro e del reddito dell’uno contro il capitale dell’altro. Solo una parte, tuttavia, del prodotto complessivo dei produttori di prodotti consumabili rappresenta reddito; c’è un’altra parte, che rappresenta capitale costante. Quest’ultima né può consumarla lo stesso produttore, né può scambiarla con prodotti consumabili altrui; egli deve piuttosto riconvertirla negli elementi naturali del suo capitale costante: egli deve consumare industrialmente questa parte del suo prodotto, ovvero, usarla come strumento di produzione; ma il valore d’uso del prodotto in questione ne esclude un consumo industriale. Il produttore, dunque, può solo consumare industrialmente il suo valore, mediante scambio con i produttori di ognuno degli elementi di produzione del suo prodotto. (di nuovo, la fondamentale funzione del denaro, perché il prodotto di un tipo deve mutarsi nel prodotto di un altro tipo e siccome non si tratta di un ‘mutamento’ di tipo mistico, tanto improvviso quanto ingiustificato, allora è necessario che esista un elemento di mediazione, che consenta il passaggio da un genere all’altro - nel nostro caso il denaro appunto).

Primo ricercatore CNR

Per fare un solo esempio, così leggiamo in Platone: “Quelli che vendono l’uso della forza, chiamando salario la ricompensa, son chiamati, mi pare, salariati.” (Respublica 371e). Si noti bene, salariati son coloro che vendono l’uso della loro forza: non siamo certo lontani dalla distinzione tra lavoro e forza-lavoro! È noto l’impegno di Lenin nel sottolineare che il marxismo non è l’ideologia di una sètta, ma sì il risultato di un lungo travaglio culturale, in cui confluiscono tradizioni diverse, che in esso trovano la loro sintesi. (AAVV, Attualità del materialismo dialettico, Roma 1974: 10). Nota che i Greci indicavano i ricchi e i poveri con oi dunatoi e oi adunatoi., cioè, rispettivamente, coloro che hanno possibilità (il Vermögen tedesco) e coloro che non ne hanno. Secondo Engels, il materialismo storico ha come oggetto la società umana, le sue generali leggi di sviluppo, le leggi della nascita, del modo di funzionare e del perire delle formazioni sociali. Nel discorso funebre in onore di Marx, Engels indicò come contributo di Marx al pensiero universale la scoperta delle leggi di svolgimento della storia umana e le leggi specifiche di movimento del modo capitalistico di produzione. Si potrebbe dire che l’istanza materialistica, esprime una preoccupazione di determinatezza. Insomma, metterei insieme come indicanti uno stesso orientamento, l’enfatizzazione di determinato, sensibile, differente, materialistico, scientifico. E questo atteggiamento sembra esser comune a Kant, Hegel, Marx. Si tenga ben presente che definire scientifica l’analisi, che Marx propone del capitalismo e scientifica la prospettiva comunista, che egli stesso ne ricava, può prestarsi ad equivoci: infatti, può essere intesa nel senso (a) della loro riduzione al livello di una Einzelwissenschafr; oppure, (b) può implicare la riduzione della Sozialwissenschaft al livello della Naturwissenschaft: “Essendo persuasi della propria capacità di prevedere meglio di chiunque altro il cammino della storia, i marxisti erano imbarazzati dal fatto che questa si discostava - nel suo svolgimento reale - da alcuni chichés belli e pronti.” (Lewin, L’ultima battaglia di Lenin, Bari 1969: 123). MEW, 26.1: 122s. In MEW, 26.1: 126, leggiamo di una prima, significativa oscillazione del pensiero di A. Smith; esistono luoghi -questo Marx vuole sottolineare-, da cui risulta che per l’economista scozzese produttivo è qualunque lavoro che produca valore; in altri, invece, è chiaramente espressa la tesi, che già conosciamo, ovvero che produttivo è solo quel lavoro, che produce MW. Questa oscillazione sta a dire che l’analisi di A. Smith non si attiene rigorosamente a come le cose stanno, all’interno del modo capitalistico di produzione. Vale sottolineare che se l’endiadi lavoro produttivo/improduttivo viene rigorosamente mantenuta entro i contorni del modo capitalistico di produzione, allora è vero che “alla categoria di lavoratore produttivo appartengono tutti coloro, i quali in un modo o nell’altro prendono parte alla produzione della merce - dal lavoratore manuale propriamente al manager, all’ingegnere (in quanto distinti dal capitalista).” (MEW. 26.1: 126s). La sottolineatura è mia, SG. MEW. 26.1: 127. Metto in evidenza, ora, il termine tedesco Bestimmung, come, poco sopra, ho evidenziato l’altro termine bestimmen (quest’ultimo è un verbo, mentre il primo è il sostantivo, che ne deriva), perché costituiscono una precisa esemplificazione di una caratteristica generalmente comune ad ogni vocabolo, e che nel linguaggio e nel pensare quotidiani vien subita e non razionalmente governata: intendo la qualità di possedere più di un significato, fino all’estremo di poter esprimere concetti opposti. In effetti, se bestimmen (e i termini, che ne derivano) corrisponde all’italiano determinare, ciò è vero nel senso che è termine ambiguo, polisemico, come lo è il corrispettivo italiano. In effetti bestimmen/determinare può significare: - orientare irresistibilmente verso una certa situazione; sollecitare, richiamare, ricordare qualcosa (bestimmen rimanda a Stimme = voce ed è termine usato anche nel linguaggio religioso, per indicare la ‘voce di dio, che si fa sentire in me e che mi sollecita verso un certo atteggiamento’); ma può significare, anche, definire, circoscrivere, precisare. Anche se in effetti, di solito, nelle traduzioni italiane, bestimmen è ogni volta reso con determinare, sembra a me che convenga, invece, in contesti discorsivi diversi, scegliere tra i vari possibili significati del termine, quello che appare più adatto. È questa la regola prudenziale, che userò nella traduzione del termine tedesco (e degli altri che da lui derivano). MEW, 26.1: 127s. Si tenga presenta, inoltre, che l’espressione tedesca die Produktivkräfte der Arbeit indica, ad un tempo, lavoro, industria, abilità (Geschicklichkeit), dunque, ha un arco di significato, che dall’oggetto di lavoro arriva alla soggettiva capacità umana, alla Bildung dall’uomo storicamente raggiunta e sviluppata. “Nella storia del pensiero scientifico si rivela sempre ... l’aspirazione a convertire il funzionale in sostanziale, il relativo in assoluto, i concetti esprimenti misure in concetti esprimenti cose.” (Cassirer, La filosofia delle forme simboliche, 3.1, Firenze 1966: 27). Questo tema è particolarmente sottolinato in F. Petry, Il contenuto sociale della teoria del valore di Marx, Laterza 1973 e questo è il senso della dialektische Ableiten (deduzione dialettica), di cui in I.I. Rubin, Studien zur Marxschen Werttheorie, Europäische Verlag 1973. Da collegare a questa prospettiva logica marxiana (primato della logica delle relazioni sulla staticità della logica soggetto-predicato) è anche la tesi, per cui non è possibile definire esattamente cosa siano e quante siano le classi e le loro frazioni, al di fuori dello svolgersi della lotta di classe. Di cui un tratto fondamentale è la Verdinglichung o mistificazione sotto forma di ‘cosa’ delle relazioni storico-sociali. Che la sachliche Form (sinonimo della Verdinglichung) derivi da certe condizioni di possibilità, ovvero, dal tipo determinato di relazione sociale-produttiva, che sta al fondo della formazione sociale nel suo complesso, presuppone la concezione, secondo cui i vari livelli della vita sociale son come uno svolgersi, un esplicarsi delle condizioni materiali della produzione e che, dunque, i vari livelli e le condizioni materiali sono condizioni di possibilità gli uni delle altre - nel senso che le condizioni materiali sono il presupposto per l’esistenza di quei vari livelli ma, nello stesso tempo, questi ultimi assicurano il finish delle condizioni materiali. E questo è un ulteriore elemento dell’intima relazione esistente tra riflessione di Hegel e di Marx. In proposito è interessante quanto si legge in J. Bigo, Marxismo e umanesimo, Bompiani 1963: 39, “Niente è più caratteristico del modo con cui Marx ha letto i suoi maestri in economia politica e di quanto ne ha ritenuto. Egli è andato diritto all’idea che è la sua prospettiva essenziale e il suo punto di partenza: la ricchezza è lavoro e deriva dall’umano. Agli occhi del discepolo di Hegel questa soggettivizzazione del valore è l’apporto essenziale della nuova scienza.” Si tenga presente che la polemica contro la ‘oggettivazione’ dell’attività umana, la sua trasformazione in ‘cosa’ appartiene, anche, alla tradizione dell’irrazionalismo moderno -come mostra bene Cassirer, Filosofia delle forme simbolich. 3.1, Firenze 1966, in particolare p. 49. A differenza della critica dialettica, quella irrazionalistica intende, sempre, la proiezione all’esterno di una capacità umana, il suo realizzarsi in un’esistenza (dunque, quello che in tedesco si dice Entäußerung) come Entfremdung, ovvero creazione di una presenza obiettiva, che si rovescia in potere contro l’uomo. MEW, 26.1: 129. MEW, 26.1: 131. Marx, ovviamente, non condivide questa tesi e, contro A. Smith, sottolinea che per esser produttivo non è necessario che il lavoro si esteriorizzi in una cosa obiettiva: si considerino, per es., il lavoro di uno scrivano nello studio di un avvocato, o la recitazione di un attore o le prestazioni di una prostituta. La condizione che rende produttivo il lavoro è che l’imprenditore (avvocato, impresario, lenone, a seconda dei casi qui elencati) ricavi profitto dalle prestazioni dei lavoratori, qui, chiamati in causa; non è vero, dunque, che un lavoro per essere produttivo debba di necessità realizzarsi in una merce oggettiva (MEW, 26.1: 136s). Da quanto sopra si ricava pure un’altra tesi smithiama, non solo corretta ma che, anche, Marx riproporrà come elemento centrale del suo discorso: ovvero, se per Smith, a differenza di quello produttivo, il lavoratore improduttivo non produce merci, tuttavia, in ogni caso, il lavoro in quanto tale è una merce. (MEW, 26.1: 141). Anche questo è un motivo fondametale della ricostruzione marxiana del modo capitalistico di produzione: la produzione di MW è il risultato non già dell’opera del singolo lavoratore, sì piuttosto del lavoro complessivo, che si realizza mediante la cooperazione di lavoratori, dalle funzioni e qualifiche diverse, ma tutti collobaranti ad un unico risultato: la produzione di una quantità di valore, superiore a quella del capitale investito (ovvero, capitale variabile plus costante). Qui può inserirsi opportunamente una nota a proposito del significato del termine tedesco Arbeiter. Sta di fatto che questo termine traduce sia ciò che noi diciamo lavoratore, sia ciò che diciamo operaio ed è vero che varie voci si son levate contro la tradizionale traduzione di Arbeiter -e quindi di Arbeitrsbewegung e di Arbeiterklasse - con e non con il più generico (donde poi, rispettivamente e ). Naturalmente, ciò che importa non è, prima di tutto, quale termine si usi per tradurre Arbeiter (anche se la cosa non è affatto priva di importanza, data la carica di significato che, storicamente, si è accumulata sul termine , anche per distinguere il comunista dal socialdemocratico); ciò che veramente conta è mettere in evidenza quale sia il significato, che Marx vuole trasmetterci con quel termine tedesco. Ed allora la questione non è più oziosamente filologica, ma acquista un autentico peso reale. A questo punto, scopriamo che per tradurre correttamnte Arbeiter dobbiano aver presente Das Kapital e le migliaia di pagine, che Marx scrisse su questo argomento, ma che gli editori (Engels, Kautsky, Bernstein) non ritennero di dover inserire nei tre libri canonici. Da tale lettura ricaviamo che: 1) Arbeiter è quel lavoratore, che vende -per un certo tempo e per una certa cifra variabile (salario =Lohnarbeit)- la propria forza lavoro, producendo, invece, lavoro; 2) che dal passaggio da forza-lavoro a lavoro c’è un aumento di valore, che non vien pagato, ma che qualifica il soggetto che compie quel passaggio come lavoratore produttivo; 3) l’Arbeiter è subito parte di un lavoratore collettivo, il che comporta che vengano moltiplicati gli effetti della erogazione della singola forza lavoro: dunque, l’Arbeiter, in quanto individuo determinato, vale, all’interno del modo capitalistico di produzione, come momento particolare dell’Arbeiter come lavoratore collettivo. 4) La moltiplicazione degli effetti prodotti dall’uso della singola forza lavoro non deriva, solo, dal fatto che il soggetto reale è non il singolo, ma il lavoratore collettivo; quella moltiplicazione, infatti, è determinata, anche, dall’organizzazione del lavoro e dall’uso di tecnologie sempre più avanzate -il che significa dal crescente uso della scienza a scopi produttivi. Se precisiamo tutto ciò, comprendiamo bene che l’Arbeiter non è un qualunque lavoratore, ma sì un lavoratore che ha certe caratteristiche storiche ben determinate. In una parola è il moderno salariato, è il lavoratore dell’epoca delle rivoluzioni tecnico-scientifiche. Insomma è l’operaio moderno, con tutto il ventaglio di qualifiche possibili, a cui Marx fa cenno. Questo è l’autentico significato di due termini, frequentissimi nelle pagine sia di Hegel che di Marx: (entwickeln) e (Entwicklung). Così leggiamo nella lettera di Marx ad Engels del 6 luglio 1863: “Tu sai che A. Smith scompone completamente nel reddito il ‘natural’ o ‘necessary price’ composto di salario, profitto (interesse), rendita. Questo assurdo è passato in Ricardo, quantunque questi escluda dal catalogo la rendita, in quanto puramente accidentale. Quasi tutti gli economisti hanno accettato la cosa da A. Smith e quelli che la combattono cadono in altre assurdità. Smith stesso intuisce l’assurdo di scomporre il prodotto totale per la società in pura rendita (che può venir consumata annualmente), mentre egli per ogni singolo ramo della produzione scompone il prezzo in capitale (materie prime, macchinari, ecc.) e reddito (salario, profitto, rendita). Dato ciò, la società dovrebbe ricominciare ogni anno de novo, senza capitale.” (K. Marx - F. Engels, Carteggio, vol. IV, Roma 1951: 189). La riduzione smithiana del profitto a mero reddito è un’eredità fisiocratica. Come risulta dalla trattazione dei Fisiocratici, che Marx fa in questo stesso volume delle sue Theorien ...,, lo strumento stesso (il cui primo esemplare, ricordiamolo, è di Quesnay) sembra esser possibile, solo presupponendo una concezione della scienza come sapere sistematico; l’esistenza reale delle classi sociali e il processo della reificazione dell’economico. Com’è chiaro, si tratta di tuti e lementi, che hanno seriamente a che fare con la dialettica. È questo l’uso, che Marx fa, sulla scia di Hegel, dell’espressione tedesca Trieb. È utile sotto questo rispetto richiamare quanto scrive il sovietico Ja. Pevzner, in Il capitalismo monopolistico di Stato alla luce della teoria del valore-lavoro, Mosca 1987: 86, 87 -“Le ricerche della misura ideale del valore sono una chimera, un allontanarsi dalla vita sociale reale. La scienza reale, che si occupa dei rapporti tra le persone e tra le classi nei processi di riproduzione dei servizi, non può porsi come obiettivo quello di ricercare una misura stabile e immutabile del valore ... è assolutamente impossibile trovare queta misura nell’ambito delle utilità la cui commensurabilità dipende da un numero illimitato di fattori, dai gusti di milioni di persone (produttori e consumatori), dai desideri, dalle intenzioni, dalle possibilità che cambiano continuamente e che sono qualitativamente non confrontabili. L’unico fattore su cui la scienza è in grado di appoggiarsi nella ricerca di una misura del valore è il lavoro.” Tutto ciò, ma lo vedremo meglio in seguito, ha importanti conseguenze sulla teoria marxiana del valore. “Da questo punto di vista, il tempo di lavoro necessario ha un senso diverso. Ovvero, in quali quantità il tempo di lavoro necessario ha da esser ripartito fra le diverse sfere della produzione. La concorrenza regola costantemente questa divisione, ma nello stesso modo la rimette in questione.“, (MEW, 26.1: 202s). Insomma, Marx sta dicendo che esiste un tempo di lavoro necessario all’interno di un certo ramo della produzione; ma esiste, al di sopra, un tempo di lavoro, che la società nel suo complesso è disposta a dedicare alla produzione di quel ramo, avendo, però, presente la distribuzione delle ore di lavoro dal punto di vista della produzione globale Dunque, due significati di : (i) tempo medio richiesto per la produzione di una merce o di un tipo di merce; (ii) il tempo che la società è disposta ad investire in una certa produzione, tenendo presente la produzione complessiva. MEW, 26.1: 204. Marx non si ferma a un’analizzare il caso finora considerato, ma indica anche altre situazioni possibili: ad es., quello dell’oscillazione del valore relativo delle merci, quando mutano le condizioni della produzione. Questo pezzo di tela, che si trova al mercato, è costata 2 shellings = per es. ad 1 giornata di lavoro; tuttavia, questo stesso pezzo di stoffa può essere giornalmente riprodotto ad 1 shelling; ora, poiché il valore è orientato (bestimmen)25 dal tempo di lavoro socialmente necessario ma non dal tempo di lavoro impiegato effettivamente dal singolo produttore, così la giornata che quest’ultimo ha speso per la produzione di 1 braccio di tela è =, solo, a mezza giornata richiesta (bestimmen) socialmente. La caduta del prezzo di questo braccio di tela da 2 ad 1 shelling -e, dunque, al di sotto del valore della merce in questione- testimonia di un cambiamento delle condizioni di produzione, cioè della quantità di tempo socialmente necessario. (MEW, 26.1: 204a). Un’ altra situazione possibile è questa: non si modificano le condizioni di produzione della tela, né muta il costo del denaro, ma cresce il valore delle merci M, M’ e M” -che non entrano come componenti della tela-, allora il prezzo della tela cade in relazione a M, M’, M”. (MEW, 26.1: 204b). Rendita e interesse -ovviamente per Marx- sono parte del profitto. Si pensi, ad es., a J-B. Say, il quale rimproverava Smith perché negava il termine di prodotti ai risultati delle attività dei funzionari di Stato, arrivando a definire improduttivo il lavoro, a cui si dedicano. D’altronde -prosegue Say- Smith non nega che il lavoro dei servitori dello Stato abbia dei risultati, tra i quali indica la tranquillità, la pace, la sicurezza dello Stato, appunto. (MEW, 26.1: 238) Su questo, cf. l’Introduzione del 1857 al marxiano Zur Kritik der pölitische Ökonomie. Per il tema della distribuzione, cf. anche MEW, 26.1: 11, in cui si vede operare questa categoria già nell’opera di J. Steuart, sempre circa questo stesso tema, è utile anche MEW, 26.1: 13, dove si insiste sul fatto che la< quantità di ricchezza sociale, che spetta ai lavoratori, dipende da una ‘necessità’, contro cui l’arbitrio del singolo lavoratore non può che scontrarsi inutilmente. MEW, 26.1: 207. Una trattazione di questo ciclo o processo, nel suo insieme e nelle sue due parti componenti, vedila in K. Marx - Fr. Engels, Gesamtausgabe, zweite Abteilung. und Vorarbeiten. Band 3, Berlin 1976: 5. È chiaro che pagine come queste valgono come illustrazione del carattere necessariamente indiretto, che le categorie e i processi economici all’interno della KPW, hanno tra di loro (insomma sono un’illustrazione di quel auf Umwege, di cui abbiamo già detto); sono, quindi, un esposizione chiara, esemplificante del profondo nesso, che lega approccio dialettico e ‘via indiretta’ (auf Umwege).